martedì 14 gennaio 2014

Corrispondenze

Riproduco qui sotto una email inviatami da Nane Cantatore.

Credo che la posizione antispecista non stia in piedi per una patente contraddizione logica, tanto grossa da renderla insostenibile: essa infatti sostiene una continuità tra l’uomo e l’animale, a partire dalla comune capacità di sentire e di soffrire. Lasciamo perdere l’evidente arbitrio per cui proprio tale capacità dovrebbe essere fondativa di diritto, anche solo nella limitatissima accezione del diritto a non provare sofferenza, e concentriamoci sulla contraddizione, talmente grossa da essere, a mo’ di purloined letter, invisibile: proprio tale condizione, tanto primaria da abolire ogni differenza tra uomo e animale, sarebbe all’origine dell’imperativo etico, il quale varrebbe però soltanto per l’uomo, appunto perché solo l’uomo è soggetto morale. A riprova di tale affermazione, valga il fatto che i comportamenti crudeli dei delfini, che stuprano e uccidono i cuccioli di focena e della loro stessa specie, o dei leoni, la cui violenza intraspecifica è molto superiore a quella umana, non vengono giudicati moralmente, salvo essere accusati, per l’appunto, di antropocentrismo. In altre parole, l’identità tra uomo e animale sancirebbe un dovere fondato sulla differenza tra uomo e animale.
Se questo approccio è insensato, non credo però che lo sia la domanda a cui cerca di rispondere, e a cui credo siamo comunque chiamati tutti a dare una risposta. La pongo nei termini con cui viene espressa in un commento al suo secondo post: Prima di tutto dovrebbe spiegare perché non è giusto provocare sofferenze agli animali?”
Perché se pensassimo che le sofferenze provocate agli animali fossero un che di moralmente indifferente, il problema non si porrebbe, e non solo per la sperimentazione ma per qualsiasi crudeltà. Invece, riteniamo che tali sofferenze siano comunque un male, che può essere accettabile per un bene maggiore (il topo sacrificato per la ricerca medica), e comunque da limitare al massimo (il topo sia sedato, gli esperimenti effettuati solo quando necessario e così via), ma non in tutti i casi (non, ad esempio, per la sperimentazione di cosmetici). Si potrebbe porre la questione in termini puramente quantitativi, come una contabilità della sofferenza accettabile per un dato bene, ma tale risposta avrebbe innanzitutto il difetto di essere arbitraria e imprecisa, tanto da faticare a immaginarla davvero dirimente: anche una volta accettata la sperimentazione limitata e controllata, cosa fare dell’uccisione di animali a scopo alimentare? E cosa fare, spostando l’asticella, dell’uccisione di animali a scopo ludico? Perché, in altre parole, la bistecca sì e la corrida no? Soprattutto, però, la questione resta: mentre è facile trovare dei motivi razionali per vietare l’omicidio, il furto o la menzogna, è difficile giustificare, una volta messa fuori causa l’empatia verso altri senzienti dalle motivazioni razionali delle prescrizioni morali, l’immoralità, o comunque la connotazione negativa, dell’infliggere sofferenza agli animali.
Per provare a rispondere, devo cercare di chiarire un carattere fondamentale di ogni proposizione morale che abbia un senso: essa ha un carattere necessariamente intersoggettivo, ossia passa per il riconoscimento di un’alterità a cui si riconosce una validità o, per dirla in termini più pregnanti, una dignità. È nei confronti di questo altro che sono moralmente obbligato: in un mondo assolutamente solipsistico non ho obblighi, mentre già nel paradossale universo idealista di Berkeley, o nei primi passaggi cartesiani in cui ci sono soltanto l’ego cogitans e Dio, esiste per lo meno una matrice di moralità.
Uscendo dalle iperboli metafisiche, la morale vincola rispetto a soggetti reali e interagenti, a partire dal loro riconoscimento. Un riconoscimento che non ha ancora, in questa fase, le caratteristiche della reciprocità: quando il vincolo è reciproco, dalla morale si passa alla norma, al diritto. Ma, e qui sta il punto cruciale, questa fase primigenia della morale senza reciprocità, in cui l’altro non è coobligato insieme a me, è una pura finzione filosofica: se devo agire verso altri secondo dei principi conformi alla mia condizione rispetto a questi altri, o tale condizione è fondata sul riconoscimento reciproco o i diritti che riconosco loro, in quanto non danno luogo ad alcun obbligo intersoggettivo, sono semplici diritti passivi, ossia concessioni, revocabili in qualsiasi momento, e un obbligo revocabile e dipendente dalle circostanze o dalla volontà non è un obbligo morale. Mi chiarisco: è chiaro che ogni ingiunzione morale può essere disattesa, ma il suo valore resta a dispetto dei fatti; se, invece, tale ingiunzione non ha un fondamento vincolante, ma riposa integralmente nella volontà, o nell’arbitrio, di chi se la impone, allora essa perde il suo carattere imperativo. Insomma, la morale è subito diritto, e credo che Hegel abbia ragione (anche) su questo.
Vorrei essere chiaro: nel definire imperativi gli obblighi morali non intendo fare riferimento a dettami provenienti dall’alto di una rivelazione o comunque legati a una qualche immutabilità ontologica o esistenziale (come mi pare facciano gli antispecisti con la loro scaturigine dell’etica dal dato ontologico della sensibilità), ma a un carattere formale della norma. Essa è tale soltanto se ha un carattere generale o se riconduce comunque a esso, anche quando tale carattere fosse nel criterio generalissimo della maggiore utilità possibile per il maggior numero di individui, e tale carattere resta a dispetto di ogni convenienza o contingenza che, semmai, concorre a determinare e a specificare la norma.
Provo, finalmente, ad arrivare al punto: da quanto detto finora, risulta che gli animali non possono essere soggetto di diritti, ma soltanto oggetto di concessioni. Detto questo, vorrei però esaminare il carattere del rapporto dell’uomo con gli animali, cercando di muovermi su un terreno di continuità, proprio per recuperare un piano di reciprocità. Credo che questo terreno sia quello dell’etologia e dell’ecologia, vale a dire della struttura dei comportamenti all’interno di modelli non morali ma comunque generatori di risposte complesse, vale a dire di significato, e delle interazioni tra specie all’interno di uno stesso ambiente.
Ora, l’addomesticamento di numerose specie animali è avvenuto su un piano di reciproca convenienza, ossia di simbiosi: le diverse specie addomesticate hanno visto un netto incremento del loro successo riproduttivo, della disponibilità di cibo e riparo, dell’estensione stessa del loro habitat. L’uomo, a sua volta, ne ha ricavato a sua volta fonti di cibo più variate, affidabili e abbondanti, oltre a tutta una serie di altri benefici per attività che lo caratterizzano in modo peculiare rispetto agli altri animali, dal vestirsi al guerreggiare. In altre parole, se l’uomo non si nutrisse (anche) di bistecche, ci sarebbero molte meno mucche sul pianeta. Del resto, da quando non si usa più la trazione animale, ci sono molti meno cavalli e asini: l’introduzione dei veicoli a motore è stata, in questi termini, una catastrofe ecologica per tali specie.
A queste condizioni, la sofferenza del singolo animale è, dal punto di vista di questa economia simbiotica, accettabile nella misura in cui essa fa parte delle condizioni del successo evolutivo di tale specie: il maiale può essere macellato per farne salsicce, dal momento che le salsicce sono la ragione per cui la specie del suino domestico è enormemente più numerosa di quella del suino selvatico. È altrettanto chiaro che questa sofferenza va tenuta al minimo necessario, dal momento che ogni specie, e ogni individuo di ciascuna specie, ha il chiaro interesse a non soffrire. In questo senso, il mutare delle condizioni reali può spostare il livello di sofferenza accettabile: il cavallo di un carrettiere faceva una vita indubbiamente peggiore di un cavallo da maneggio, ma in entrambi i casi la specie equina godeva di un vantaggio simbiotico.
Fin qui, il tentativo di inquadrare la questione in senso ecologico. Passando al versante etologico, ritroviamo l’intero universo di relazioni e di empatia che osserviamo tra ogni animale, uomo ovviamente compreso. Insomma, è palese il fatto di un reciproco investimento emotivo tra uomo e animale, che avviene secondo forme di fatto codificate: si riconosce quando un cane è amichevole, esistono segnali e comportamenti che possono indurre alla tranquillità o all’aggressività mammiferi di specie diverse, e così via. Si riscontra una notevole continuità nel comportamento umano e in quello animale, e non sembra peregrina l’ipotesi che alcuni comportamenti degli aggregati umani siano più simili a quelli dei canidi che degli altri primati, fino a poter ritenere, come fanno diversi paleoantropologi, che alcuni caratteri delle prime società umane siano stati fortemente informati dalla presenza dei cani.
Ciò giustifica ampiamente la repulsione che proviamo verso le sofferenze di altri esseri senzienti,  e persino la legittimità di legiferare per il loro massimo contenimento: infliggere sofferenze senza uno scopo è crudele, e la crudeltà è repellente e socialmente distruttiva; di conseguenza, reprimiamo la crudeltà. Detto per inciso (giuro, è l’ultimo inciso), questa proposizione vale anche in una prospettiva morale di utilitarismo debole, ma ciò è dovuto al fatto che l’utilitarismo debole (vale a dire, una prospettiva che non ponga la massima utilitarista come imperativo morale, ma come semplice criterio organizzativo) non è una dottrina morale, neanche intesa come morale “dal basso”. Lo è invece  l’utilitarismo forte (alla Bentham), che, proprio perché si dota di una massima semplice e dotata di una certa evidenza, è una dottrina morale abbastanza elegante ed efficace.
Allo stesso modo, limitare le sofferenze degli animali da laboratorio o garantire buone condizioni di vita agli animali da allevamento non è ipocrisia, come sarebbe se esistesse un imperativo morale a cui si tributasse l’ossequio della forma per poi tradirlo nella sostanza, ma una scelta dettata dalla nostra empatia animale e, a fortiori, umana; scelta che è perfettamente funzionale all’economia simbiotica di cui sopra.
Da qui al diritto, però, c’è un abisso.

59 commenti:

  1. "una scelta dettata dalla nostra empatia animale" c'è chi ha questa empatia socialmente più sviluppata: vegani, contrari alla SA, contrari alla caccia: c'è forse da condannarli per questo?
    D'altronde le ingiustizie una volta giustificate sui neri e gli ebrei no erano forse dettate da una minore empatia? ciò che oggi impedisce ai gay di tutto il mondo di accedere agli stessi diritti delle coppie eterosessuali non è forse una minore empatia verso questa minoranza?

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    1. «non è forse una minore empatia verso questa minoranza?»

      Ma che discorsi: qui l'empatia è chiamata in causa per giustificare un'attenzione non fondata su altri argomenti, cioè non descrive la codificazione di un diritto da reciprocare. Possiamo azzerare l'argomento da empatia e giungere lo stesso a codificare pressoché gli stessi diritti tra membri della razza umana. Almeno, questo a me pare che sia l'argomento svolto. Ci si attenga, facendo un minimo sforzo di rigore, che non se ne può più (e ci si firmi, quando capita).

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    2. Nessuno condanna vegani, contrari alla SA, contrari alla caccia: sei e rimani libero di non mangiare carne e derivati animali, di non usare farmaci e prodotti sperimentati sugli animali, di non andare a caccia.
      Le ingiustizie sui gruppi umani e il loro superamento non sono state dettate da maggiore o minore empatia: c'è gente con amici gay contraria comunque al matrimonio omosessuale, e anche molti schiavisti sudisti provavano empatia per gli schiavi africani e li trattavano in modo più "umano" senza per questo sostenere che avessero dei diritti, diritti che tutte le minoranze si sono conquistate poi nei secoli al prezzo di lotte, manifestazioni e sovente con il loro sangue: gruppi che non godono comunque di soli diritti, ma anche di doveri e che sono quindi soggetti alle stesse identiche leggi dei gruppi umani dominanti; per gli animali questo non sarebbe possibile: l'empatia che possiamo provare, per esempio, per i cani produce leggi, che non sono diritti ma concessioni basate sul fatto che sono animali ritenuti carini e simpatici, che mi impediscono di mangiarli o di abbandonarli sulla strada; allo stesso modo la assai minore empatia verso le mosche non producono leggi che mi impediscano di schiacciarle con lo scacciamosche quando mi danno fastidio, ma resta il fatto che i cani non hanno comunque più diritti che le mosche, cioè zero.

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    3. "diritti che tutte le minoranze si sono conquistate poi nei secoli al prezzo di lotte, manifestazioni e sovente con il loro sangue"

      Innegabile. Ma dimmi, è giusto? Bisogna opprimere finché non lo si può più fare? Succedono cose tanto brutte se si smette prima?

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  2. Ciao. Se la veloce (purtroppo) lettura che ho dato a questo post non è stata troppo superficiale, il ragionamento dell’autore si svolge in questo modo.
    1- L’antispecismo si rivela incoerente perché intrinsecamente contraddittorio: il diritto si basa su una presunta uguaglianza che, di fatto, è una disuguaglianza.
    2- Rimane comunque da spiegare perché non rigettiamo direttamente tale posizione contraddittoria.
    3- La spiegazione è rintracciabile mediante il ricorso a considerazioni di carattere extramorale (empatia, evoluzionismo, etologia, etc.)
    Nonostante nutra molteplici dubbi riguardo le ragioni esposte a riguardo del punto 3 (intravedo preoccupanti tracce di spiegazione “panglossiana”), la questione importante è la 1 e, in questo caso, non ho trovato alcuna affermazione accettabile in suo favore. Se, di nuovo, la mia veloce lettura non mi inganna, l’argomento per essa suona più o meno così:
    A- Il riconoscimento della dignità di un individuo è condizione della rilevanza morale.
    B- Ciò, tuttavia, non è sufficiente perché si dia un vero e proprio diritto morale dato che questo avviene solo se si dà una condizione di reciprocità.
    C- Gli animali non possono reciprocare
    D- Gli animali non possiedono diritti morali che non siano mere concessioni (la cui descrizione riguarda il punto 3 precedente).
    Mi sembra che l’argomento sia valido (da A, B, e C segue D) ma non fondato. I casi sono due: o si ha un buon argomento a favore di B, oppure l’intero argomento è una petizione di principio. Non mi sembra che ci sia un tale argomento.
    Che fare? Di nuovo qui, i casi sono due: si può introdurre l’argomento mancante, oppure si può dire che l’argomento c’è nel testo, che non ho capito nulla (probabile) e che devo smetterla di leggere frettolosamente le cose (cosa peraltro vera).
    Carlo

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    1. Credo che la sua lettura sia stata effettivamente veloce: il punto 1 viene argomentato rilevando una contradictio in terminis nella tesi antispecista: noi siamo lo stesso degli animali (quanto a capacità di soffrire) ma siamo vincolati a un imperativo morale nei loro confronti perché siamo diversi (quanto a capacità morale). Pertanto, se il vincolo morale nasce dalla differenza, esso non può essere basato sull'identità.
      Quanto al punto B, l'argomento c'è, e si basa sull'imperatività della norma, che non può darsi se viene fatta riposare nell'arbitrio del soggetto: posso essere vincolato moralmente soltanto a un altro soggetto morale (anche se esso non riconosce nei fatti alcun vincolo nei miei confronti), proprio perché solo in questo caso sono soddisfatte le condizioni della norma.
      Insomma: "questa fase primigenia della morale senza reciprocità, in cui l’altro non è coobligato insieme a me, è una pura finzione filosofica: se devo agire verso altri secondo dei principi conformi alla mia condizione rispetto a questi altri, o tale condizione è fondata sul riconoscimento reciproco o i diritti che riconosco loro, in quanto non danno luogo ad alcun obbligo intersoggettivo, sono semplici diritti passivi, ossia concessioni, revocabili in qualsiasi momento, e un obbligo revocabile e dipendente dalle circostanze o dalla volontà non è un obbligo morale." L'argomento c'è: se sia valido o meno, è ovviamente un altro discorso, ma per mostrarlo non valido dovrebbe almeno provare a confutarlo.

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    2. Come un mulo cocciuto rimango convinto, almeno parzialmente, della mia lettura. Ora cerco di motivare il perchè. In primo luogo il punto 1 afferma di rintracciare una contraddizione interna all'antispecismo. Perchè vi sia una contraddizione, un insieme di enunciati deve contenere l'affermazione e la negazione di una stessa cosa. Inoltre, l'identità non si dà senza un criterio: due cose non sono uguali simpliciter, sono uguali solo secondo un qualche aspetto. Proprio per questo, tuttavia, l'antispecismo non è contraddittorio. Esso afferma che l'uomo e l'animale (non umano) sono uguali-rispetto-alla-sofferenza ma diversi-rispetto-alla-capacità-morale. Non c'è quindi alcuna contraddizione; non più di quanta ce ne sia, che so, tra una banconota da 5 e una da 10 che sono uguali-rispetto-alla-materia-di-cui-sono-fatte ma diverse-riguardo-al-valore-monetario.
      Proprio per la mancanza di una palese contraddizione, al fine di refutare l'antispecismo è necessario indagare se non vi sia un problema più profondo, non logico bensì concettuale. Ed è quello che lei fa argomentando riguardo il diritto morale e la sua costitutiva reciprocità. Ora, per quanto riguarda il suo ragionamento in questo caso, lei rimanda all'imperatività della norma che richiede di essere intersoggettiva. Concordo pienamente, se con questo intendiamo che una norma alla quale è legato un qualche diritto non può essere vincolata alla sola volontà del singolo. Bene. Il problema è che da questa condizione non deriva che la norma (e il connesso diritto) debba riguardare solo gli individui intersoggettivamente legati dalla condivisione di essa. Può riguardare benissimo anche una terza parte, in questo caso gli animali. Il fatto che il riconoscimento di un diritto morale sia legato all'intersoggettività non implica che il diritto stesso debba essere riconosciuto solo a individui all'interno della comunità che decide di esso. Precedentemente ho usato il verbo "potere" (in "può" riguardare) in modo da non schierarmi pregiudizialmente con nessuna delle due parti (anche se, ovviamente, si sa da che parte sto). Il fatto è che è proprio la risposta a questa domanda ciò che è in gioco nella disputa tra specisti e antispecisti. Io ho semplicemente mostrato come, date le premesse riguardanti l'intersoggettività, non deriva nessuna conclusione riguardo chi possa (o non possa) essere il destinatario del diritto. La premessa che precedentemente abbiamo nominato B, quindi, non è suffragata da un (buon) argomento. Come sempre, se questo argomento esiste o addirittura è presente nel testo e io nuovamente non l'ho visto o non l'ho capito, la prego di evidenziarlo cercando pazientemente di rispiegarmelo.
      Carlo

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    3. Credo proprio che la contraddizione vi sia: infatti, non si sostiene che due cose non possano essere uguali sotto qualche aspetto e diverse per altro, ma che una stessa cosa non possa essere fondata, allo stesso tempo, dall'identità e dalla differenza tra due termini.
      In altre parole, possiamo provare a formalizzare la massima antispecista in questi termini:
      A. Causare sofferenza agli umani è immorale;
      B. La sofferenza è comune agli umani e a tutti i senzienti;
      C. L'imputabilità morale è una prerogativa umana;
      Da ciò consegue che
      D. L'uomo è tenuto a non causare sofferenza a qualsiasi senziente.
      Credo che le tre premesse siano evidenti; è chiaro, allora, che il problema sta nel nesso tra A e B e tra B e C: perché la massima del punto A possa essere estesa al soggetto del punto B, deve essere stabilita un'equivalenza morale tra l'uomo e gli altri senzienti, che viene, per l'appunto, negata al punto C.
      Mi pare che l'unico modo per evitare questa contraddizione sia quello di saltare la premessa A, che è evidente in ogni sistema morale, per tradurla direttamente nella conclusione D, il che sarebbe, ovviamente, una petitio principi.

      Quanto alla seconda parte, non vedo proprio come lei possa sostenere che "il fatto che il riconoscimento di un diritto morale sia legato all'intersoggettività non implica che il diritto stesso debba essere riconosciuto solo a individui all'interno della comunità che decide di esso". Quello che accade quando un diritto viene stabilito rispetto a un terzo che non vi partecipa è, nel migliore dei casi, una concessione, nel peggiore una reificazione: come quando, per esempio, un gruppo di proprietari terrieri maschi e bianchi fondò una repubblica in cui tutti i proprietari terrieri maschi e bianchi avevano un sacco di bei diritti.

      Il problema è che un diritto, per essere tale, non può semplicemente essere concesso, ma deve essere agito: deve, insomma, farsi norma vincolante per ogni soggetto. La forma specifica dei diritti umani è proprio questa: io ho un diritto (per esempio, il diritto di espressione) nella misura in cui ne permetto l'esercizio anche ad altri; se esercito tale diritto in modo da renderlo impossibile ad altri (per esempio, mettendomi a urlare in un impianto di amplificazione a due centimetri dall'orecchio di chiunque stia parlando per conto suo), lo perdo, per lo meno nelle modalità in cui lo stavo esercitando.

      Ciò vale ancora di più per la norma toto genere: la norma infatti può vincolare soltanto i soggetti che sono in condizione di attenervisi, e può avere per oggetto, direttamente o indirettamente, soltanto soggetti di questo tipo, dal momento che ogni norma si dà a partire da un contesto intersoggettivo che la fonda e vale soltanto all'interno di esso e per i suoi membri.

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    4. Ammetto di non comprendere cosa intenda con "imputabilità". Credo che intenda che solo l'uomo ha la capacità di essere soggetto morale (e non solo oggetto). Se infatti con tale termine intendesse che l'uomo è l'unico a poter essere sia soggetto che oggetto morale, allora C non sarebbe più una premessa accettabile (e a fortiori non sarebbe accettabile dall'antispecista). Bene, se mettiamo le cose in questi termini, la premessa C non è in contraddizione con nulla. L'antispecista starebbe semplicemente ragionando in questo modo: dato che consideriamo sbagliato inferire sofferenza agli umani e dato che molte specie animali provano sofferenza come noi allora, perchè la nostra idea di giustizia si applichi in modo coerente, dobbiamo estendere il dominio di applicazione degli effetti del comportamento morale umano ad alcuni animali non umani. Ad ogni modo, la questione è analoga a quella affrontata nel secondo punto, sebbene formulata in termini un po' diversi.

      Più sotto, infatti, lei sostiene che un diritto, per essere tale, deve "farsi norma vincolante per ogni soggetto". Di nuovo, non capisco come interpretare queste parole dato che la formulazione è ambigua come quella precedente riguardo l’imputabilità. Prendiamo l'ultimo periodo: "la norma infatti può vincolare soltanto i soggetti che sono in condizione di attenervisi". Verissimo, quasi una banalità; come potrebbe vincolare qualcuno incapace di agire in tal senso? È l'analogo della premessa C di prima. Però poi lei dice: "può avere per oggetto, direttamente o indirettamente, soltanto soggetti di questo tipo dal momento che ogni norma si dà a partire da un contesto intersoggettivo che la fonda e vale soltanto all'interno di esso e per i suoi membri". Di nuovo, o sono io che non riesco a capire ed andare al di là di ciò che è scritto esplicitamente, oppure la formulazione è effettivamente una petizione di principio. Lei dice che la norma può avere oggetto solo un individuo “reciprocatore”. Se poi le viene chiesto: “perché?” lei risponde “perché ogni norma vale solo all’interno dei membri della comunità intersoggettiva”. Il che è un po’ come dire che “il motivo per cui una norma può avere come oggetto solo un individuo reciprocatore è che una norma può avere come oggetto solo un individuo reciprocatore”. Come spiegazione ricorda molto la vis dormitiva di Moliere.

      Ma ammettiamo anche che sia così, che cioè la norma non possa avere come oggetto diretto o indiretto soggetti non reciprocatori. Dovremmo ammettere che una norma morale non ponga vincoli verso individui della specie umana che non hanno (neppure in potenza) le capacità di reciprocare e/o di partecipare intersoggettivamente alla comunità morale.
      Carlo

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    5. Provo a mediare, perché ritengo che l'obiezione di Carlo abbia un certo fondamento. Può darsi che la confusione derivi dall'uso che viene fatto (un po' lasco, a mio avviso) del concetto di contraddizione. Credo che sia Nane Cantatore che Urzidil stiano al contrario sostenendo l'esistenza di un non sequitur. Concordo infatti con Carlo sull'ultima osservazione sugli individui che non hanno la capacità di reciprocare. Si pensi ai bambini: in essi convivono pacificamente l'identità (rispetto alla specie umana, con gli stessi e ancor maggior diritti) e la non identità (hanno meno obblighi, non essendo in grado di reciprocare). D'altronde penso che sarebbe corretto sostenere che questa posizione (sono diversi perché sono uguali) non sia L'argomento che dimostri la necessità che i bambini siano depositari di diritti, ma vi siano altre vie per giungere alle conclusioni volute. Sono questi argomenti che nella tesi antispecista pare che manchino.

      Pertanto concordo con la posizione di Cantatore solo nella misura in cui si sostenga l'identità e la non identità non dimostrano alcun obbligo morale, ma non sarei d'accordo se si sostenesse che vi sia in questa affermazione un'intrinseca contraddizione. A parole sembra sostenere quello che dico, ma l'uso del termine "contraddizione" (che non c'è, mentre c'è una non dimostrazione) mi confonde o non convince.

      In altre parole, la mia posizione è che da questi argomenti sia impossibile stabilire un precetto etico in un verso o nell'altro. Concordo anche che non si sia ancora visto alcun argomento logico che dimostri che ad alcuni animali vada necessariamente risparmiata qualunque tipo di sofferenza, attiva o passiva: in questa direzione il lungo commento di Cantatore e le spiegazioni di Urzidil offrono un esempio soddisfacente.

      Io continuo a vedere aggirato o non affrontato il problema cruciale, e cioè che le risorse sono finite e non infinite. È del tutto fantasioso poter sostenere che si possano risparmiare sofferenze umane ed animali senza che le due istanze entrino mai in contraddizione o competizione. Questa posizione tratta l'etica come un costrutto matematico astratto, che non tenga conto del dato reale che è esistente, quindi usa un costrutto illegittimo.

      Risparmiare una sofferenza ad un animale, anche se spesso è gratuito e pacifico, altre volte non lo è affatto, perché comporta infliggere una sofferenza (diretta o indiretta, per azioni o per omissione) ad un essere umano, che è il soggetto depositario di quel diritto stesso posto alla base della posizione antispecista. Spero che concordino tutti che "risparmiare un animale" sia azione morale e quindi non istintiva, e quindi eticamente equivalente ad un'azione o ad un'omissione, verso di esso o verso una persona. La sperimentazione è uno dei casi di questo conflitto di istanze morali, a le prescrizioni a salvaguardia degli animali sono i tentativi di accomodare ciò che prescinde dal conflitto.

      A me la posizione anti sperimentazione sembra congruente a immaginare che un medico si trovi in una stanza con una sola dose di antidoto, e due soggetti avvelenati: una persona ed un animale. E siccome il dovere morale del medico verso l'essere umano per non causargli sofferenza è palese, allora il medico è tenuto a somministrare la fialetta all'animale. Ecco, questa per me è la contraddizione della posizione antispecista: siccome l'uomo ha doveri morali palesi verso gli altri uomini, allora deve averne verso gli animali anche se non palesi, e quindi deve rinunciare in parte ai primi. Cioè: siccome ha obblighi morali, quindi, deve rinunciarne a qualcuno.

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    6. Per imputabilità intendo, ovviamente, la condizione di responsabilità per le proprie azioni, vale a dire la necessità di rispondere rispetto a una norma morale: in altre parole, l’essere soggetto morale. Proprio per questo, la ritengo una proposizione evidente.
      Del resto, che l’imputabilità umana sia data è necessario per D, dato che l’obbligo di non infliggere sofferenze sia riservato solo all’uomo e non a qualsiasi altro senziente: insomma, C serve solo per specificare un attributo umano (quello di essere soggetto morale) richiesto da D; d’altra parte, da A sappiamo che l’uomo è anche oggetto morale, ma lo sappiamo solo per l’uomo.
      Il problema, allora, sta in quello che deve succedere tra A e B, insomma di come far sì che la capacità di provare sofferenza si trasformi nel diritto morale a non provarla, in altre parole che ogni senziente sia un “oggetto morale” (per usare una formulazione a lei gradita). Insomma, bisogna arrivare in qualche modo a un’ipotetica
      B(n) Causare sofferenza a qualsiasi senziente è immorale
      La quale, a sua volta, richiede questo passaggio:
      B(a) Ogni senziente è moralmente assimilabile all’uomo
      Che è in contraddizione con C. Mi sembra che per uscirne si dovrebbero introdurre robe di questo tipo:
      B(b) La mera capacità di soffrire rende un oggetto morale solo come oggetto e non come soggetto, o altrimenti detto soggetto passivo e
      B(c) Causare sofferenza a un oggetto morale è immorale, anche qualora esso non sia un soggetto, o soggetto attivo.
      Che sono petizioni di principio. A questo punto, tanto vale prendere per buona direttamente D, e magari farne un dogma: altri, nel tempo, hanno seguito simili strade, e non è che i loro sistemi non abbiano avuto successo, pur essendo debolucci quanto a impianto logico. Del resto, ci ha già provato; quando dice, de plano, che “L'antispecista starebbe semplicemente ragionando in questo modo: dato che consideriamo sbagliato inferire sofferenza agli umani e dato che molte specie animali provano sofferenza come noi allora, perché la nostra idea di giustizia si applichi in modo coerente, dobbiamo estendere il dominio di applicazione degli effetti del comportamento morale umano ad alcuni animali non umani” altro non fa che esprimere B(b) e B(c), ma dà mostra di non vederne la petizione di principio.
      Spero che questo giretto panoramico sulle circonvoluzioni della logica le abbia permesso di vedere, finalmente, la questione.

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    7. @Urzdil Sarò miope, ma non vedo alcuna petizione di principio nell’accettare Bb e Bc. La ragione emerge non appena ci chiediamo, ad esempio, perché sia sbagliato picchiare senza motivo un umano. La risposta, credo, menzionerà il fatto che così facendo infliggeremmo del dolore ingiustificato e ciò basta a sanzionare l’azione come immorale. Poi, di certo, possiamo ragionare in astratto cercando di formulare teorie sistematiche su cosa sia un “diritto”, magari vagheggiando di un qualche contratto sociale, un qualche iperuranio o altre finzioni filosofiche. Benissimo e meritorio, ma tutto questo non toglie il fatto che alla base ci sia l’intuizione che il motivo per cui è sbagliato picchiare un umano è che egli ne soffrirebbe. Bb e Bc suonano alle sue orecchie come petizioni di principio perché il suo ragionamento assume come credenza di sfondo (quindi come credenza certa e basilare) che il diritto sia qualcosa che, come abbiamo entrambi ripetuto alla nausea, richiede reciprocità. Ma, analogamente, è questa affermazione che alle mie orecchie suona ingiustificata dato che, appunto, non ho ancora avuto da lei alcuna giustificazione o motivazione riguardo essa. Non a caso, ci accusiamo entrambi della stessa cosa (di petitio principii). A questo punto, forse, la cosa migliore da fare è ripartire dal basso e valutare le credenziali delle rispettive affermazioni. Io ho esposto la mia e le motivazioni “intuitive” che ha alle sue spalle, spiegando come essa sia una semplice estensione coerente delle nostre pratiche morali. Ora sta a lei; di nuovo. Credo però che la sua abbia due difetti fondamentali. In primo luogo, presa alla lettera si espone a contro esempi come quello che ho esplicitato prima (che fare con infanti, disabili, etc.?). In secondo luogo, credo sia difficile trovare per essa una motivazione che si muova sullo stesso piano di semplicità.

      Carlo

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    8. Caro Paolo, come hai giustamente notato, una parte del disaccordo nasceva riguardo l’utilizzo lasco del termine contraddizione. Purtroppo si tratta di uno di quei concetti che ha un’accezione ben precisa in un ambito specifico (la logica) ma che viene spesso usato in maniera libera nel discorso ordinario. Qui, tuttavia, finiscono le cose su cui concordiamo. Ci sono due punti della tua risposta che non condivido e riguardano due tue affermazioni che sono: 1- L’argomento dell’identità non è conclusivo (qui, di nuovo, eviterei il termine “dimostrazione” per non invischiarmi negli stessi problemi visti prima riguardo a “contraddizione”). 2- Vi è un conflitto di diritti. Ovviamente ritengo la prima falsa. Credo infatti che esso sia, se non conclusivo, almeno soddisfacente e capace di scuotere almeno qualche certezza. Di certo, è capace di minare la costruzione riguardante la necessità di una reciprocazione per il diritto di cui parlavamo poco fa. Il problema è anche questo: ci possono essere dimostrazioni positive in etica (e non, invece, solo delle confutazioni)? Ma non mi voglio occupare ora di tale questione.
      Prendiamo però la 2. Qui posso dire che nessuno (o, perlomeno, io no di certo) intende negare che le risorse siano finite, né che le istanze entrino in competizione. Ma questa condizione si limita a porre un nuovo problema da risolvere: quello di mediare tra le parti in competizione. E, in effetti, sono molteplici i problemi da risolvere legati all’eventuale applicazione dei principi una volta accettata la prospettiva antispecista. Ma, di certo, eliminare alla base l’antispecismo non è un modo di risolverli. Facciamo un esempio, forse un po’ forzato. Mettiamo che io sostenga la necessità di abolire lo schiavismo. Una volta liberati gli schiavi, però, si creerebbero dei problemi di convivenza dato l’aumento del numero di quelli che sono a pieno titolo “cittadini” e ne possiedono i diritti e date le risorse limitate. Tuttavia, negare legittimità all’antischiavismo date queste scomode conseguenza non è sicuramente una soluzione. In effetti, la questione della sperimentazione animale rende tali problemi evidenti e, come credo di aver già affermato da qualche altra parte, io non sono del tutto contrario ad essa. Trovo però che il problema debba essere posto e affrontato caso per caso, cosa che, ammetto, già viene in parte fatta. Su questa linea, d’altra parte, come abbiamo impedito la sperimentazione per i cosmetici, possiamo impedirla per altre (non tutte) questioni. Basta valutarle. Ma per farlo bisogna prendere in considerazione il problema; cosa che non viene fatta ogni volta che si ragiona argomentando che “la sperimentazione è morale perché è utile”. Per quanto riguarda la sperimentazione, quindi, il mio punto consiste semplicemente nel ricordare l’esistenza della problematicità morale. Questo post, tuttavia, trattava il tema dell’antispecismo in generale dove credo che la questione sia diversa. Prendiamo, ad esempio, il caso ovvio della dieta carnivora e dell’allevamento intensivo. In questo caso, le problematiche sollevate da lei riguardo sperimentazione animale (riguardo la quale, ribadisco, non sono così in disaccordo con lei) spariscono in un sol colpo. Qui, di certo, non si può affermare che “è giusto perché è utile”. Perché utile proprio non lo è (senza necessariamente chiamare in causa i cosiddetti “argomenti indiretti” del tipo “la dieta veg è salutare” etc.).
      Carlo

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    9. @Carlo
      Noto che, almeno implicitamente, riconosce una contraddizione tra Ba e C. Spero voglia riconoscere che si tratta di effettiva contraddizione, e non di una qualche fisima che il mio dilettantismo nell’affrontare questioni di logica mi farebbe prendere per tale.
      Passiamo a Bb e Bc. Capisco che lei non abbia problemi ad accettarle, tanto che, esplicitamente, deriva il divieto morale alla violenza ingiustificata verso un umano da quella verso l’infliggere dolore a qualsiasi senziente. Riprendendo la nostra terminologia, lei in altre parole deriva A da D: posto che D era il demonstrandum, a me pare che porlo in premessa sia un bell’esempio di petizione di principio. Ma qui il logico è lei, e attendo le sue osservazioni, senz’altro pregnanti.
      Andiamo alla sostanza, che è meglio.
      Lei dice che infliggere dolore ingiustificato è immorale. Dunque, infliggere dolore giustificato, sempre stando a lei, è morale (facciamo conto di trovarci in una semantica per cui valga il principio del terzo escluso). Non so se voglio seguirla fino in fondo, ma dato che siamo sempre sul piano delle ipotesi, andiamo avanti: il problema è, a questo punto, il criterio di giustificazione. Visto che parliamo del problema delle sofferenze tra gli animali, suppongo che a qualche punto si ponga la questione della differenza tra uomini e animali, il che temo ci riporti al punto di partenza. Avremmo anche evitato la contraddizione rinunciando a Ba, ma temo che finisca per ripresentarsi quanto prima.

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    10. Ma arriviamo alla questione che lei mi rimprovera di non aver dimostrato, quella che lei chiama delle reciprocità del diritto. Io sostengo che un diritto sia effettivamente tale, e non sia essenzialmente una concessione, quando al suo fondamento non sia l’arbitrio di un unico soggetto in un contesto affatto privo di altri soggetti posti al suo stesso livello morale, ma quando esso acquisisca forza di norma proprio a partire dal vincolo intersoggettivo. Fin qui lei mi pare d’accordo, se ha qualificato come “quasi una banalità” il principio, del tutto evidente, che una norma possa vincolare soltanto i soggetti capaci di attenervisi. Del resto anche lei, nel difendere le tesi dell’antispecismo come formulate nel post, accetta di riservare esclusivamente agli umani l’imperativo etico che vieta di provocare sofferenze in altri, proprio perché la norma vincola solo gli umani in quanto soli soggetti morali.
      Ora, io sostengo che il diritto, inteso come prerogativa universale, universalmente riconosciuta e vincolante per tutti, possa riguardare soltanto i soggetti morali, proprio perché ogni diritto, in quest’accezione forte che, ad esempio, è tipica di quelli che si chiamano “diritti umani”, attribuisce a ogni portatore di diritti la responsabilità della loro piena attuazione, per se stesso e per tutti gli altri.
      La storia di questi diritti, peraltro, coincide con il progressivo ampliamento dell’universalità di soggetti morali (e politici). L’esempio dei padri fondatori della democrazia americana, che avevano dato vita a una società di liberi proprietari maschi di schiavi e di terra, è illuminante: i preziosi diritti di cittadinanza si sono diffusi ad altri gruppi umani mano a mano che essi diventavano cittadini, mano a mano che essi uscivano, per dirla con il fantasma regiomontano che aleggia in questa discussione, dal loro stato di minorità. È chiaro che questo stato di minorità era il risultato di un’imposizione, ma è altrettanto chiaro che per superarlo è stato necessario superare, o rovesciare, tale imposizione.
      Se ci si trova al di qua della condizione di pieni soggetti morali, ci si trova a non avere diritti, ma concessioni, che possono essere individuali (nessuno, per dirla con l’esempio di Paolo de Gregorio, userà il roditore da compagnia di giorgian per fare esperimenti) o generali (è vietata la crudeltà verso gli animali) ma che hanno uno statuto normativo radicalmente diverso. Con questo credo di poter rispondere anche ai terribili contro esempi con cui mi minaccia: i minori, a vario titolo, sono titolari di diritti residui, che devono la loro residualità a diverse condizioni specifiche:
      i) nel caso dei minori per età, per ragioni provvisorie, che li porteranno, in un lasso di tempo codificato e in seguito a normali condizioni di sviluppo, alla piena titolarità. In questo caso, il titolare “reale” è il soggetto adulto e pienamente responsabile;
      ii) nel caso dei minori per perdita dei diritti originariamente detenuti (mi si perdoni il gioco di parole), per ragioni collegate ai termini in cui sono stati codificati tali diritti e in misura specificamente stabilita in tale codificazione. Il detentore dei pieni diritti ne può dunque perdere almeno parte in seguito a una sua azione, il che subordina l’effettiva pienezza dei diritti alla condizione di soggettività attiva;
      iii) nel caso dei minori per ragioni di effettiva e insuperabile limitazione, per la loro assimilazione ad altri soggetti minori e per la mancanza di specifiche normative che li deprivino, per chiare ragioni umanitarie. La prego però di tener presente un caso abbastanza esemplare di minore di tal fatta: il paziente in stato vegetativo permanente, le cui funzioni vitali possono essere terminate in presenza di una sua espressione di volontà avvenuta quando era nella pienezza delle sue capacità: se anche lei, come me, auspica che tale condizione sia esplicitamente prevista dalle leggi del Paese in cui vive, sta effettivamente seguendo la mia interpretazione del problema.

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    11. Con questo, spero di essere stato chiaro, e sufficientemente semplice per i suoi gusti. Spero che lei voglia essere altrettanto cortese nei miei confronti, fornendomi una qualche articolazione del suo principio in base al quale si possa introdurre, accanto al soggetto morale pieno che a me è sufficiente, un soggetto morale passivo le cui caratteristiche non mi sono molto chiare. Le ricordo che non mi sento vincolato ad alcuna regola morale che imponga limitazioni all’uso del rasoio di Occam.

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  3. "[Q]uando il vincolo è reciproco, dalla morale si passa alla norma, al diritto."

    Se, come in questo caso, il vincolo in questione è sul recare danno, e se è valido solo se reciproco, segue che ha diritto solo chi, collettivamente o individualmente, è in grado di rappresentare una minaccia temibile, ossia solo chi ha forza, che sia fisica, contrattuale o altro.

    Cosa che, se stiamo parlando di come va il mondo, è innegabile.
    Quando qualcuno opprime qualcun altro, è senza dubbio e innanzitutto perché può farlo.

    Nessuno, mi risulta, sta tentando di negare che gli animali non dispongono di polvere da sparo e armi atomiche, o che non sono in grado di organizzare un contrattacco.

    Quel che provo a fare è suggerire che si può smettere di opprimere l'altro anche quando l'altro è militarmente, psicologicamente o fisicamente inferiore.

    Che quando ci si ritrova con un coltello dalla parte del manico, è utile chiedersi cosa si vorrebbe se ci si trovasse dalla parte della lama.

    Che una morale basata sul fare il minor male possibile migliora le condizioni di vita di tutti.


    "Lasciamo perdere l’evidente arbitrio per cui proprio tale capacità [di sentire e di soffrire] dovrebbe essere fondativa di diritto, anche solo nella limitatissima accezione del diritto a non provare sofferenza"

    Ecco, questa è una gran bella questione. A me sembra che chi non è capace di soffrire non ha poi chissà cosa da guadagnare dal diritto di non soffrire. Chi invece è capace di soffrire, ha molto da guadagnare da tale diritto.

    Se ci fosse una specie più intelligente e più forte di noi, con cui fossimo capaci di una comunicazione molto limitata e che avesse poco da guadagnare direttamente dal nostro benessere, noi cosa vorremmo? Preferiremmo che si facesse scrupoli, davanti alla nostra capacità di soffrire, o che li accantonasse in quanto non pertinenti?


    "La sofferenza del singolo animale è, dal punto di vista di questa economia simbiotica, accettabile nella misura in cui essa fa parte delle condizioni del successo evolutivo di tale specie: il maiale può essere macellato per farne salsicce, dal momento che le salsicce sono la ragione per cui la specie del suino domestico è enormemente più numerosa di quella del suino selvatico."

    Che un singolo individuo abbia interesse a sacrificarsi per il successo evolutivo della specie è tutto da dimostrare, è tesi sostenuta da una piccola minoranza e con argomenti malfermi, la stragrande maggioranza delle osservazioni prova altrimenti: il successo evolutivo di una specie è effetto collaterale del successo riproduttivo di una configurazione di geni, cosa che a sua volta non è necessariamente nell'interesse del singolo individuo, che ne è solo il mezzo, in quanto oggetto di selezione.

    Ripropongo l'esperimento mentale di prima: ci piacerebbe essere allevati a scopo alimentare, industriale e ludico?

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    1. Sarà più interessare disquisire su questo punto quando si saprà meglio come si sono estinti i Neanderthal, ma la seguente domanda:
      «Se ci fosse una specie più intelligente e più forte di noi, con cui fossimo capaci di una comunicazione molto limitata e che avesse poco da guadagnare direttamente dal nostro benessere, noi cosa vorremmo?»

      Posta così, insieme all'implicazione sottesa, logicamente non differisce a mio parere dal chiedersi: "ci piacerebbe essere rinchiusi in galera? Allora eliminiamo carcere e processi". Dico questo perché pone un interrogativo morale, e omette di descrivere la storia precedente di "come" si sia arrivati a quel punto (ma pretende ugualmente una risposta).

      Al più, il dilemma posto così può applicarsi al caso di una specie aliena e, se posso rispondere, vedo precipuamente un paio di macro possibilità: meno probabile, la specie è interessata a studiarci, così al più qualche sfortunato verrà catturato e sezionato ma, tutto sommato, come specie non ci andrà malissimo. Oppure, più probabile, la specie aliena è interessata alle nostre risorse al che, meglio per noi, li lasciamo depredare gran parte del pianeta senza fiatare fingendoci del tutto inoffensivi; oppure - sciagurati - opponiamo resistenza e verremmo comunque depredati all'extra prezzo di grandi sofferenze (con rischio di essere annientati del tutto, rischio peraltro non scongiurato del tutto nemmeno nella prima ipotesi).

      Applicato ad un'ipotetica specie animale la domanda non ha molto senso a mio modo di vedere, perché per rispondere bisognerebbe conoscere tutta la storia evolutiva, che non è menzionata. Non si può chiedere "ci piacerebbe che" se non si immagina prima, con uno sforzo di fantasia, come si possa ipoteticamente essere arrivati a quella situazione di coesistenza. È verosimile che sia improbabile che due specie riescano a convivere pur essendo entrambe interessate alla "conquista" del territorio e delle risorse (per questo mi interessa la storia dei Neanderthal), ma ciò non toglie che la cosa sia possibile e ipotizzabile in caso di interesse reciproco (entrambe le specie ne hanno da guadagnare). Eppure nell'esempio viene escluso, mi pare, per cui faccio fatica a immaginare questa situazione.

      Quindi, se questa ipotetica specie esistesse, vorrebbe dire che ne guadagniamo entrambi (a meno che essa sia disinteressata alle risorse del pianeta ed è giunta tecnologicamente già oltre, nel qual caso ci lascerebbe stare). Per esempio, l'uomo potrebbe essere stato schiavizzato, ma gli è consentito sopravvivere in condizioni non completamente "disumane"; oppure la convivenza creatasi nel corso della storia evolutiva è stata a noi più favorevole della precedente ipotesi e la vita ci è più comoda: ciò accadrebbe nel caso in cui vi fosse un interesse biologico reciproco alla rispettiva libera prosperità, un po' come accade per i fiori e le api. Esempio di fantasia: questa specie ci lascia coltivare grandi superfici di terra perché ritiene bene energeticamente preziosissimo i rifiuti da noi prodotti. In quest'ultimo caso è verosimile che quella specie avrebbe giocoforza sviluppato una maggiore sensibilità etica nei nostri confronti, che nel primo esempio. Ma, ripeto, mi pare che questo esempio venga escluso a priori. Ciò non toglie che, in entrambi i casi, non sarebbe escluso che questa specie mantenesse livelli di attenzione "morale" nei nostri riguardi inferiori a quelli infra specie.

      Ci piacerebbe? Probabilmente no. Potremmo farci qualcosa? Certamente no. Ma avrebbe qualche conseguenza sul piano morale, sulla codificazione etica, morale e dei diritti umana? È plausibile che ne avrebbe molto poca, al limite rafforzerebbe le posizioni espresse nel commento postato.

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    2. Trovo assai interessante la questione dei Neanderthal, e in proposito mi sembra molto affascinante questa ipotesi, che del resto porta acqua al mulino dell'idea di £economia simbiotica" sostenuta nel post:
      http://www.theatlantic.com/technology/archive/2012/05/humanitys-best-friend-how-dogs-may-have-helped-humans-beat-the-neanderthals/257145/

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  4. Proviamo a prendere sul serio la faccenda dell’antispecismo, e a formalizzarne la massima morale per valutarne gli effetti. Una buon modo per valutare la sostenibilità di una massima morale è, infatti, quello di applicarla a diverse questioni e valutarne le conseguenze: infatti, o le si accettano tutte o si deve rifiutare la massima stessa.
    Credo che la massima fondamentale possa essere definita così: “Ogni essere senziente ha diritto a provare meno dolore possibile”. Da ciò derivano analiticamente i seguenti corollari:
    i) la massima vale per ogni senziente, e nessuno di essi ha il diritto morale di anteporre il proprio interesse alla sofferenza di altri (principio di eguaglianza);
    ii) compatibilmente con la massima, ogni senziente ha diritto di massimizzare il proprio benessere (principio di felicità);
    iii) dal momento che l’esistenza in vita è condizione necessaria per provare felicità, è auspicabile la presenza del maggior numero possibile di senzienti, a condizione che essi provino la minima quantità possibile di dolore e la massima quantità possibile di felicità (principio di moltiplicazione della felicità).
    Ora, proviamo ad applicare questa massima e i suoi corollari a una questione concreta, che abbia direttamente a che fare con il rapporto tra l’uomo, il suo habitat e gli altri senzienti che vi dimorano: il riscaldamento globale. L’innalzamento della temperatura, come il cambiamento del ph degli oceani o tutti gli altri aspetti legati alla modifica dell’equilibrio termodinamico del pianeta o alla composizione chimica della sua atmosfera non sono, in sé, moralmente qualificabili, non sono buoni né cattivi. A renderli auspicabili, o meno, sono le loro conseguenze per i senzienti che abitano il pianeta: per l’uomo, il cambiamento climatico è una brutta cosa, dato che ci costringerebbe a notevoli sforzi di adattamento e che ci priverebbe di molte fonti di benessere a cui siamo abituati; ma sappiamo che questo è un punto di vista antropocentrico, la cui validità è esclusa dal corollario i).
    Sappiamo però che un effetto del riscaldamento climatico sarebbe l’allargamento delle fasce calde e umide (tropicali) e la restrizione di quelle secche e fredde (artiche). Ora, sappiamo altrettanto bene che le fasce tropicali ospitano, a parità di spazio, una quantità di biomassa e di biodiversità superiore a quelle polari, e che in tali condizioni molte specie trovano di che prosperare. Di conseguenza, in una prospettiva rigorosamente antispecista, il riscaldamento globale non può che essere visto positivamente, dato che incrementa il numero dei senzienti e le condizioni della loro prosperità.

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    1. Accetto l'apparente paradosso: i cambiamenti climatici (e ambientali in genere) conseguenti ad azioni amorali (ossia, frutto di agenti amorali) sono amorali, e studiare chi ne viene favorito e chi sfavorito è interessante da un punto di vista biologico (chimico, etologico etc.) ma non normativo.

      Ma, ciò che dink più giù e svariati altri nel corso della conversazione tralasciano di notare è che la questione morale esiste proprio perché ce la poniamo; il dibattito su cosa sia giusto fare è sensato e trae fondamento dal fatto oggettivo che non solo ci poniamo il problema, ma non esistono tracce storiche di gruppi umani che non lo abbiano affrontato, e possiamo ragionevolmente concludere che l'etica è un'importante caratteristica umana, un fatto materiale innegabile e intimamente collegato alla nostra vita individuale.

      Le decisioni degli umani, in quanto capaci di etica, non possono essere moralmente neutre. O meglio: possono esserlo fintanto che chi le prende non si è posto il problema; nel momento in cui il problema arriva alla nostra attenzione, vuoi perché ci siamo arrivati da soli, vuoi perché qualcun altro ce ne ha parlato, il tema diventa morale.

      Ora, venendo al punto: gli effetti a lungo termine del riscaldamento globale ci sono in gran parte ignoti; quelli qui proposti sono alcuni tra i più plausibili allo stato attuale delle nostre conoscenze, piuttosto lacunose. Non sappiamo quante e quali specie si estinguerebbero, e quante e quali prospererebbero.

      Davanti alla scelta se compiere un'azione che cambia radicalmente l'equilibrio ecologico globale in modo imprevedibile e in più ci danneggia, o se invece non compierla, la decisione è quasi obbligata.

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    2. Ridurre un dilemma morale a un'applicazione del principio di precauzione non è accettabile, dato che l'imperativo è, per definizione, incondizionato.
      Né è efficace rispondere che "gli effetti a lungo termine sono in gran parte ignoti": può essere forse sufficiente rispetto ai termini specifici della questione, ma resta il principio generale, per cui in una prospettiva rigorosamente antispecista ogni situazione ambientale che permetta la di un maggior numero di senzienti sarebbe preferibile, indipendentemente dalle condizioni in cui si troverebbe quel particolare senziente che è l'uomo.

      Ma mi interessa un altro punto: dici che l'etica è un fatto materiale dell'umanità e, mi sembra, con ciò implichi che essa è propria all'uomo e non ad altri animali, per lo meno in forma a noi intellegibile. A queste condizioni, come puoi sostenere che vi sia un obbligo morale verso una controparte non morale, se non in quanto essa riporti indirettamente a un'altra parte morale?

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  5. Ogni mattina un leone si sveglia e si chiede "mi piacerebbe essere sbranato come una gazzella?"...
    A proposito di diritti ed empatia, rubo questa battuta al sito Spinoza.it, mi sembra appropriata:
    "La legge prescrive che i randagi nei canili abbiano diritto a otto metri quadri. Diversi detenuti hanno iniziato ad abbaiare."

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    1. @dink: ti rendi conto, vero, che la legge del più forte non ha bisogno di argomenti, avendo già la forza dalla sua, che quindi basta e avanza? E che quindi chi produce questi argomenti lo fa per puro gusto?

      Quanto al benaltrismo, siamo buoni tutti, se uno ci si vuole cimentare pubblicamente, almeno che aspiri a raggiungere vette più elevate.

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    2. @giorgian: Non posso che essere d'accordo.

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    3. Benaltrismo? Giorgian qui il punto fondamentale è la contraddizione interna delle basi dell'antispecismo: siamo uguali o differenti dalle specie animali? O forse uguali nei diritti e differenti nei doveri? Dici che "l'etica è un'importante caratteristica umana"? Ok, quindi i diritti in quanto tali e basati su principi etici riguardano solo gli esseri umani, punto: il resto può godere di "concessioni" dettati dall'empatia ma prive di valore vincolante, empatia che in quanto tale è pure soggettiva, però mancando altri motivi a questo punto le bestie tutelate saranno solo quelle che ci provocheranno tale sentimento: va bene per i cani (attualmente anche rispetto ai detenuti a quanto pare), andrà meno bene per gli scarafaggi (simpatici forse solo a qualche entomologo); la foca è simpatica a tutti, il pinguino pure, però la foca che divora il pinguino ci fa orrore eccetera...
      Tutto questo era già contenuto nelle due battute; o risolvi prima la contraddizione iniziale, ovvero trovi un motivo logico per cui tutti gli animali dovrebbero godere di diritti vincolanti, o continui a ciurlare nel manico dell'empatia, mischiando vicende umane e animali a piacimento, e a questo punto ogni discorso è inutile.

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    4. Se la possibilità di avere diritti fosse riconosciuta solo ha chi la capacità di avere anche dovere alla a un neonato quali diritti spetterebbero? Mi pare evidente che la logica del do ut des per fondare i diritti sia un tantino fragile.
      Qui si vuole negare che l'empatia sia alla base della base del diritto, bene allo chiediamoci com'è nato il bisogno di avere diritti se non nel sentire, di qualcuno, non di tutto certamente (altrimenti non ce ne sarebbero stato bisogno), di un senso di ingiustizia elaborato grazie alla nostra capacità di metterci nei panni dell'altro.

      Buttiamo una provocazione, da domani inventano i replicatori di Star Trek che le altre replicano anche il cibo, troveremmo ancora giusto uccidere allevare e macellare animali solo perché qualcuno che la bistecca che mette in bocca sia stata sgozzata?

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  6. E' il discorso morale stesso che fa acqua da tutte le parti. L'imperativo categorico esisteva solo nella testa di Kant. Tutta l'etica tra umani, gratta gratta, si fonda esclusivamente sui reciproci rapporti di forza. Più tali rapporti sono in equilibrio, più l'etica regge. Rompi l'equilibrio e ogni etica va a farsi benedire. Se ciò è vero per il rapporto tra uomini, a fortiori lo è per quello tra uomini e animali.
    Se non ne ho bisogno, personalmente evito di ledere chiunque, compreso un animale. Se io o un mio stretto congiunto stessimo morendo di fame, a malincuore mi mangerei pure il chihuahua - che, per chi non lo sapesse, veniva tenuto in casa dagli aztechi proprio a questo scopo - con buona pace del suo "diritto" a esistere. Il più forte sono io e io vivo. Lui muore.

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    1. Direi piuttosto un Don Florestano Pizzarro.

      (F.to L'anonimo di cui sopra)

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  7. Non che mi sia dovuta, ma io starei ancora aspettando una risposta: dire che senza reciprocità non c'è diritto, non implica che chi non può contrattaccare non ha diritto, e che quindi il diritto viene dalla forza? E ancora, qualora questo fosse vero, non è altresì vero che la forza non ha bisogno di argomenti, e quindi argomentare a favore della forza è, nella migliore delle ipotesi, un esercizio futile?
    In altre parole: l'utilitarismo è il diritto del più forte o non lo è?

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    1. "dire che senza reciprocità non c'è diritto, non implica che chi non può contrattaccare non ha diritto, e che quindi il diritto viene dalla forza?"

      Secondo me non l'implica, ma se anche l'implicasse, sarebbe un fatto del tutto accidentale, quindi non rilevante ai fini della discussione. Non sarebbe infatti valida un'argomentazione ad consequentiam, cioè rigettare un ragionamento valido perché non ci piace qualche sua implicazione.

      Non l'implica anche perché casomai l'implicazione è verso chi non può contraccambiare e non chi non può contrattaccare. E ancora: cosa c'entrerebbe la forza? Casomai volevi dire l'astuzia o l'arguzia: il pollo in un cortile non ha l'arguzia di capire cosa gli accadrà dopo tutte le prove palesi che accadrà (gli si sono già portati via parenti e amici), anche se in termini "umani" sono un fesso non lo capirebbe. Ho visto personalmente polli che avrebbe avuto decine e decine e decine di occasioni di scappare indisturbati, eppure non l'hanno fatto, quindi la forza non c'entra nulla, né fisica né tantomeno "militare".
      Viceversa, non vorrei trovarmi mai mani nude con un orso, ma neanche con un coltello in mano se è per questo, ma neanche se io avessi intenzioni pacifiche e fossi sazio: posso garantire che non mi riconoscerà alcun diritto che mi potrebbe ipoteticamente riconoscere una persona, eppure nonostante questo io non ritengo che gli orsi siano depositari di diritti di cui i ricci non siano depositari.

      La seconda e terza domanda sono assorbite. In altre parole:
      "[L]'utilitarismo è il diritto del più forte o non lo è?"

      No, al massimo può essere il diritto di coloro che possono compartecipare attivamente e passivamente all'utile. Ripeto come in una risposta ad un altro post che forse non è stata letta: utile vuole anche dire non essere interessati a fare ricerca sul roditore che Giorgian alleva in casa, cosa che sarà effettivamente garantito che non sarà fatta.

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    2. Il termine "forza", non va preso alla lettera. Si tratta di forza in senso lato. L'orso non ha necessità alcuna che lei "lo ritenga" depositario di diritti. Nell'ambito circoscritto d'una foresta e in assenza di altre armi che non siano le sue braccia e gambe, lui "ha diritto" di mangiarla e lei non può farci nulla. A meno che non dimostri, come Anthony Hopkins in un celebre film, d'essere lei il più forte grazie alla sua intelligenza e non riesca comunque a uccidere l'orso. Anche la maggiore intelligenza, infatti, è solo un altro genere di forza. Così come lo è la ricchezza o l'astuzia. La liberazione degli schiavi in America avvenne perché il Nord industriale aveva necessità di manodopera salariata. Il Nord era più forte del Sud, lo soggiogò e la gente di colore beneficiò di questa benevolenza interessata da parte del più potente.
      Si potrebbero giustificare in termini analoghi quasi tutte le conquiste "umanitarie" della nostra storia. L'etica si regge solo grazie all'equilibrio delle forze. Rotto quello, nuovi equilibri genereranno nuove etiche e così sarà finché al posto dell'uomo non apparirà qualcosa di diverso. Mi pare fosse Nietzsche che pronosticava qualcosa di simile.

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    3. Se «il termine "forza" non va preso alla lettera», allora non vorrei che si stesse introducendo una tautologia, ovverosia: «"forza" è quella cosa, quale ne sia la manifestazione contingente, che mette X in posizione di vantaggio rispetto ad Y in modo tale da non permettere ad Y di sperare in quel momento nelle prospettive di X». Insomma, a quel punto è tautologico che X potrà solo "concedere" un favore ad Y, ma di nuovo in ciò vedo poco a che vedere con la morale, l'etica e il diritto.

      Oltre a non avere del tutto chiaro se si abbia la pretesa di separare l'uomo dall'umano, cioè la sua abilità nel congetturare e mettere in pratica una strategia (vantaggiosa e vincente contro chi è "brutalmente" superiore) dalla sua capacità di congetturare principi morali generali, ho un grosso dubbio su quanto viene affermato: non ritengo sensato parlare di "diritto" dell'orso a mangiarmi, qualunque accezione si volesse intendere col virgolettato. Di norma non farei l'obiezione, viste le virgolette, ma ora per scrupolo la pongo visto che il tema verte proprio su questi concetti. L'orso ha facoltà e capacità, ed eventualmente volontà di sbranarmi. Ma non ha un diritto, non agisce mai soppesando diritti.

      Sono abbastanza d'accordo sulla ricostruzione successiva: certamente l'etica nasce quasi sempre ex post. Ha anche dei paletti "fenomenologici": per quanto ineccepibilmente argomentata, un'etica così severa da portare ad una concreta minaccia di estinzione verrebbe rapidissimamente abbandonata. Ma questo non la squalifica in toto: resta un costrutto che, per quanto in piccolissima parte, può prescindere dal calcolo personale, o di clan, o regionale. Che lo faccia solo quando si ha il privilegio di poterselo permettere è probabilmente vero.

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    4. Il "diritto", infatti, marxianamente parlando, è solo una sovrastruttura della "forza", quale che sia la sua accezione. L'orso allo stato selvatico è un'antonomasia della forza allo stato puro, una metafora dell'assenza di qualsiasi diritto.
      (P.S. Lo si può constatare benissimo nei rapporti tra stati, e nei vari tentativi d'invocare un diritto sovranazionale. Esemplare in proposito è stata recente la vicenda Usa-Iraq.)

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    5. Ciò mi sembra contraddetto dall'osservazione: la distribuzione dei diritti individuali tra le popolazioni umane è eterogenea. Eppure la "forza" è identica. A meno di, come scrivevo prima, dedurla tautologicamente a posteriori: osservando chi ha quali diritti, e assegnando il bollino di "forte" a chi concede più e di "debole" a chi vanta meno. In quest'ultimo caso sono tesi non smentibili, assumono già. Ma nemmeno spiegano, ovviamente.

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    6. "la distribuzione dei diritti individuali tra le popolazioni umane è eterogenea. Eppure la "forza" è identica"
      Se ho colto il significato dell'osservazione (altrimenti la prego di illustrarmelo), vorrei provare ad essere più chiaro con un esempio che riguarda due condizioni estreme. Prendiamo un gruppo di schiavi in condizioni miserrime e un padrone. Il padrone ha interesse a ottenere una determinata produzione. Quella è la "forza" degli schiavi. Gli schiavi si ribellano per ottenere condizioni di vita migliori fino addirittura a sacrificare la vita di taluno di loro in nome della causa. Il padrone inizialmente tenta di ricondurli alla sottomissione con metodi feroci e coercitivi. Infine comprende che è meglio per lui, pena la perdita della produzione o comunque gravi danni, il giungere a un compromesso, riconoscendo loro determinati diritti. La posizione si consolida e raggiunge un equilibrio che durerà finché una delle due parti non prenda coscienza di disporre di qualche nuova forza.
      Consideriamo ora un'altra situazione, simile ma nel contempo profondamente diversa: la condizione dei prigionieri ebrei in un campo di sterminio nazista. In questa circostanza, i prigionieri erano a tal punto privi di qualsiasi "arma" (lo legga in senso lato) che qualsiasi gesto di ribellione sarebbe stato assolutamente inutile così come inutile sarebbe stata ogni rivendicazione di condizioni migliori. Non a caso, gli unici riusciti a sopravvivere erano quelli che disponevano d'una qualche capacità negoziale individuale che risultasse utile agli aguzzini, tipo la laurea in chimica di Primo Levi.
      Estremizzo, perché lo studio delle situazioni estreme pone a nudo l'essenziale, consentendo d'ignorare le "sovrastrutture" e la loro secolare stratificazione nella nostra società.

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    7. Potrei semplicemente ribattere che nel caso degli ebrei (e di alcuni prigionieri politici) durante il nazismo vi era un'istanza (a)morale come punto d'ordine di partenza: siccome sarebbe stato comunque possibile rimpiazzare quella manodopera, e dato che l'obiettivo era comunque lo sterminio, allora si lasciavano i prigionieri in condizioni di privazioni estreme, ma pur sempre in attività. I nazisti potevano permettersi il "lusso" di perdere un certo numero di prigionieri al giorno, ma questo non vuol dire che non ne avessero bisogno (era comunque forza lavoro): avevano di che rimpiazzarla. Quindi, anche se nell'accezione negativa del termine, vi era una ben precisa scelta etico-politica: lo sterminio di un popolo in ragione di un'ideologia. Questo esula dai rapporti di forza, nel senso che i rapporti di forza lo hanno reso possibile, ma non ne sono la causa: ne sono solo la condizione necessaria.

      E per eterogeneità dei diritti mi riferivo al fatto (ne prendo uno a titolo meramente esemplificativo) che in questo momento nel mondo, per lo stesso comportamento, vivere la propria omosessualità, in alcune società ci si può sposare ed adottare prole, in altre società si può stipulare un'unione civile, in certe società si può essere liberi nel privato ma senza riconoscimenti giuridici, in altre società si viene impiccati. Società umane, queste e quelle. E le società ultime menzionate, quelle che impiccano, non mi sembrano nemmeno le più "forti", se non nel senso che a posteriori le battezziamo tali per assunto.

      Certamente c'è un utile nel concedere diritti, e certamente spesso è necessaria una forza per svelare questo utile al "potente" di turno in prima istanza. Ma una cosa è fondare una convivenza sulla forza, un'altra cosa sull'utile: mentre il tentativo è di assimilarle come assunto.

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    8. "un'istanza (a)morale" è sempre il presupposto di tutto. Nell'esempio del chihuahua che facevo più sopra, l'istanza era la fame. Ma lo è anche il possesso di terre, la possibilità di riprodursi, l'assicurare nutrimento alla prole, ecc. Per i nazisti lo erano la razza eletta, lo spazio vitale, la riduzione in schiavitù degli altri popoli. Se avessero vinto loro, quello sarebbe stato il fondamento d'ogni "diritto", con buona pace di qualsiasi istanza contraria. Ma ciò che avrebbe permesso d'imporlo a chi non l'avesse pensata così, sarebbe stata la forza, non certo un'adesione di fondo ottenibile tramite la persuasione. A chi si fosse trovato a subirlo, intendo.
      Nelle società che menziona lei, sono più "forti" (magari perché, tramite la religione, riescono a circuire un gran numero di persone) coloro che impiccano gli omosessuali rispetto a quelli che ne vorrebbero riconosciuto il diritto d'esistere. Dunque è la loro "Weltanschauung" che assurge a legge, a diritto.
      L'utile di ciascuno di noi trova un limite nell'utile dell'altro. Se l'altro è più forte, cercherà di espandere il proprio utile a discapito del mio, fino al punto in cui io sono in grado d'impedirglielo. Poiché non è possibile vivere in una situazione di guerra continua, di tutti contro tutti, anche il "fortissimo" ha interesse (un utile) nel raggiungimento d'uno status quo. E' qui che le situazioni si consolidano nei punti d'equilibrio e scaturiscono in un diritto, in un patto sociale, consuetudinario o codificato. Successivamente, nuovi individui, operando singolarmente o collettivamente, monocraticamente od oligarchicamente, con la forza o con la persuasione (che è solo un altro aspetto della forza, anche se non quella dei famosi Jedi) e facendo leva su nuove istanze, romperanno gli equilibri precedenti e fonderanno nuove società basate su nuovi diritti.

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    9. Se un testo in greco viene tradotto in latino, il contenuto del testo non acquista significato aggiuntivo. Tradurre con parole nuove l'osservazione della realtà continua a non informarci ulteriormente su di essa, ed è in questa situazione che io ho l'impressione di trovarmi in questa discussione.

      Così un cane, per mangiare un boccone, deve aver sufficiente forza alle mandibole, questo nessuno lo contesta. Ma affermare che avere tale forza lo ha reso possibile è la stessa cosa che tradurre: "il cane ha mangiato". E sostenere che ha mangiato perché ha forza nelle mandibole è la fallacia che contesto: ha mangiato perché aveva fame.

      È evidente che, se i nazisti hanno perseguitato e tentato di sterminare gli ebrei, con parziale successo, devono certamente averne avuto la forza, altrimenti non saremmo qui a parlarne. Gli ebrei, al contrario, devono non aver avuto la forza di sfuggire al massacro: di nuovo, perché in caso contrario non staremmo qui a parlarne. Da queste osservazioni lapalissiane non produciamo informazione maggiore di quella contenuta nella frase: "se è accaduto, allora ciò è potuto accadere". Quello che tutto ciò non spiega è però perché è accaduto, perché altri regimi o popoli non abbiano sterminato altri popoli negli stessi anni, essendo tutti certamente nella potenziale condizione di farsi precisamente "nazisti", nelle stesse identiche modalità dei tedeschi (tale eterogeneità è presente solo nella comunità umana).

      Non tutto ciò che può accadere, anche in relazione ai rapporti di forza esistenti, accade. Quindi l'etica è ciò che si muove a monte, ciò che noi dobbiamo giudicare prima che l'evento accada. Una cosa infatti è sostenere che i diritti siano possibili solo a patto che i reciproci rapporti di forza ne consentano l'attuazione, e su questo ho sempre detto di essere d'accordo, altra è sostenere che essi coincidono ontologicamente coi rapporti di forza, che è la tesi che contesto: in quest'ultimo caso, ripeto, mi pare un ragionamento fallace, perché deduce ex post i rapporti di forza come elemento causativo, e non come condizione necessaria.

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    10. Devo complimentarmi ancora per la chiarezza e la lucidità.

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    11. "altra è sostenere che essi coincidono ontologicamente coi rapporti di forza, che è la tesi che contesto"
      Il condizionamento religioso ci ha abituati troppo a ragionare per assoluti e per trascendentali. Non riusciamo a liberarcene.
      Non esiste alcun "diritto" a priori, scisso dalla forza per farlo valere. Esiste la motivazione amorale, priva di altra etica che non sia la spinta a fare qualcosa e la capacità di farla valere. Le motivazioni sono sempre elementari, sono "complessità riducili" a quegli stessi istinti primordiali che determinarono la fagocitosi endosimbiontica di un battere da parte d'un cianobattere quale origine della prima cellula complessa: nutrirsi, sopravvivere e riprodursi.
      "Un cane, per mangiare un boccone, deve aver sufficiente forza alle mandibole, questo nessuno lo contesta" è sbagliato (e pleonastico). Un cane, per mangiare un boccone, deve avere sufficiente forza per difendersi dall'altro cane che vorrebbe strapparglielo di bocca. Senza questa forza nessun altro cane gli riconoscerebbe la possibilità di nutrirsi. Mi spieghi come faccio a reclamare un "diritto" - ad attribuirgli una qualche valenza positiva - se nessuno me lo riconosce. Di converso, anche molti animali - tra cui parecchi canidi - hanno sviluppato spontaneamente precise regole comportamentali, una sorta di proto-diritto, per evitare un eccessivo dispendio d'energia all'interno del branco in infinite lotte fratricide di sopravvivenza.
      Glielo ribadisco: non esiste alcun "diritto" a priori (ad esempio, quello "naturale" di cui parlava il papa emerito) scisso dalla forza per farlo valere. Vorrei che concentrasse qui le sue critiche e la sua decostruzione nei miei confronti.

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    12. Non mi intendo molto di batteri, ma suppongo che, per determinare i rapporti di forza tra entità ampie e dalla composizione fortemente variabile come gli attori storici, sia innanzitutto determinare quali sono. Se anche, come dice lei, "i nazisti hanno attuato lo sterminio perché avevano la forza di farlo", era comunque necessario che si costituisse l'attore storico del nazismo e che esso arrivasse al funesto grado di forza di cui parliamo.
      Dal momento che gli attori storici sono composti da una gran quantità di istanze individuali e particolari, spesso in contraddizione tra loro, è necessario che queste istanze arrivino a un sufficiente punto di coalescenza da dar forma a una maggiore unità, in grado di agire in modo storicamente significativo.
      Chiaramente, ciò è legato alle condizioni storiche esistenti, ma a loro volta queste condizioni sono il portato di altri rapporti di forza tra altri attori storici, e dunque delle loro stesse condizioni di coalescenza.
      Insomma, dal momento che siamo presumibilmente tutti concordi a negare realtà agli enti platonici, esistono individui e aggregati, tendenzialmente instabili e labili, tra individui. Affinché questi aggregati nascano, si sviluppino e si fortifichino, affinché essi possano risultare dei mediatori efficaci tra l'individuale e il generale, insomma, devono convincere gli individui.
      Insomma, gli aggregati storici si formano intorno a delle massime, a dei valori: nel senso che definiscono obiettivi desiderabili per gli individui che vi si riconoscono e strategie condivise per ottenerle. Insomma, definiscono delle finalità che, in quanto non possono essere immediatamente individuali (altrimenti non sarebbe faccenda degli aggregati, ma direttamente degli individui), devono, o almeno possono, differire dagli interessi individuali, anche se è comunque opportuno che con essi siano compatibili, o meglio ancora favorevoli.
      Come suppongo lei sarà pronto a riconoscere, tutto ciò comporta l'introduzione di notevoli elementi di complessità. Al livello più elementare, ogni azione collettiva sufficientemente prolungata nel tempo richiede delle funzioni di mantenimento dell'aggregato, che finiscono per diventare primarie. Tutto questo per dire che, spesso, la faccenda dei rapporti di forza tende a dare una lettura semplicistica (Marx l'avrebbe definita "volgare") dei rapporti tra struttura e sovrastruttura.
      Visto che l'ho chiamato in causa, vorrei ricordare un celebre passaggio di Marx, nel primo libro del Capitale:
      Dunque, per trasformare il denaro in capitale il possessore di denaro deve trovare sul mercato delle merci il lavoratore libero; libero nel duplice senso che disponga della propria forza lavorativa come propria merce, nella sua qualità di libera persona, e che, d’altra parte, non abbia da vendere altre merci, che sia privo ed esente, libero di tutte le cose necessarie per la realizzazione della sua forza-lavoro.
      In altre parole, la formazione effettiva del modo di produzione capitalista deve passare per il superamento della schiavitù, la quale a sua volta presuppone il concetto di libertà individuale come diritto naturale dell’uomo, se non altro come principio organizzativo. Come vede, i rapporti giuridici del liberalismo preesistono, per Marx, alla realtà della produzione capitalista, e anzi la determinano.

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    13. @-->Urzidil

      Due fronti sono assai difficili da contenere, se non altro per il dispendio d'energia che richiedono.
      Il fatto che abbia citato Marx, non significa che ne condivida il pensiero, anche se alcune sue intuizioni furono determinanti per gli sviluppi successivi. Marx, come tutti i classici, ragionava per assoluti e ciò che lei dice citandolo ("il superamento della schiavitù, la quale a sua volta presuppone il concetto di libertà individuale come diritto naturale dell’uomo") è esattamente frutto di questo pensiero. La "libertà individuale come diritto naturale dell’uomo" è un concetto apodittico: si può dire ma non certo dimostrare. Se Marx avesse tolto tale paletto, tutta la sua costruzione sarebbe crollata. Del resto Marx, ripercorrendo la tradizione agostiniana (vedi incipit del mio commento precedente), attribuiva valore "assoluto" al lavoro.
      Altro spunto interessante è insito nella frase "Al livello più elementare, ogni azione collettiva sufficientemente prolungata nel tempo richiede delle funzioni di mantenimento dell'aggregato, che finiscono per diventare primarie. E' stato dimostrato, tramite la teoria dei giochi, che la massimizzazione dell'utilità individuale si ottiene operando ora in senso egoistico (prevaricando), ora in senso cooperativistico (collaborando), mai tramite l'esclusività di uno dei due comportamenti. Cioè, consegue il risultato migliore, nel senso di "a lui più utile" per la finalità di sopravvivere e procreare, colui che ora pone ed accetta delle regole sociali, ora le rompe o le elude a seconda della propria convenienza. Ne consegue necessariamente quanto sostenevo in precedenza: è tale utilità individuale che, nel suo operare pulsante, determina quelle funzioni di mantenimento (le regole) che lei asserisce diventare primarie mentre io nego posseggano tale attributo, riscontrandolo sempre e solo negli impulsi più primordiali, scevri d'etica e di morale. Al confronto tra "forze" (fisiche o mentali; individuali o collettive), poi, il compito di tradurre la loro soddisfazione in modalità che chiamiamo "etica" (il substrato sociologico) e quindi in "diritto" (l'architettura normativa interrelazionale).

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    14. «Vorrei che concentrasse qui le sue critiche e la sua decostruzione nei miei confronti.»

      Intende nei suoi confronti come entità anonima collettiva? O dovrei meglio dire nei vostri confronti?

      Io credo che io stia facendo proprio questo: concordo (e l'ho detto) che non esista alcun diritto scisso dalla forza, soprattutto nell'accezione smodatamente estesa con cui qui è stata non da me introdotta, ma accolta. Poi c'è quel "a priori" che è probabilmente il punto si cui non concordiamo.

      Dato che io ritengo di aver esposto la mia tesi, e di non saper interpretare la sua (di chi?) meglio di come ho fatto - e l'esempio paradossale del cane mi pare solo essere stato riformulato con l'aggiunta di elementi di corredo - non penso di dovermi dilungare oltre tranne che su un punto, nuovo e che è emerso con l'ultimo suo (di chi?) messaggio. Io non ho in mente alcun ragionamento per trascendentali e l'accusa mi duole, tuttavia la spiego a mia volta con un'accusa: rinnegare la piena tangibilità della capacità di astrazione umana (che poi credo che sia ciò che ingenera lo "a priori" di cui sopra).
      In questo senso mi torna comoda la scienza per poter procedere per analogia: ritengo che l'avanzamento scientifico e tecnologico dimostrino in modo difficilmente controvertibile il fatto che i modelli astratti che l'uomo può disegnare abbiano fondamento nella realtà ed una solida funzionalità (pur perfettibile). Non c'è quindi nulla di metafisico (né di platonico, per chi fosse tentato dal sospetto) nell'affermare che c'è un modello ideabile e maneggiabile dall'uomo - che so - il modello standard ad esempio, che sia in grado di astrarre dal particolare, formulare il generale, dettare un inedito ritorno al particolare, che sarebbe stato impossibile "prevedere" senza l'astrazione.

      Da qui deduco che esiste almeno un caso (che certamente potrebbe anche essere l'unico, ma non è questo il punto) in cui a me pare manifestamente vero che disquisire di "teoria" complessa come capacità esclusivamente umana nel mondo animale, ma soprattutto efficace e foriera di indirizzo, non sia un esercizio retorico. E quindi quando parlo di etica e diritti, del fatto che esista la potenzialità che questi concetti non siano mere "traduzioni" di elementi del reale su cui ci sia impossibile intervenire o teorizzare, ritengo di avere dalla mia la non assoluta impossibilità di questa eventualità, senza dover mai invocare l'assoluto e la trascendenza.

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    15. Mi spiace ma, se ho ben afferrato il senso del suo discorso, non concordo sull'affermata possibile esistenza d'un modello simile allo "standard", nelle discipline sociali di cui si discute, che non abbia contenuto meramente convenzionale e temporalmente circoscritto. Dunque, sempre soggetto a radicale variazione di rotta al mutare delle condizioni in cui il sistema da analizzare viene collocato.
      Credo piuttosto, ma è una mia pura convinzione di carattere intuitivo, mutuata dalle scienze etologiche, che in ogni individuo complesso convivano due spinte: una collettivistica, del tipo "organismo collettivo" (api, formiche, ecc.) che ci spinge all'aggregazione e alla "simpatia" verso i nostri simili; un'altra individualistica, che ci fa agire nello stesso identico modo ciecamente egoistico in cui agirebbe una cellula procariote. E' la mia unica concessione all'esogeneità (o preesistenza) di determinate aspirazioni rispetto a colui che le concepisce.
      Per inciso parrebbe che alcune recenti teorie, tipo quella delle stringhe o del multiverso, pongano attualmente in seria discussione il modello standard sinora utilizzato per la fisica, poiché insoddisfacente; ma lo riporto solo per sentito dire.

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    16. @la sua di prima (tra l'altro, come faccio a rivolgermi a lei? si firmi in qualche modo, altrimenti dovrò darle un nome a mio piacimento. Ecco, sì, la chiamerò Trasibulo)
      ["Marx, come tutti i classici, ragionava per assoluti": anche questo sarebbe un assoluto, nella sua accezione. Ma lei non è un classico, si tranquillizzi pure]
      [La "libertà individuale come diritto naturale dell’uomo" è un concetto apodittico: si può dire ma non certo dimostrare: al di là del fatto che dalle mie parti si possono dimostrare solo i giudizi e non i concetti, vorrei ricordarle che, nell'ambito della discussione sul nomos e sull'ethos è difficile dimostrare alcunché, dato che non si tratta di descrivere stati di fatto ma di prescrivere norme]

      Lei utilizza la teoria dei giochi per mostrare la compresenza di una strategia egoista (individualistica) e una cooperativa (collettivistica) nel comportamento dei singoli. Nulla da eccepire, ma nulla di realmente determinante, per due ragioni:
      i) perché la teoria dei giochi, per definizione, si muove all'interno di contesti definiti da un insieme chiuso, dato e maneggevole di regole e agenti, quando le società umane sono sottoposte a criteri organizzativi e fattori causali scarsamente definiti, mai dati per intero e fortemente variabili, come variabili per numero, importanza e strategie sono gli agenti al suo interno. Proprio per questo, i modelli della teoria dei giochi, così come molte altre formalizzazioni sono scarsamente applicabili al contesto reale, salvo una serie di caveat che lei non mi pare prendere nella dovuta considerazione;
      ii) più importante ancora, perché le società umane sono caratterizzate da quella che potrei chiamare una viscosità delle strutture intersoggettive: quando è necessario uno sforzo collettivo prolungato nel tempo (come quando, con la nascita dell'agricoltura, fu necessario dissodare e delimitare i terreni, costruire i canali di irrigazione e i pozzi, organizzare i lavori nei campi), per coordinare e disporre questa attività si sviluppano dei ruoli sociali e delle competenze specifiche, che portano alla formazione di livelli di potere, e questi poteri diventano elementi determinanti tanto nella gestione delle relazioni sociali quanto nell'elaborazione dei successivi saperi, e dunque delle successive necessità, anche a livello individuale. Insomma, i bisogni umani sono, almeno in gran parte, bisogni già sociali, e le strategie dei singoli per soddisfarli non sono mai esclusivamente singolari ma sempre già sociali anch'esse.

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    17. In altre parole, mi pare che lei voglia ignorare un piccolo fenomeno: l'esistenza del linguaggio. Il linguaggio è medium sociale per eccellenza, eppure la stessa formulazione dei desideri più privati e la formazione delle più egoistiche strategie di comportamento avvengono, anche quando si delibera nell'intimo del proprio io, attraverso il linguaggio.
      Questo rapporto continuo dell'umano con l'astratto e il generale è costitutivo, per chiunque e in ogni hic et nunc. Perciò, non è in alcun modo possibile ridurre lo stato delle relazioni umane ai rapporti di forza specifici, senza prima aver determinato in che modo questi rapporti si costituiscano e rispetto a quali finalità. Se questa sembra una tautologia, le ricordo che il punto è che tale determinazione avviene sempre all'interno della formazione di aggregati sociali e costrutti normativi, e che essi non possono, pertanto, essere ridotti a mere traduzioni ex post.

      Se poi tutto il suo ragionamento mira a dire che, andando a ritroso in tutta la storia umana e facendo astrazione dall'immensa stratificazione culturale (in senso lato, comprendendo ogni sapere e ogni norma) e sociale (ancora in senso lato, comprendendo tutti i comportamenti acquisiti, le condizioni di formazione degli aggregati sociali e di determinazione dei bisogni individuali); che, insomma, facendo tutto questo si arrivi al paramecio, si accomodi pure. Posso solo rispondere che, allo stesso modo, facendo astrazione da tutta una serie di cose, un monopattino è lo stesso di una moto da corsa; se lei però crede di poter guidare la seconda solo perché sa muoversi sul primo, allora non vorrei essere il suo assicuratore.

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    18. @-->Urzidil

      Per quel che vale, mi individui pure come Luther Blissett, anche perché da qual che mi risulta Trasibulo era un modello di virtù e, pure se così appellato con intento sarcastico, io mi ritengo solo un asettico e alquanto indifferente osservatore delle cose del mondo, rispetto alle quali cerco invano di trovare delle spiegazioni come mero modo di trascorrere piacevolmente il tempo sino al giorno della mia inevitabile dipartita.
      Credo di aver compreso ciò che lei vuol dire.
      Quello che voglio dire io, in estrema sintesi, è che non esiste alcun "principio" per il quale dobbiamo - e sottolineo il dobbiamo - comportarci in una determinata maniera (ricominciando ab ovo, tanto nei confronti degli uomini che degli altri esseri viventi). Dunque, tutto quanto è stato sinora costruito e stratificato in termini di etica (e di diritto) e da cui lei sembra asserire non si possa prescindere per un insieme di (valide) ragioni, è - a mio modestissimo parere - soggetto a venir mutato anche radicalmente a un mutamento delle condizioni che lo hanno generato (e che sono quelle in cui ci troviamo a vivere attualmente). Nella malaugurata e distopica ipotesi in cui ciò avvenga, è probabile - probabile, non certo - che l'unico fattore essenziale, determinante e costitutivo delle nuove regole sia morali che de relato giuridiche, torni ad essere il confronto reciproco tra le forze degli attori impegnati nel nuovo scenario.
      LB

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    19. Trovo persino evidente che le norme, in quanto afferenti a un dato contesto sociale, siano legate ad esso e alle sue caratteristiche specifiche. il punto è che tale contesto si articola a partire dalle condizioni esistenti nel suo sviluppo, e dunque a quell'insieme di eredità storiche e di coordinate funzionali da cui è partito, anche criticandole e negandole.
      Insomma, a meno che la sua ipotesi distopica non si basi su una pioggia di asteroidi che provochi una pandemia di zombie radioattivi, ritengo che qualsiasi sviluppo futuro continuerà a muoversi in una qualche forma di continuità con l'esistente, e che continuerà ad esserci una normatività etica basata su principi generali (per dirla con Walter nel Grande Lebowski, "anche il nazismo aveva alla base l'etica").
      Qui, secondo me, sta il busillis: o si ritiene che la definizione di principi etici generali sia un'ubbia metafisica o addirittura una montatura retorica ad uso del potere in carica, oppure si pensa che questo tipo di asserzioni generali normative abbia una certa utilità al funzionamento delle società.
      Io ritengo più probabile quest'ultima ipotesi, se non altro perché stabilire dei principi di riferimento condivisi ne permette la critica, sia per quanto riguarda il contenuto di tali massime, sia per valutare le azioni dei diversi attori sociali in riferimento ad esse. In altre parole, penso che le norme etiche permettano di strutturare il discorso pubblico in modo più efficace, e soprattutto di costruire argomentazioni cogenti e logiche, il che è senz'altro preferibile ad altre soluzioni, come le gare di rutti.

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    20. "o si ritiene che la definizione di principi etici generali sia un'ubbia metafisica o addirittura una montatura retorica ad uso del potere in carica, oppure si pensa che questo tipo di asserzioni generali normative abbia una certa utilità al funzionamento delle società"
      La seconda asserzione non invalida la prima. Mi pare che lei si limiti a trasportare un concetto dal piano ontologico a quello funzionale.
      Così come dire "che le norme etiche permettano di strutturare il discorso pubblico in modo più efficace, e soprattutto di costruire argomentazioni cogenti e logiche" non ci fornisce maggiori informazioni sulla sostanza di tali norme etiche di quelle che William James invocava rispetto all'ipotesi di dio: "Non possiamo respingere alcuna ipotesi se ne derivano conseguenze utili alla vita" e ancora "Se l'ipotesi di Dio opera in maniera soddisfacente nel più largo senso della parola, essa è vera".
      LB

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    21. Certo che anche le montature retoriche sono utili al funzionamento di (almeno alcune) società, ma con ciò lei ammette che l'operatività degli aggregati sociali dipende (almeno a volte) da istanze non riducibili all'interesse dei singoli, il che era il punto che mi interessava.

      Passiamo al successivo: proprio spostare le cose dal piano ontologico a quello funzionale è niente meno che la grande impresa teorica della modernità. Il punto non è la sostanza delle norme etiche, ma proprio la loro forma: una volta definite le pertinenze funzionali e le regole semantiche per la formazione di massime etiche, esse sono aperte alla discussione razionale, alla critica, all'argomentazione cogente.
      Non me ne voglia, ma credo che proprio quest'apertura sia al centro del progetto di società che immagino quando sono in buona.
      In altre parole, una società dell'argomentazione è preferibile a una società della manipolazione, per lo meno in quanto essa introduce un surplus di razionalità. Ma non si può dare un'argomentazione in assenza di argomento, e l'argomento è proprio la definizione del contesto normativo comune.

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    22. @-->urzidil (al quale chiedo scusa per il fuori tempo massimo)

      "Insomma, a meno che la sua ipotesi distopica non si basi su una pioggia di asteroidi che provochi una pandemia di zombie radioattivi, ritengo che qualsiasi sviluppo futuro continuerà a muoversi in una qualche forma di continuità con l'esistente, e che continuerà ad esserci una normatività etica basata su principi generali"

      Qui (Lei è indubbiamente un ottimista. Ammirevole qualità.)

      LB

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    23. Quando si taglia il bosco, volano le schegge.
      [per dire che, sì, la situazione a cui lei si riferisce è riconducibile a una normatività etica basata su principi generali, e che proprio per questo è opportuno che ci sia una continua messa in discussione di tali principi e che essa funzioni bene]

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    24. Dovevo però ancora una risposta @ LB, purtroppo necessariamente corposa, sennò continuerò a non digerire per giorni ancora.

      «[P]arrebbe che alcune recenti teorie, tipo quella delle stringhe o del multiverso, pongano attualmente in seria discussione il modello standard sinora utilizzato per la fisica, poiché insoddisfacente».

      Rileggendo perché io avessi fatto riferimento al modello standard, non riesco proprio a capire in che modo ciò sia di una qualche pur esigua rilevanza. Posso dire di più e dare per certo che prima o poi il modello standard verrà superato, come è accaduto di ogni straordinaria teoria fisica. Perché ogni teoria è applicabile entro un contesto ed il sapere evolve. Così l'elettromagnetismo di Maxwell è stato "superato", "corretto", il verbo che preferite, dall'elettrodinamica quantistica. Ciò non toglie che resta uno straordinario modello, utile, corretto nel suo ambito di applicazione, tanto che da solo è del tutto sufficiente a spiegare l'intera rete di distribuzione e fruizione elettrica mondiale ancora oggi. Non è sufficiente a spiegare del tutto come funziona un computer o una PET, ma da qui a pretendere che ciò squalifichi la concretezza e utilità dell'astrazione che lo ha ispirato per illustrarci una regola generale, ce ne passa.

      Per inciso, il successo del modello standard è talmente straordinario che proprio ad ottobre è stato assegnato un Nobel celeberrimo a due teorici, a seguito della recente scoperta sperimentale fatta al CERN del bosone di Higgs. Particella teorizzata ben cinquant'anni addietro in base al presupposto: "se il modello standard è corretto, allora deve esistere un bosone con queste proprietà qui". L'ultima, ripeto solo l'ultima di una serie infinita di scoperte che sono state possibili negli ultimi decenni grazie esclusivamente al modello standard. E adesso siamo qui a dire che due teorie ancora prive di una, una sola verifica sperimentale originale lo mettano in discussione? Sì, può darsi che domani sarà proprio così: e pur resta certo che ciò non cambia di una virgola la mia evocazione iniziale, oltre ad essere vagamente antiscientifico il porlo in discussione sulla base di non-risultati.

      Visto che son passato di qui, annoto anche un certo disaccordo sul modo in cui è stata invocata la teoria dei giochi. Come si direbbe in inglese, what you put in, you get out. L'osservazione che in alcuni modelli teorici di giochi una strategia mista (che è tra l'altro conveniente ad entrambi i contendenti, che comunque non rischiano il carcere nell'infrangere la legge, come in una società umana, o il giudizio altrui, come in una società animale) nulla ci dice, fino a che qualcuno non ha dimostrato che quel modello di gioco riproduce la realtà. A me non risulta esistere tale dimostrazione. E siccome esistono modelli ludici con tutt'altri risultati (anzi, credo che ciò sia stato colpevolmente taciuto, facendo percepire al lettore sprovveduto che esista una fantomatica regola generale dimostrata nella c.d. teoria dei giochi che asserisca quanto sopra), ecco che siamo tornati al punto di partenza: devo spiegare perché certi comportamenti vengono assunti dagli attori in campo, alias, perché vigono dette regole.

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    25. @--De Gregorio

      Sul resto non me la sento di tediare ulteriormente un ipotetico lettore, dato che - absit iniuria verbis - mi sembrano più ripicche da chi vuole avere l'ultima parola a tutti i costi, piuttosto che apporti costruttivi al discorso de quo. Peraltro reputavo la discussione conclusa, visto che come al solito ciascuno rimane sulle proprie posizioni.
      Mi soffermo solo sul finale del suo intervento, che sintetizza congruamente il fulcro della questione: "devo spiegare perché certi comportamenti vengono assunti dagli attori in campo, alias, perché vigono dette regole".
      I comportamenti vengono assunti in base all'utilità (nutrirsi, sopravvivere, replicarsi), vera o presunta di ciascuno, la quale si esplica tramite l'aggressività innata di ogni individuo (la c.d. "forza") il cui confronto reciproco - spesso cruento e sanguinoso, vedi il link sulla "Isola dei cannibali") - fa sì che, infine, si pongano delle regole onde evitare il tutto contro tutti (c.d. mera convenzionalità delle regole). Poi vi sarà chi le regole le rispetta e chi invece le infrange. Non v'è alcun motivo "superiore" ( ossia non sta scritto da nessuna parte) perché chi infranga le regole non debba conseguire un - definiamolo impropriamente - "ingiusto" profitto a scapito di chi invece le regole le rispetta. Tant'è che questo è quello che succede normalmente nell'economia dei traffici: si pongono le regole per i più (lo fa solitamente chi si appropria del "potere" di porre le regole), onde garantirsi la possibilità di operare in tranquillità senza dover subire i sistematici attacchi dei propri simili, e poi le si infrangono a proprio uso e consumo al momento più opportuno, ottenendo un vantaggio sui concorrenti (vantaggio che consente ai geni di coloro che lo ottengono di prevalere sui geni degli altri). E questo comportamento - facilmente riscontrabile nella maggior parte delle società umane, comprese quelle marxiste - è esattamente quello che viene descritto in un celebre esperimento effettuato mediante la "teoria dei giochi". Che poi la teoria dei giochi non sia il "verbo", su questo siamo tutti d'accordo; come su tante altre cose qui marginali, compresi i bosoni e la teoria standard.

      P.S. Le società umane, giunte a questo punto, avrebbero l'assoluta necessità di disporre d'una valida teoria sociale generale che spostasse
      l'ottica da una visione "per assoluti", mutuata volenti o nolenti dall'escatologia del pensiero religioso, a una "relativistica", ossia priva di punti privilegiati, come fece Einstein rispetto alla fisica classica.
      Quel che si è detto e scritto finora non è sufficiente né a spiegare Né tanto meno a giustificare perché un individuo debba comportarsi "bene" e non abbia invece convenienza a infrangere le regole quando ciò procuri un vantaggio per sé e per la sua genia.

      LB

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  8. La risposta le sarà dovuta quando quando avrà la bontà di indicare in quale punto la reciprocità del riconoscimento implichi necessariamente il ricorso, almeno potenziale, alla forza.

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  9. Beh, ho letto tutte le risposte e le controrisposte e devo dire che non ho capito un cazzo. Può essere?


    6iorgio

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