Il
fatto che nel Novecento la dittatura abbia assunto quasi ovunque la
forma del totalitarismo ci rende assai difficile, oggi, avere idea di
quale sia la sua reale natura, che non è necessariamente
totalitaria, non foss’altro
perché l’istituto
della dittatura nasce nella Roma del V secolo a.C., mentre il
totalitarismo nasce solo ventiquattro secoli dopo: in questi
ventiquattro secoli la dittatura non ha mai mostrato il ben che
minimo interesse ad avere quel pieno controllo sull’interezza
dell’individuo
che il totalitarismo mostra di avere sulla sua vita pubblica e su
quella privata, sul suo agire e sul suo pensare, con quella
pervasività che è suo più precipuo carattere e che infatti, non a
caso, troviamo anche in un ambito non propriamente politico, come
quello religioso (si prenda a esempio un papa come Pio XI, il quale
afferma che, «se
c’è un regime totalitario, totalitario di fatto e di diritto, è
il regime della Chiesa, perché l’uomo appartiene totalmente alla
Chiesa, deve appartenerle, dato che l’uomo è la creatura del buon
Dio»).
La ragione sta nel fatto che non si può avere totalitarismo prima
che la storia abbia prodotto il concetto di individuo, e l’individuo,
come ci ha insegnato Durkheim, è prodotto che non data più di due o
tre secoli, nasce nel momento in cui la società occidentale lo
configura come entità autonoma, slegata dall’appartenenza
a quei gruppi (famiglia, corporazione, classe, etnia, ecc.) in cui
prima era dato indistinto, conferendogli uno statuto morale e
giuridico
proprio: solo da quel momento in poi diventa, insieme, soggetto e
oggetto politico; solo da quel momento in poi può agire ed essere
agito negli ambiti del costituente e del costituito.
L’esperienza
del totalitarismo ha di fatto reso impossibile, almeno ai più, di
cogliere la reale natura della dittatura, che è quella di istituto.
Le cose, d’altra
parte, non vanno molto meglio neppure a voler far distinzione, come
sennatamente raccomandato da alcuni, tra totalitarismo e
autoritarismo: anche
se la dittatura, infatti, è sempre autoritaria, non sempre
l’autoritarismo
assume forma di dittatura. È di piana evidenza, dunque, che anche
con la dittatura è accaduto quel che accade spesso quando
l’accezione
di qualcosa diventa metonimia di qualcos’altro:
perde il suo significato originario e recuperarlo finisce per
assumere carattere velleitario, in qualche modo antistorico, quasi a
voler cristallizzare un concetto nel momento che lo ha prodotto o in
uno dei passaggi storici che gli hanno conferito un significato
diverso da quello che esprimeva originariamente, ma nel quale ha
assunto caratteri grazie ai quali è stato più frequentemente
riconoscibile di lì in poi, non di rado metonimizzando uno o più
tratti della sua metaforizzazione. È inevitabile, così, che il
termine in oggetto finisca per veicolare un concetto che trova
definizioni diverse, ambigue, spesso controverse, come è dato
rilevare in una locuzione come «dittatura
sanitaria».
Vedremo per quali ragioni, essa è corretta per definire quel che è
accaduto dal marzo del 2020 ad oggi, ma non lo è affatto per
significare l’instaurazione
di un regime totalitario, come lascia intendere chi ne fa uso per
contestare le politiche di contrasto all’epidemia
di Covid-19 e chi, a questi opposto, ritiene che la locuzione sia
impropria anche a definire misure che di fatto hanno sostanziato
l’istituto
dittatoriale. Dittatura, infatti, non è nient’altro
che sospensione dello stato di diritto in ragione di uno stato di
eccezione: definizione che impone un chiarimento riguardo a cosa
siano lo stato di diritto e lo stato di eccezione, ma anche il senso
di una locuzione come «in
ragione di».
Facciamoci aiutare da Carl Schmitt: «Ciò
che negli Stati del continente europeo, a partire dall’Ottocento,
si è chiamato Stato di diritto era in realtà soltanto uno Stato
legislativo, e precisamente Stato legislativo parlamentare. […] Uno
Stato legislativo è un sistema statuale dominato da normazioni di
contenuto misurabile e determinabile, impersonali e perciò generali
prestabilite e perciò pensate per durare: uno Stato in cui legge e
applicazione della legge, legislatore e organi esecutivi sono
separati. In esso regnano le leggi, non uomini, autorità o
magistrature. O meglio: le leggi non regnano, valgono semplicemente
in quanto norma. Dominio e potere in quanto tali non esistono più.
Chi esercita il potere e il dominio agisce in base a una legge o in
nome di una legge» (Legalità
e legittimità,
1932). La dittatura non è altro che la sospensione dello stato di
diritto e si sostanzia, come Schmitt chiarisce altrove (La
dittatura,
1921), in quel «tipo
di ordinamento che prescinde in linea di principio da un’intesa e
da una consultazione con chi la deve subire e tantomeno ne attende
l’approvazione».
Perciò non deve necessariamente attendersi resistenza, per quanto
sia costretta a metterla in conto. Il suo rapporto col consenso,
dunque, è disarticolato, sia sul piano causale, sia su quello
temporale, e questa è un
altro elemento che la caratterizza rispetto al totalitarismo, che
invece nel consenso, e incondizionato, ha il fine primo e ultimo. Di
qui, il trovare la dittatura anche dove parrebbe non esservi, e cioè
in tutti quei momenti in cui lo stato di diritto cede allo stato di
eccezione nella modalità del commissariamento.
Le
pagine di Rousseau al riguardo sono illuminanti: «L’inflessibilità
delle leggi, che impedisce loro di adattarsi agli eventi, può in
certi casi renderle dannose e causare, per opera loro, la rovina di
uno Stato in crisi. L’ordine e la lentezza delle procedure
richiedono uno spazio di tempo che qualche volta le circostanze
rifiutano. Si possono presentare mille casi ai quali il Legislatore
non ha provveduto; e costituisce una previdenza quanto mai necessaria
quella di essere consapevoli che non si può prevedere tutto. Non
bisogna dunque voler irrigidire le istituzioni politiche fino a
sottrarsi il potere di sospenderne l’effetto. Anche Sparta ha
lasciato dormire le sue leggi. Ma esclusivamente i più grandi
pericoli possono bilanciare quello di alterare l’ordine pubblico e
si deve sospendere il sacro potere delle leggi unicamente quando si
tratta della salvezza della Patria. In questi casi rari e manifesti
si provvede alla sicurezza pubblica attraverso un atto particolare,
con cui se ne affida la responsabilità al più degno. Questo mandato
si può conferire in due modi, secondo il genere di pericolo. Se per
porvi rimedio è sufficiente accrescere l’attività del governo, lo
si concentra in uno o due dei suoi membri; così non si incide
sull’autorità delle leggi, ma soltanto sulla forma della loro
amministrazione. Se invece la minaccia è tale che l’apparato delle
leggi costituisca un impedimento a garantirsi da essa, allora si
nomina un capo supremo che faccia tacere tutte le leggi e sospenda
provvisoriamente l’autorità sovrana; in un simile caso la volontà
generale non è dubbia ed è chiaro che la prima intenzione del
popolo è che lo Stato non perisca. In tale maniera la sospensione
dell’autorità legislativa non l’abolisce assolutamente: il
magistrato che la fa tacere non può farla parlare e la domina senza
poterla rappresentare; può fare tutto salvo che delle leggi»
(Il
contratto sociale,
1762).
Non
deve, dunque, lasciare sgomenti il fatto che nello stato di diritto
vi sia sempre un punto in cui la gravità (qui da intendere in tutte
le sue accezioni) possa aprirsi in un buco nero. Spingersi a dire che tra democrazia e dittatura vi sia isomorfismo di potere forse è troppo, di fatto ogni costituzione liberaldemocratica prevede, ancorché implicita, la possibilità di una sospensione dello stato di diritto. Occorre, tuttavia,
che vengano tirati i fili fin qui descritti come sostanza
dell’ordito. La traccia da seguire, credo, sta nella stranezza di ciò che accade per il corso che Foucault tiene al Collège de France nel 1978-79 e a cui dà per titolo Naissance de la biopolitique: non si parlerà altro che di ordoliberismo, il neoliberismo di scuola tedesca. Alla fine del corso, Foucault ammette: «Il corso di quest’anno, alla fine, è stato interamente dedicato a ciò che doveva essere soltanto l’introduzione. Il tema in origine stabilito era dunque la biopolitica, termine con il quale intendevo fare riferimento al modo con cui si è cercato, dal XVIII secolo, di razionalizzare i problemi posti alla pratica governamentale dai fenomeni specifici di un insieme di esseri viventi costituiti in popolazione: salute, igiene, natalità, longevità, razze... Mi è sembrato che questi problemi non potessero essere dissociati dal quadro della razionalità politica entro cui sono apparsi e hanno assunto il loro rilievo, vale a dire il liberalismo, dal momento che è in rapporto a quest’ultimo che essi hanno assunto l’aspetto di una sfida...». La tesi di fondo è che l’ordoliberismo non si è limitato a chiedere «meno stato, più mercato», ma, dovendo conservare allo stato le funzioni minime che anche il più sfrenato liberismo gli riconosce, ha finito per risolversi a chiedere di trasferire allo stato le regole del mercato. Ed è così che prende forma il dispositivo.
[segue]