sabato 27 giugno 2020

La Grande Sineddoche / 1




Neanche due ore erano passate dal bollettino col quale la Protezione civile ci aveva comunicato che i positivi erano 70.065, e 26.676 i ricoverati, 3.856 quelli in terapia intensiva, e che in isolamento domiciliare ce n’erano 39.533, e il numero dei morti erano arrivato a 10.023 – era il 28 marzo – quando, sprizzando euforia da ogni poro, Urbano Cairo comunicava ai suoi che il Covid-19 aveva aumentato del 30% gli ascolti de La7, e li spronava a moltiplicare le energie per cogliere appieno le grandi opportunità offerte dall’epidemia.
Con un palinsesto fatto per cinque settimi da talk show – Omnibus alle 8,00, Coffee break alle 9,40, L’aria che tira alle 11,00, Tagadà alle 14,15, Otto e mezzo alle 20,35, e poi in prima serata, per quattro giorni a settimana, Di martedì, Piazza pulita, Propaganda live e Non è l’arena (repliche su repliche di film visti e rivisti, negli altri tre) – una tv costa solo due soldi, ma 4-6 blocchi pubblicitari ogni ora ne fanno una gallina dalle uova d’oro, se c’è l’evento. E qui l’evento c’era, e sommamente spettacolarizzabile: pigiassero sul pedale dell’ansia e della commozione, quelli in studio, si dessero da fare a vendere spazi pubblicitari, quelli in ufficio.

Siamo onesti, chi poteva indignarsi per un calcolo del genere? Solo chi coltivasse l’assai datata idea di bene comune come bene di un corpo sociale organicisticamente inteso, dove la parte non può e non deve avere interesse diverso – non necessariamente opposto, anche solo difforme – da quello del tutto. Idea datata, e tuttavia ancora assai diffusa. Proprio nei talk show de La7, per esempio.
Cosa rendeva odioso, infatti, al pubblico fidelizzato dai talk show de La7, che qualcuno approfittasse dell’epidemia per maggiorare del 700% il prezzo dell’Amuchina? Credere nel bene comune come interesse generale rispetto al quale quello particolare non può e non deve avere segno diverso. È in nome di questo così inteso bene comune che a chi oggi traeva un utile dall’evento epidemico, come ieri da quello sismico, andava l’indignazione dei Formigli, delle Merlino, dei Floris, tutti, senza eccezione, ma se lutile veniva dallAmuchina. Non uno, infatti, riuscì a spiaccicare una sola parolina a commento della patente disparità di segno, nel contesto dell’epidemia, tra gli interessi del loro datore di lavoro e quelli del paese tutto. Qualche anno prima, sulle immagini delle macerie de L’Aquila avevano ritenuto necessario montare l’audio dell’intercettazione telefonica tra Francesco Piscicelli e Pierfrancesco Gagliardi, imprenditori edili euforici al pensiero dell’utile che avrebbero potuto trarre dalla ricostruzione. Coerenza non avrebbe voluto che sulla colonna di camion carichi di bare per le strade di Bergamo si montasse l’audio dell’euforico Urbano Cairo esortare i suoi a «darci dentro», a «stare in pista», perché «oggi abbiamo la grande opportunità di fare meglio dello scorso anno»?
Forse, ma non si poteva pretendere, come brillantemente ci spiegò il Mantellini, al quale – avrete compreso – qui ormai guardiamo come a un maître à penser: «Comprensibile [il] silenzio dei moltissimi che nell’industria culturale devono a Cairo il resistere del proprio stipendio, così come la grande cautela di molti altri, quelli che forse ora da tali risorse non dipendono, ma chissà poi domani, che il mondo è piccolo ed è meglio stare cauti». Chi, allora, se non in nome del bene comune, almeno in nome dell’onestà intellettuale, era autorizzato a indignarsi? «Quelli che non hanno molto da perdere, perché abitano già la terza classe della nave semiaffondata della cultura italiana, sia che lavorino nei media, coi libri o sui giornali, o perché sono iscritti alla curva sud del più intransigente purismo culturale».
Dovremmo concludere che la coerenza, se non l’onestà intellettuale, è un lusso che possono permettersi solo i fanatici o gli sfigati? Tutto dipende dal credere o meno nel bene comune come la Grande Sineddoche che ci dà la parte per il tutto, e viceversa.

Qui, però, occorre rilevare qualche contraddizione. L’indignazione per la maggiorazione del prezzo dell’Amuchina, infatti, è senza dubbio un elemento di drammatizzazione dell’evento epidemico, che sul piano mediatico contribuisce a spettacolarizzarlo. Ecco che, allora, questa indignazione si mette al servizio di un bene particolare che ha segno opposto a quello del tutto.
Stessa contraddizione rilevabile in chi considera «comprensibile [il] silenzio dei moltissimi che nell’industria culturale devono a Cairo il resistere del proprio stipendio, ecc.», il che denota grande indulgenza nei confronti di un bene particolare che ha segno opposto a quello del tutto (con implicita ammissione dell’aleatorietà della Grande Sineddoche), e nello stesso tempo si commuove dinanzi alla prova di senso civico data dagli «automobilisti che guidano da soli con la mascherina inutilmente indossata», che dunque potremmo definire coerenti nella fede del bene comune come bene del tutto, e cioè fanatici o sfigati. Qui, commoventi. Patetici, invece, quando indignati perché i conduttori dei talk show de La7 non si sono dimostrati equanimi nello stigmatizzare chiunque abbia lucrato sull’epidemia.
E però – sappiamo - «very well then I contradict myself / I am large, I contain multitudes». E allora la questione trascende i conduttori dei talk show de La7 (Alessandro Guerani ne ha dato una definizione tanto acuta quanto lapidaria: «la coscienza infelice della piccola borghesia») e anche il buon Mantellini, per mettere in discussione la titolarità di chi contains. In altri termini, di come e quanto la Grande Sineddoche possa reggere a fronte dell’evento epidemico. Ancora più esplicitamente: se esista veramente, o no, un bene comune che ci possa ridare il corpo sociale come unità organica. Perché a me pare evidente ci sia chi col lockdown non ha perso niente, anzi, ci ha persino guadagnato qualcosa. E non mi riferisco tanto a chi ci ha guadagnato in termini economici, ma a chi sta tentando di ricavarne una rendita morale (dove il termine qui rimanda ai mores, e cioè ai costumi che dettano etica). In un tweet ho parlato di «orfani dellepidemia», riferendomi a quanti nelle condizioni (im)poste dall’emergenza hanno trovato modo di poter candidare un interesse tutto personale a interesse generale. È chiaro che dovremo farci carico di queste vittime della fine dellepidemia con la stessa cura che riteniamo indispensabile per le vittime (sanitarie ed economiche) dellepidemia. Chiaro, altresì, che questo implicherà il prendere atto che il corpo sociale non è Uno. E questo potrà causarci qualche vertigine, come quando scoprimmo...

Quando scoprimmo che erano stati degli Elòhim a dire: «Sia la luce!» (Gen 1, 3), e non un Elòhah, il Librone quasi ci cadde di mano: Dio era sempre stato Uno, cos’era adesso questa novità?
Stessa vertigine di quando su Le Scienze leggemmo che l’Io era solo l’artefatto risultante da una complessa serie di funzioni cerebrali integrate: avevamo già concesso per tempo che fosse ambiguo, contraddittorio, sfuggente, ultimativamente insondabile, ma rinunciare al fatto che la prima persona singolare fosse quel bel Tutt’Uno cui eravamo abituati da millenni, con quanto a premessa e a conseguenza, onestamente era troppo.
Due mazzate micidiali, ma in qualche modo ci riprendemmo, perché, ok, Elòhim è plurale, ma plurale accrescitivo – ci spiegò il teologo – e dunque non sta in luogo degli dei pre-abramitici adorati dalle tribù che si affacciavano sul Giordano, ma di un unico Elòhah alla sua massima potenza, fa niente che poi questo Elòhah somigli in modo impressionante a Kemosh, quando si incazza, ad Astarte, quando è bonario, a Moloch, quando pretende sacrifici, ecc.
Anche queste neuroscienze, poi, che vogliono? Sapevamo già – ci spiegò il poeta – che «I contain moltitudes», ma chi resta il soggetto di «contain»? Sempre «I», no? E allora dov’è il problema? Sarà molto sfaccettato, ma l’Io resta monolite.
Venga pure la vertigine, dunque, dinanzi alla sorpresa che il cosiddetto bene comune non è mai comune, ci riprenderemo col considerare che comune – di sponda – lo diventa sempre.

[segue]

6 commenti:

  1. So che Cairo non è il punto ma il puntello del ragionamento, ma me lo lasci dire: quell'uomo è riuscito a farmi tifare Juve quando c'è il derby di Torino.

    RispondiElimina
  2. i concetti di "io" e di "bene comune" sono finzioni ma finzioni necessarie. Un po' come il "buongiorno" quando si entra in un negozio o in un ufficio.

    RispondiElimina
  3. ...
    Stanislaw credeva in Dio soltanto perché aveva mandato al supplizio il suo unico Figlio, cioè se stesso, e aveva nell’agonia della morte sussurrato con labbra umane parole di disperazione estrema. Una mancanza completa di logica nella religione cristiana era l’unica possibile logica della fede.
    da “Partisan Review” 1997 - Czeslaw Milosz

    RispondiElimina
  4. mah, io la farei più semplice, dicendo che il bene comune è semplicemente la somma degli interessi che si presume abbiano in comune un certo numero di persone, per esempio i cittadini di uno stato. Nulla rileva il fatto ovvio che ognuna di queste persone perseguira' il bene comune solo nella misura in cui non confligga con propri interessi particolari ritenuti più rilevanti o che ne dia l' interpretazione ritenuta più congrua ai propri interessi particolari. È ragionevole dire che lo sviluppo di un'azienda rappresenti il bene comune degli azionisti, anche se sul modo di raggiungere questo sviluppo ci saranno pareri discordanti e magari qualcuno remera' pure contro essendo azionista anche dell'azienda concorrente. Ma non mi pare proprio il caso di tirare in ballo la società organica o cose del genere...

    RispondiElimina
  5. ha fatto benissimo Cairo a spronare i suoi venditori di pubblicità

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ma certo, caro Mauro, il problema infatti non è Cairo.

      Elimina