martedì 1 febbraio 2022

Una premessa



 

Il σύν- che rende sinonimi gli -ονόματα dà ragione del fatto che essi hanno in comune un significato primario, accanto al quale ciascuno ne ha altri, accessori, che nellinsieme gli sono unicamente propri, il che dà fondamento allassunto che la sinonimia assoluta non esiste.
Sulla natura di questi significati accessori (per meglio dire, sulla natura del rapporto di questi distinti e specifici insiemi di significati accessori che ogni -όνομα ha con il significato primario comune ad altri -ονόματα) i dizionari sono assai vaghi, risolvendosi a considerarli «sfumature» (Garzanti), differenze di «tonalità» (Palazzi), variazioni dell«uso espressivo e stilistico» (De Mauro), «caratteristiche e valori differenziati» (Treccani), «stratifica[zioni] dal punto di vista degli affetti, della cultura, ecc.» (Devoto-Oli): necessariamente vaghi, occorre dire, perché il significato primario condiviso da una serie di sinonimi è mobile in relazione al contesto nel quale ogni -όνομα è chiamato a co-incidere con altri -ονόματα, mosso dal contesto in cui è pienamente efficace, e la ragione che lo muove e il modo in cui vi giunge variano da caso a caso.
Ora, considerando una serie di termini che tra loro sono sinonimi, il loro comune significato primario è da intendere come un minimo comune multiplo o come un massimo comun divisore degli insiemi di significati ascrivibili a ciascuno? Per poter essere comune (condivisibile) a tutti i termini che tra loro sono sinonimi, insomma, questo significato primario deve essere riconoscibile in tutti gli -ονόματα come elemento che soddisfa la condizione minima o quella massima del loro essere significanti?
Sarà il caso di ricorrere a un esempio. Si consideri la seguente serie di sinonimi: detto, massima, motto, sentenza, adagio, proverbio, apoftegma. Ora è chiaro che «fa quel che devi, accada ciò che può» sia più massima che proverbio, che «in dubio pro reo» sia più sentenza che motto, che «tra moglie e marito non mettere il dito» sia più proverbio che detto, che «perinde ac cadaver» sia più motto che sentenza, che «io so io e voi non siete un cazzo» sia più apoftegma che adagio, ma dove cercare il significato primario che rende sinonimi questi termini? È nel loro minimo comune multiplo di enunciato breve fino allellittico o nel loro massimo comun divisore di decreto ingiuntivo? Per la serie di sinonimi presi a esempio possiamo senza dubbio dire che il loro comune significato primario è il massimo comun divisore dei diversi insiemi di significati ascrivibili a ciascun termine: detto, massima, motto, sentenza, adagio, proverbio, apoftegma co-incidono nel contesto in cui a parlare è lautorità che decreta, ciascun termine dà ragione solo del tipo di autorità che decreta (il giudice, il saggio, il dotto, il potente, ecc.).

È questo che in qualche modo spiega perché per molti di questi enunciati brevi fino allellittico lattribuzione sia quasi sempre controversa. Risalendo lungo la catena di comando che trasmette il decreto, infatti, capita spesso di poter ipotizzare un antecedente, e non è affatto raro che la fonte data per certa non ne riveli traccia, se non in forma tanto diversa da snaturarne il senso. Non cè da stupirsene, perché questi sono gli ostacoli che normalmente si pongono in ogni studio genealogico dellautorità e, in generale, in ogni forma dindagine che miri a scoprire la scaturigine prima del potere. Di qualunque tipo di potere, che è a fondamento di ogni autorità. Questa, daltronde, è la vera ragione che rende arduo il definirne la natura: agisce – nel caso della serie dei sinonimi qui presi in oggetto, ingiunge – ma non si sa da dove giunge: quando sembra di aver capito da dove si è mosso, c’è sempre il sospetto che quella fosse una tappa intermedia (è il caso del concetto di «teologia politica»); quando se ne afferma il vettore verticale, si è costretti a fare i conti con la sua «microfisica», che ne rivela la struttura «reticolare»; per tacere del suo presunto «isomorfismo», che parrebbe farne un precipitato storico dai cieli del teoretico.
Non è questa la sede per affrontare questi problemi, qui l’intenzione è solo quella di appuntare l’attenzione su quello che è difficile capire se sia più detto o sentenza, apoftegma o proverbio, massima o adagio, e parlo del decreto che ci ingiunge: «primum vivere, deinde philosophari». Porsi questo problema mi pare possa tornar utile a far chiarezza sul tipo di autorità che dichiara il primato della mera vita, che è pura astrazione, sulla vita qualificata, che è risultato del processo storico. Quando e perché nasce questa autorità?
Ma questa non è la sede neppure per affrontare questi problemi: qui, risolta la questione del quando nasce l’attenzione del potere alla mera vita dell’uomo, il problema è di ripercorrere – in breve – lo sviluppo di questa attenzione in biopolitica, per cercare di capire quali linee direttive le sono possibili, al netto delle resistenze.

Si è soliti affermare che «primum vivere, deinde philosophari» sia frase attribuibile a Thomas Hobbes; di fatto, almeno in questa forma, non è rintracciabile in alcuna delle sue opere. È assai probabile che gli sia attribuita al pari di come si attribuisce «il fine giustifica i mezzi» a Machiavelli, che in realtà non lha mai scritto: sarebbe l’enunciato breve fino all’ellittico che intende proporsi a epitome del suo pensiero politico. Ogni ellissi, si sa, è una forzatura che deve necessariamente rinunciare all’argomentazione rimandandola a un atto di fede, che qui, come dovunque la fede dispiana la sua pretesa, dovrebbe essere compiuto per cieca obbedienza: «primum vivere, deinde philosophari» decreta in forza di una presunta autoevidenza che rende superflua largomentazione. In più, decreta in una lingua con la quale la legge a lungo ha amato esprimersi, e questo invita a credere che abbia lontani antecedenti: massima e sentenza insieme, dunque, comè per tutto ciò che diventa legge per il solo discendere dalla tradizione. Si spiega, allora, il tentativo di cercare un antecedente di «primum vivere, deinde philosophari». Tentativo sempre risultato vano, perché tutta la produzione sapienziale dellantichità, senza eccezioni, ha sempre ribadito la superiorità dellanima sul corpo, del pensiero sullazione, ecc., e così tutte le fonti che di solito sono presentate come antecedenti di «primum vivere, deinde philosophari» (Focilide, Platone, Aristotele, Cicerone, Orazio, Seneca, Lattanzio, ecc.) di fatto smentiscono lassunto di un primato della materia sullo spirito, del provvedere al procurarsi i mezzi che assicurano la mera sussistenza in vita sulla cura delle virtù morali e intellettuali, il che trova ragione nel fatto che, sia il mondo greco, sia quello romano, reggevano sul lavoro degli schiavi, che assicuravano salda base al «vivere» di chi era chiamato a «philosophari»: è per questo che quello dello schiavo era lo statuto della cosa e dellanimale, e la sua era una mera vita, una ζωή; altra cosa rispetto al βίος, e cioè alla vita qualificata, quella del πολιτικόν ζώον (lanimale fatto uomo dal suo essere prodotto storico, relazionale, politico). E così sempre a Hobbes si è dovuti ritornare. Con quanto ne consegue, a mio modesto avviso, sul punto che divide Foucault da Agamben, dando ragione al primo: la biopolitica nasce nel secolo in cui Hobbes scrive il Leviatano, tutto ciò che sembra configurarla prima è artefatto metafisico retroproiettato, vedere il soggetto così realizzato nella modernità dove non ve ne era che lembrione.

[segue]

2 commenti:

  1. leggiamo con vivo interesse le premesse,
    celebriamo la tua resurrezione,
    in attesa della tua venuta
    :)

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  2. Mi scusi questo quadro è in vendita?

    nonostante io non apprezzi l'arte agiografica, in questo caso il ritratto di Mattarella, mi piacerebbe osservarlo di tanto in tanto in aula scolastica, mentre insegnamo ai bambini l'utilità della costruzione di una molotov e altre armi con la dovuta premessa pacifista "Ragazzi, senza offesa: solo per difesa"

    Sebbene le armi facciano più vittime americane in USA che all'estero nei territori occupati dall'esercito, ma è un'argomentazione che non tiene conto di questa guerra, diversa da tutte le altre. E della prossima, diversa dalla precedente.

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