Il
σύν-
che rende sinonimi
gli -ονόματα
dà ragione del fatto che essi hanno in comune un significato
primario, accanto al quale ciascuno ne ha altri, accessori, che
nell’insieme
gli sono unicamente propri, il che dà fondamento all’assunto
che la sinonimia assoluta non esiste.
Sulla
natura di questi significati accessori (per meglio dire, sulla natura
del rapporto di questi distinti e specifici insiemi di significati
accessori che ogni -όνομα
ha
con il significato primario comune ad altri -ονόματα)
i dizionari sono assai vaghi, risolvendosi a considerarli «sfumature»
(Garzanti),
differenze di «tonalità»
(Palazzi), variazioni dell’«uso
espressivo e stilistico»
(De Mauro), «caratteristiche
e valori differenziati»
(Treccani), «stratifica[zioni]
dal punto di vista degli affetti, della cultura, ecc.»
(Devoto-Oli): necessariamente vaghi, occorre dire, perché il
significato primario condiviso da una serie di sinonimi è mobile in
relazione al contesto nel quale ogni -όνομα
è chiamato a co-incidere con altri -ονόματα,
mosso dal contesto in cui è pienamente efficace, e la ragione che lo
muove e il modo in cui vi giunge variano da caso a caso.
Ora,
considerando una serie di termini che tra loro sono sinonimi, il loro
comune significato primario è da intendere come un minimo comune
multiplo o come un massimo comun divisore degli insiemi di
significati ascrivibili a ciascuno? Per poter essere comune
(condivisibile) a tutti i termini che tra loro sono sinonimi,
insomma, questo significato primario deve essere riconoscibile in
tutti gli -ονόματα
come
elemento che soddisfa la condizione minima o quella massima del loro
essere significanti?
Sarà
il caso di ricorrere a un esempio. Si consideri la seguente serie di
sinonimi: detto,
massima,
motto,
sentenza,
adagio,
proverbio,
apoftegma.
Ora è chiaro che «fa’
quel che devi, accada ciò che può»
sia più massima
che proverbio,
che «in
dubio pro reo»
sia più sentenza
che motto,
che «tra
moglie e marito non mettere il dito»
sia più proverbio
che detto,
che «perinde
ac cadaver»
sia più motto
che sentenza,
che «io
so’
io e voi non siete un cazzo»
sia più apoftegma
che adagio,
ma dove cercare il significato primario che rende sinonimi
questi
termini? È nel loro minimo comune multiplo di enunciato breve fino
all’ellittico
o nel loro massimo comun divisore di decreto ingiuntivo? Per la serie
di sinonimi presi a esempio possiamo senza dubbio dire che il loro
comune significato primario è il massimo comun divisore dei diversi
insiemi di significati ascrivibili a ciascun termine: detto,
massima,
motto,
sentenza,
adagio,
proverbio,
apoftegma
co-incidono
nel contesto in cui a parlare è l’autorità
che decreta, ciascun termine dà ragione solo del tipo di autorità
che decreta (il giudice, il saggio, il dotto, il potente, ecc.).
È
questo che in qualche modo spiega perché per molti di questi
enunciati brevi fino all’ellittico
l’attribuzione
sia quasi sempre controversa. Risalendo lungo la catena di comando
che trasmette il decreto, infatti, capita spesso di poter ipotizzare
un antecedente, e non è affatto raro che la fonte data per certa non
ne riveli traccia, se non in forma tanto diversa da snaturarne il
senso. Non c’è
da stupirsene, perché questi sono gli ostacoli che normalmente si
pongono in ogni studio genealogico dell’autorità
e, in generale, in ogni forma d’indagine
che miri a scoprire la scaturigine prima del potere. Di qualunque
tipo di potere, che è a fondamento di ogni autorità. Questa,
d’altronde,
è la vera ragione che rende arduo il definirne la natura: agisce –
nel caso della serie dei sinonimi qui presi in oggetto, ingiunge –
ma non si sa da dove giunge: quando sembra di aver capito da dove si
è mosso, c’è
sempre il sospetto che quella fosse una tappa intermedia (è il caso
del concetto di «teologia
politica»);
quando se ne afferma il vettore verticale, si è costretti a fare i
conti con la sua «microfisica»,
che ne rivela la struttura «reticolare»;
per tacere del suo presunto «isomorfismo»,
che parrebbe farne un precipitato storico dai cieli del teoretico.
Non
è questa la sede per affrontare questi problemi, qui l’intenzione
è solo quella di appuntare l’attenzione su quello che è difficile
capire se sia più detto
o sentenza,
apoftegma
o proverbio,
massima
o adagio,
e parlo del decreto che ci ingiunge: «primum
vivere, deinde philosophari».
Porsi questo problema mi pare possa tornar utile a far chiarezza sul
tipo di autorità che dichiara il primato della mera vita, che è
pura astrazione, sulla vita qualificata, che è risultato del
processo storico. Quando e perché nasce questa autorità?
Ma
questa non è la sede neppure per affrontare questi problemi: qui,
risolta la questione del quando nasce l’attenzione del potere alla
mera vita dell’uomo, il problema è di ripercorrere – in breve –
lo sviluppo di questa attenzione in biopolitica, per cercare di
capire quali linee direttive le sono possibili, al netto delle
resistenze.
Si
è soliti affermare che «primum
vivere, deinde philosophari» sia
frase attribuibile a Thomas Hobbes; di fatto, almeno in questa forma,
non è rintracciabile in alcuna delle sue opere. È assai probabile
che gli sia attribuita al
pari di come si attribuisce «il
fine giustifica i mezzi»
a Machiavelli, che in realtà non l’ha
mai scritto: sarebbe l’enunciato
breve fino all’ellittico che intende proporsi a epitome del suo
pensiero politico. Ogni ellissi, si sa, è una forzatura che deve
necessariamente rinunciare all’argomentazione rimandandola a un
atto di fede, che qui, come dovunque la fede dispiana la sua pretesa,
dovrebbe essere compiuto per cieca obbedienza: «primum
vivere, deinde philosophari» decreta
in forza di una presunta autoevidenza che rende superflua
l’argomentazione.
In più, decreta in una lingua con la quale la legge a lungo ha amato
esprimersi, e questo invita a credere che abbia lontani antecedenti:
massima
e sentenza
insieme, dunque, com’è
per tutto ciò che diventa legge per il solo discendere dalla
tradizione. Si spiega, allora, il tentativo di cercare un antecedente
di «primum
vivere, deinde philosophari».
Tentativo sempre risultato vano, perché tutta la produzione
sapienziale dell’antichità,
senza eccezioni, ha sempre ribadito la superiorità dell’anima
sul corpo, del pensiero sull’azione,
ecc., e così tutte le fonti che di solito sono presentate come
antecedenti di «primum
vivere, deinde philosophari»
(Focilide, Platone, Aristotele, Cicerone, Orazio, Seneca, Lattanzio,
ecc.) di fatto smentiscono l’assunto
di un primato della materia sullo spirito, del provvedere al
procurarsi i mezzi che assicurano la mera sussistenza in vita sulla
cura delle virtù morali e intellettuali, il che trova ragione nel
fatto che, sia il mondo greco, sia quello romano, reggevano sul
lavoro degli schiavi, che assicuravano salda base al «vivere»
di chi era chiamato a «philosophari»:
è per questo che quello dello schiavo era lo statuto della cosa e
dell’animale,
e la sua era una mera vita, una ζωή;
altra cosa rispetto al βίος,
e cioè alla vita qualificata, quella del πολιτικόν
ζώον
(l’animale
fatto uomo dal suo essere prodotto storico, relazionale, politico). E
così sempre a Hobbes si è dovuti ritornare. Con quanto ne
consegue, a mio modesto avviso, sul punto che divide Foucault da
Agamben, dando ragione al primo: la biopolitica nasce nel secolo in
cui Hobbes scrive il Leviatano,
tutto ciò che sembra configurarla prima è artefatto metafisico
retroproiettato, vedere il soggetto così realizzato nella modernità dove non ve ne era che
l’embrione.
[segue]
leggiamo con vivo interesse le premesse,
RispondiEliminacelebriamo la tua resurrezione,
in attesa della tua venuta
:)
Mi scusi questo quadro è in vendita?
RispondiEliminanonostante io non apprezzi l'arte agiografica, in questo caso il ritratto di Mattarella, mi piacerebbe osservarlo di tanto in tanto in aula scolastica, mentre insegnamo ai bambini l'utilità della costruzione di una molotov e altre armi con la dovuta premessa pacifista "Ragazzi, senza offesa: solo per difesa"
Sebbene le armi facciano più vittime americane in USA che all'estero nei territori occupati dall'esercito, ma è un'argomentazione che non tiene conto di questa guerra, diversa da tutte le altre. E della prossima, diversa dalla precedente.