[Accorpo qui i post già pubblicati sotto lo stesso titolo, con qualche limatura.]
«È
più facile resistere all’inizio
che alla fine»
Leonardo
da Vinci
I più
autorevoli dizionari della lingua italiana danno una definizione di
propaganda
pressoché
univoca: (qui riporto quella del Devoto-Oli, ma quelle dello
Zanichelli, del Treccani, del De Mauro, del Palazzi e del Sabatini
Coletti sono sostanzialmente sovrapponibili) è l’«azione
intesa a conquistare il favore o l’adesione
di un pubblico sempre più vasto mediante ogni mezzo idoneo a
influire sulla psicologia collettiva e sul comportamento delle masse»
(l’insieme
delle pratiche finalizzate a qualcosa in più del semplice
reclutamento del consenso, se non letteralmente inteso: adesione di
massa a un sentire che implica la generale condivisione di uno stato
d’animo
e delle pulsioni volitive che esso genera); subito però si avverte
(e a nessuno degli autori citati fa difetto l’avvertenza,
anche da loro presentata come accezione) che «spesso
il termine può polemicamente alludere a grossolane deformazioni o
falsificazioni di notizie o dati, diffuse nel tentativo di
influenzare l’opinione
pubblica».
Ora,
noi sappiamo che le accezioni di un termine altro non sono che il
prodotto della sua articolazione storica, la quale non di rado porta
i significati di volta a volta assunti da un termine a trovarsi anche
assai distanti dal suo significante, come è evidente nel constatare
che talvolta le definizioni delle accezioni posso arrivare anche a
tradire vistosamente l’etimo del termine, a espressione di un
avvenuto degrado, necessitato da una forzatura dell’adattamento
all’uso (si pensi, per esempio, a sensus,
che è participio passato di sentire,
ma le cui accezioni più comuni arrivano ad essere quanto mai lontane
dalla percezione: modo,
significato,
direzione).
Bene,
suppongo che non sfugga l’affinità di articolazione storica che
lega due termini come retorica e
propaganda,
per quanto attiene al degrado del loro significato originario in
accezione più comunemente intesa. Non sfuggirà, altresì, che
questa affinità trova ragione nella funzione che entrambe svolgono
nel discorso pubblico, quella della persuasione.
Almeno
fino al XVII secolo, infatti, la retorica
rimane l’aristotelica τέχνη
ρητορική, ma poi di lì
comincia a significare sempre più spesso vana magniloquenza (si
licet, magna vaniloquenza). Con ciò
siamo alla grande crisi di quella che era stata per secoli, insieme,
arte e scienza, precipitato politico della logica e ragione del
discorso pubblico. Sia chiaro: di una decadenza della retorica si
comincia a parlare molto presto (già Quintiliano parla di una
corrupta eloquentia)
e tuttavia fino al Barocco nessuno mette in discussione che la
materia sia fondamentale in un qualsivoglia cursus
studiorum; qualche sporadico
interesse nel Settecento, poi quasi più nulla. Si dovrà aspettare
la seconda metà dello scorso secolo perché, grazie a Chaїm
Perelman, la retorica torni ad essere oggetto di ricerca e di studio,
riacquistando così dignità di disciplina, riannodando il suo antico
legame con la logica. Oggi, l’accezione ha il suo gran bel daffare,
ma il significato originario del termine ha trovato recupero e
ripristino.
Con
la propaganda il
processo di degrado è analogo, ma arriva assai più tardi: fino alla
II guerra mondiale il termine rimanda esclusivamente al suo
significato originario, che fin lì si è mantenuto intatto per
secoli, nel corso dei quali propagandum è
semplicemente quel che bisogna pro-pagere
(piantare-progressivamente-oltre,
fissare-sempre-più-in-là) per allargarne e consolidarne la presa.
Nelle epistole di Cicerone, per esempio, non propagandum
vulgo è quel che occorre non
sia diffuso fuori
dalla ristretta cerchia degli ottimati; e così sarà per tutta
l’antichità, mentre nel Rinascimento (nel Prologo del
De re aedificatoria di Leon
Battista Alberti, per esempio) propagandum sta
spesso accanto ad augendum,
per lo più riferito alla natura dell’imperium,
che ha bisogno di consolidamento, non meno che di accrescimento, per
non venir meno. Le cose non cambiano nel XVII secolo (si pensi
all’istituzione della Congregatio de Propaganda Fide da
parte di Gregorio XV, che diventerà Congregazione per
l’Evangelizzazione dei Popoli solo
nel 1967, quando il termine ha ormai assunto l’accezione che lo
squalifica), né nel XVIII secolo (gli Illuministi non disdegneranno
l’uso di una locuzione come «propagande philosophique»
per parlare della loro
attività), e neppure nel XIX secolo (gli anarchici insurrezionalisti
della seconda metà dell’Ottocento rivendicheranno con fierezza il
valore esemplare dell’attentato terroristico e dell’omicidio
politico come «propagande par le fait»);
perfino nel corso della I guerra mondiale non si ha difficoltà nel
concedere che propaganda non
sia solo quella nemica (è pienamente operativo dal 1918,
nell’esercito italiano, un Servizio P, dove P sta appunto per
Propaganda).
È
solo dagli anni ’40 del Novecento che a propaganda
si comincia a dare sempre più
spesso il significato che implica l’uso di quelle «grossolane
deformazioni o falsificazioni di notizie o dati» che
abbiamo trovato nella voce del Devoto-Oli riportata all’inizio di
questa riflessione. Di lì in poi non troveremo più in nessun luogo
l’espressione «propaganda nemica»,
largamente impiegato per esempio nel corso della I guerra mondiale,
giacché ora l’aggettivo è diventato pleonastico: solo il nemico
fa propaganda, solo il nemico diffonde notizie false, la propria
propaganda è altro (informazione,
comunicazione,
diffusione,
divulgazione,
promozione,
ecc.). È qui che l’accezione ha preso pieno possesso del termine,
ma è qui, al contempo, che quell’«ogni
mezzo idoneo a influire» che
abbiamo trovato nella definizione del Devoto-Oli ha bisogno di un
distinguo d’ordine morale rispetto a ciò che è «idoneo»:
è la malvagità del nemico ad implicare l’uso di mezzi disonesti.
L’accezione, così, prende pieno possesso del termine per stornare
con disdegno il sospetto che il fronte amico faccia impiego di
analoga disonestà.
Dicevamo
di un’affinità di articolazione storica tra retorica
e propaganda,
ma dal veloce excursus qui rappresentato è tuttavia evidente che tra
i due termini il degrado segua un processo manifestamente diacronico,
per la diversa natura dell’uditorio cui esse si rivolgono. In
propagare,
infatti, è implicito che debba esservi una massa ad assorbire quanto
diffonde da una fonte: si ha propaganda,
dunque, quando la persuasione si rivolge a un uditorio inteso come
massa (nessuna corrispondenza in retorica,
dove l’uditorio è sempre un forum);
e non ha alcuna difficoltà nel dichiararsi tale (chi fa propaganda
non ha alcuna difficoltà ad ammettere che stia facendo propaganda)
fino a quando il suo attore non è costretto a fare i conti con un
competitore che per fine ha il persuadere lo stesso uditorio,
propagare il proprio messaggio nella stessa massa (a lungo, invece,
il retore non
ha alcuna difficoltà nel dichiararsi tale nella competizione che
ingaggia con un suo pari, e che per fine ha la persuazione dello
stesso forum).
È il comparire della massa come nuova forma di uditorio a dar
ragione, di qui in poi, di una propaganda interna e di una propaganda
esterna, il che presuppone che la massa abbia caratteri simili
ovunque essa si rappresenti come uditorio, di qua e di là dalla
linea che separa l’amico dal nemico: l’«azione
intesa a conquistare il favore o l’adesione»
di una porzione sempre più ampia
delle masse di qua e di là dalla linea che separa l’amico dal
nemico presuppone analoga idoneità di mezzi «a
influire sulla psicologia collettiva e sul comportamento delle
masse». Questo, tuttavia, implica
anche altro: il «tentativo di
influenzare l’opinione
pubblica» non è più tenuto a fare
alcuna differenza tra le opinioni pubbliche che stanno di qua e di là
dalla linea sulla quale si gioca il conflitto per la conquista del
consenso, e le «grossolane
deformazioni o falsificazioni di notizie o dati» tornano
utili allo stesso modo per entrambe, giacché la loro psicologia e il
loro comportamento non differiscono.
Ma non
è dal V sec. a.C. che, con Eschilo, si ripete che «in guerra la
verità è la prima vittima»? Per quale ragione, allora, per
propaganda, il degrado da significato ad accezione non si è
verificato prima? Perché è solo con la II guerra mondiale che una
questione come quella della psicologia delle masse, in verità sorta
già a cavallo dei due secoli, con Le Bon prima e con Freud poi,
acquista un interesse che esorbita da quello accademico, per
diventare un problema di prima grandezza in un evento tanto
importante come quello bellico. Se questo non accade già con la I
guerra mondiale, che non può certo definirsi evento meno rilevante,
e rispetto al quale la propaganda pure svolge un ruolo significativo
(più nel determinare l’evento, occorre dire, che nel sostenerlo),
è per la semplice ragione che nel lustro ’14-’18 la diffusione
di cinema e radio è ancora assai limitata: il medium non è
ancora pronto a propagare; la massa (la società di massa) già
c’è, ma il medium è ancora inadeguato, e l’uditorio,
ancorché esteso, resta per lo più forum; e perciò è ancora
la retorica ad essere impiegata come mezzo per reclutare
consenso, e di retorica, infatti, la I guerra mondiale, non meno che
di sangue, gronda. Ad ammazzare la verità, prima della II guerra
mondiale, ci pensa la retorica; dopo, sarà compito della propaganda.
Può
darsi che l’ipotesi sia un azzardo, la lascio al giudizio di chi
legge questa pagina, ma oserei affermare che la propaganda diventi
tanto più problematica, con ciò assumendo il carattere di insidiosa
minaccia, quanto più i mezzi coi quali trova diffusione si ampliano
al punto da non poter evitare che opposte propagande si contendano lo
stesso uditorio. Semplifico: fino a quando il propagandum
non teme concorrenza perché
l’imperium o
la fides hanno
il monopolio del medium (oppure:
perché la philosophie e
il fait ne
scelgono uno che si fa tanto intrinseco al messaggio da sussumerlo),
la propaganda non ha alcunché di problematico; acquista
problematicità, e in misura tanto considerevole da poter assumere
carattere di arma,
quando è nella nostra disponibilità non meno di quanto lo sia in
quella del nostro nemico,
di chi con noi concorre a persuadere un uditorio, per reclutarlo
nella milizia che
combatte in favore del proprio interesse. Non c’è da stupirsi,
allora, se il massimo della problematicità si abbia con la
propaganda bellica, dove arma,
nemico e
milizia smettono
di avere senso figurato. Qui siamo all’allargamento del campo di
battaglia alla società civile e la lezione di Sun Tsu («tutte
le operazioni di guerra sono basate sull’inganno»)
diventa valida anche per la propaganda, non caso proprio nel momento
in cui la guerra prende a oggetto, quasi di regola, anche la
popolazione civile.
Avviene,
tuttavia, che con l’acquisire il significato che la degrada a
strumento di inganno e a vettore di menzogna, la propaganda perda
quello originario nel quale invece è sospeso ogni giudizio di merito
sul messaggio che è da diffondere, e accade, così, che propaganda
sia
solo quella del nemico,
e definirla tale miri innanzitutto a dissuadere l’uditorio dal
prestarvi fede; ne consegue che farsi persuasi delle ragioni del
nemico, espresse dalla sua propaganda, implichi giocoforza esserne,
insieme, vittima e complice. Nasce, così, l’interdetto implicito
alle ragioni del nemico, veicolate dalla sua propaganda: se esse sono
giocoforza menzogne, anche il solo darvi ascolto implica stoltezza o
malvagità, stupidità o tradimento.
Con
quanto fin qui ricostruito riguardo al percorso di un termine come
propaganda,
non c’è da stupirsi che i problemi posti dalle pratiche
propagandistiche non abbiano trovato ragione di una riflessione
articolata prima della II guerra mondiale. Ad affrontare per la prima
volta il tema in modo articolato, almeno a quanto mi risulta, è un
articolo apparso nel 1941 sul British
Journal of Medical Psychology
(Vol. XIX) a firma di Roger Money-Kyrle (in italiano, il testo,
relativamente breve, è reperibile in Scritti
1927-1977 –
Loescher,
1985, col titolo La
psicologia della propaganda).
Credo possa tornar utile riportarne qualche stralcio per aver modo di
considerare come viene affrontato il tema.
«La
propaganda è sempre stata il mezzo attraverso cui le diverse
organizzazioni politiche e religiose hanno cercato di imporre la loro
volontà, ma nel passato la sua estensione era limitata e la sua
diffusione relativamente lenta. […] Negli ultimi anni, con
l’avvento di quotidiani poco costosi, del cinema e,
soprattutto, della radio, gli ascoltatori e i lettori, da poche
centinaia, sono improvvisamente diventati milioni. La capacità di
penetrazione della propaganda si estende adesso al mondo intero, e
nessuno, a meno di vivere su un’isola deserta, può
sottrarsi alla sua influenza. Per questa ragione la psicologia della
propaganda, o, ciò che è forse la stessa cosa, la psicologia della
suggestione di massa, ha improvvisamente assunto un’enorme
importanza».
Qui mi
fermerei un istante a considerare due termini che mi paiono centrali
in questa parte dell’articolo: penetrazione e suggestione.
Il primo, credo, dà ragione della modalità di diffusione del
messaggio cui la propaganda è tenuta a far ricorso per la stessa
natura della massa, nel cui corpo la propagazione può
avvenire solo per infiltrazione. Il secondo, invece, dà
ragione della natura che la persuasione assume quando il forum
prende le dimensioni e le caratteristiche della società di
massa. Anche qui, per suggestione, occorre considerare la
forzatura dell’adattamento all’uso che porta l’etimo del
termine a esprimere con la sua accezione un significato che lo
contraddice: la proposta che sta nel suggerimento diventa
l’imposizione cui mira l’insinuazione. Percorso opposto, a
ben vedere, con quello che porta il persuaso (per-suasus,
indotto a fare) a essere convinto (colui che nell’essere
persuaso vince con il persuasore, e con ciò conquista in
prima persona la verità che questi gli offre, senza alcuna indutio
insidiosamente suavis). Ma cosa dà modo alla suggestione
di agire?
«Se
l’uomo fosse completamente razionale e se fosse influenzato
solamente da quella propaganda che dice la verità, tutta la verità
e nient’altro che la verità, non ci sarebbero problemi. Ma,
sfortunatamente, evidenza e giudizio non sono le sole determinanti
delle sue convinzioni e dei suoi sentimenti. L’uomo è sempre stato
un animale credulo che si lascia facilmente convincere e infiammare
dall’oratoria: talvolta può lasciarsi quasi ipnotizzare,
accettando qualsiasi cosa venga asserita con sufficiente forza e
autorità».
Qui
credo occorra appuntare l’attenzione sull’uso di quella che di
fatto è parte della formula di giuramento che il soggetto chiamato a
rendere testimonianza nel corso di un processo è tenuto a recitare
prima della sua deposizione («la verità, tutta la verità e
nient’altro che la verità»). Money-Kyrle vuol farci credere
che, almeno in teoria, sia possibile una propaganda in grado di
essere fedele testimone di come scorranno gli eventi bellici? Sta
mettendo in discussione quanto affermano Eschilo e Sun Tsu? No,
perché, anche volendo, non può: nel corso della I guerra mondiale
ha servito il Regno Unito nella Royal Air Force e, mentre scrive
quanto qui riporto, lavora per il Ministero dell’Aeronautica come
reclutatore di nuove leve. Non c’è bisogno di psicoanalizzare lo
psicoanalista per capire che la sua riflessione debba lasciare spazio
all’almeno teorica possibilità che la propaganda possa diffondere
verità. Un po’ più difficile capire perché per farlo abbia
comunque bisogno della suggestione, che qualche capoverso prima ha
definito intrinseca alle pratiche propagandistiche, ma forse è
quanto segue a sciogliere il nodo del double standard.
«Dire,
come gli psicologi amano fare, che l’uomo è
suggestionabile, è semplicemente dare un nome alla qualità che
stiamo cercando di spiegare. Vogliamo capire perché alcune persone
si lasciano più facilmente suggestionare dalla propaganda di altre,
e perché il livello della loro suggestionabilità dipende sia dalla
loro relazione con chi fa propaganda che dalla natura della
propaganda».
Dichiarati
i fini dell’indagine, Money-Kyrle passa a considerare le
«differenze nella suggestionalità generale», che mette in
relazione a due ordini di fattori: il livello di istruzione («le
persone istruite sono meno influenzabili dalla propaganda delle
persone che non lo sono, poiché hanno maggiori informazioni con cui
confrontare ciò che viene loro raccontato») e quello di
maturità psicologica rapportato al grado di superamento della
dipendenza vissuta da ogni bambino («alcuni crescono e diventano
indipendenti, altri rimangono psicologicamente bambini per tutta la
vita, sempre dipendenti da sostituti delle figure parentali, sia
umani che divini»). Ma, ovviamente, «la suggestionabilità
della propaganda dipende anche dalla fonte di provenienza»,
soprattutto dove essa assuma l’autorità di cui da bambini abbiamo
fatto esperienza nella relazione con le figure parentali: siamo più
suggestionabili a ciò che ci viene detto da qualcuno che riesca a
surrogare il padre o la madre, e dunque la propaganda riesce
maggiormente a suggestionarci se è propaganda patria e corre in
madrelingua, il che implica che, «se siamo suggestionabili da
un’autorità, siamo anche controsuggestionabili dall’autorità
che a essa si oppone», e così «non soltanto ci troviamo in
disaccordo con la parte avversa […] ma non siamo neppure in grado
di credere alla sua buona fede». Le cose, tuttavia, si
complicano, perché con ciò la «parte avversa» arriva ad
assumere il proiettato dei nostri nemici interni: «quando due
gruppi diventano reciprocamente paranoidi in questa maniera, diventa
pressoché impossibile discriminare tra sospetti veri e sospetti
falsi; infatti i falsi sospetti di una parte innescano contromisure
nell’altra, e così si autoconfermano».
È
chiaro che la riflessione di Money-Kyrle non può che muovere
dall’assunto freudiano che «la contrapposizione tra psicologia
individuale e psicologia sociale o delle masse, contrapposizione che
a prima vista può sembrarci molto importante, perde, a una
considerazione più attenta, gran parte della sua rigidità»
(Psicologia delle masse). Anche chi non è troppo addentro
all’edificio della teoria freudiana sa cosa porta a evidenziare,
questa «considerazione più attenta»: la pulsione sociale
non è originaria, né indecomponibile, e gli esordi del suo sviluppo
sono sempre rintracciabili in un ambito più stretto, come quello
della famiglia. Questa non è la sede per discutere questo assunto,
col quale peraltro lo stesso Freud ammette non si risolve per intero
l’«enigma della massa». Di fatto, tuttavia, i suoi
caratteri rimandano senza dubbio a un momento regressivo: «la
mancanza di autonomia e di iniziativa del singolo, il coincidere
della reazione del singolo con quella di tutti gli altri, […]
l’indebolimento delle facoltà intellettuali, il disinibirsi
dell’affettività, l’incapacità di moderarsi o di differire, la
propensione a oltrepassare tutti i limiti nell’espressione del
sentimento che tende a scaricarsi per intero nell’azione»
(ibidem). Questo il substrato su cui la suggestione opera,
ma cos’è, per Freud, la suggestione? «È una manifestazione
parziale dello stato ipnotico, il quale risulta validamente fondato
su una disposizione conservata nell’inconscio sin dalle origini
preistoriche della famiglia umana» (ibidem).
Non so
quanto possa essere ancora convincente, oggi, questa definizione, con
quanto di controverso grava su un termine come ipnosi, che in
fondo è stato largamente impiegato, fino a quando è stato
possibile, per accantonare i problemi posti dalla natura
apparentemente impenetrabile della suggestione. D’altronde è
con lo stesso Freud che la psicologia comincia ad abbandonare la
pratica ipnotica, con una esplicitamente dichiarata «rinuncia alla suggestione».
Con Lacan si arriverà finalmente a decostruire il meccanismo della
suggestione sul piano del linguaggio: se «l’inconscio è
strutturato come linguaggio», la suggestione opera su esso in
forma di fallacia. Tornando a Money-Kyrle, allora, l’equivalenza
tra la «psicologia della propaganda» e «psicologia della
suggestione di massa» può dirsi fondata sull’efficacia
persuasiva delle fallacie che più agevolmente riescono a eludere la
logica della retta argomentazione. Ammesso e non concesso che possa
esserci una «propaganda che dice la verità, tutta la verità e
nient’altro che la verità», quella che diffonderà
«grossolane deformazioni o falsificazioni di notizie o dati»
sarà riconoscibile dal ricorso alle fallacie che più
efficacemente sono in grado di indurre l’individuo a quello stato
regressivo che è proprio della massa; e quelle che operano sulla
controsuggestione (l’argomento è rigettato o ritenuto confutato,
ancorché inadeguatamente, solo perché prodotto dalla parte avversa:
fallacia ad hominem, argomento fantoccio, colpa per
associazione, due torti fanno una ragione, appello al
caso particolare, ecc.) non sono meno efficaci di quelle operano
sulla suggestione (l’argomento è fatto proprio, e spesso riproposto,
solo perché prodotto da autorevoli rappresentanti della parte amica:
ricorso all’autorità, ricorso alla tradizione,
fallacia ad populum, pressione dei pari, petizione
di principio, ecc.).
Abbiamo
detto che non può esserci una «propaganda
che dice la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità»,
quindi, seppur in varia misura, «grossolane
deformazioni o falsificazioni di notizie o dati» sono
di regola diffuse dalla propaganda amica e dalla propaganda nemica.
Sul piano della regressione, non riuscire a riconoscere quelle
diffuse dalla propaganda amica equivale a non riuscire ad ammettere
di averle riconosciute tali.
A questo punto, a ragione, è legittima
un’obiezione, e affrontarla può tornare utile a capire perché, ma
anche come, col suo degrado da termine ad accezione, la propaganda
debba reindirizzare i suoi fini, mutando giocoforza i suoi mezzi,
anche qui trovando affinità con la trasformazione cui è già tempo
andata incontro la retorica. A buon diritto, infatti, il lettore può
chiedere perché vedere nel lavoro di Roger Money-Kyrle il primo
contributo a un’analisi critica dei meccanismi propri delle
tecniche propagandistiche, trascurando, per esempio, il Propaganda
Technique in the World War di
Harold Lasswell, che è addirittura del 1927? Basta leggerlo (in
italiano è stato pubblicato due anni fa per i tipi di Armando
Editore): Lasswell studia il fenomeno da sociologo inemendabilmente
impregnato di behaviorismo, corrente di pensiero che ritiene
possibile applicare il metodo fisico-matematico alle scienze sociali;
la hypodermic needle
theory di Lasswell
risente pesantemente di questa impostazione, presupponendo una massa
inerte, totalmente passiva al messaggio propagandistico, al punto da
rendere prevedibile, e dunque programmabile, la risposta allo stimolo
(anche per questo nel suo lavoro del 1927 il termine ha ancora un
valore neutro, ancora strettamente legato all’etimo, nient’affatto
squalificato come sarà solo di lì a qualche decennio). È ancora
accettabile una teoria che ritiene trascurabili i processi mentali
individuali in risposta al messaggio propagandistico, prendendo a
oggetto i soli effetti misurabili su una massa considerata omogenea?
È ancora credibile un modello come quello proposto da Lasswell in
cui le dinamiche relazionali seguono in modo rigido il suo schema
delle 5 W (Who says What
in Which channel to Whom with What effect)?
Già una decina d’anni dopo l’uscita di Propaganda
Technique in the World War non
lo fu più, e citare l’episodio che rese a tutti chiara
l’inconsistenza della hypodermic
needle theory può forse
alleggerire un po’ questa pagina.
Il
30 ottobre 1938 andò in onda dai microfoni della CBS la celeberrima
War of the Worlds di
Orson Welles, preceduta dall’avvertenza
che si trattasse di una fiction.
La teoria di Lasswell, come più d’uno
fece notare già all’indomani,
prevedeva una reazione di massa omogenea, il che non fu, giacché al
contrario essa coprì tutto l’ampio
spettro dalla scomposta isteria al franco divertimento. C’era
bisogno d’altro per
spiegare una risposta tanto variegata, e abbiamo visto come
l’impostazione
psicoanalitica potesse offrirlo grazie al concetto di regressione.
Non è del tutto ozioso, tuttavia, considerare in quale modo questa
impostazione fu recepita dalla sociologia, con un rapido excursus
delle teorie che si susseguirono nel tentativo di spiegare la varietà
di risposta al messaggio propagandistico (politico, bellico,
pubblicitario, ecc.) da parte di una società di massa che predispone
sì l’individuo a quel
momento regressivo che abbiamo visto come descritto da Freud, ma
tuttavia non ne uniforma le reazioni: negli anni ’40
abbiamo la teoria degli
effetti limitati, negli
anni ’50 la teoria
della persuasione, negli
anni ’60 la teoria
degli usi e delle gratificazioni.
Su nessuna in particolare vale la pena di soffermarsi, giacché ormai
rivestono un interesse esclusivamente storico, e tuttavia una
considerazione va fatta: nascono tutte col dichiarato scopo di dare
una spiegazione alla gamma di risposte al messaggio elettorale o
pubblicitario, a voler prendere atto che la società di massa è cosa
un po’ più complessa di
come era stata fin lì descritta da Michels, da Mosca, da Pareto,
tanto per citare i più noti esponenti della cosiddetta teoria
delle élites (non a
caso, in Who gets What,
When, How, del 1936,
Lasswell dichiara la sua filiazione a questa scuola, e di lì in poi
il suo nome sarà spesso accanto a quello di James Burnham, che passa
per capostipite del cosiddetto neo-elitismo).
Ma
dicevamo di come la propaganda, al pari della retorica (seppure in un
contesto storico diverso), sia costretta a reindizzare i suoi fini e
a scegliere perciò mezzi diversi da quelli fin lì impiegati; e a
questo vale la pena di tornare. Possiamo semplificare a questo modo: col
passaggio del discorso pubblico dall’agorà al foro, dal foro
all’ecclesia e dall’ecclesia alla corte, da scienza del retto
argomentare, la retorica passa a essere disciplina dell’eloquenza,
per diventare vana e artificiosa ricerca dell’effetto, e la
trasformazione del mezzo è in relazione alla trasformazione del
fine, che a sua volta è in relazione alla trasformazione del
soggetto da persuadere (trasformazione sociale e dunque psicologica,
non viceversa); così la propaganda, che da mero strumento di
diffusione diventa pratica di reclutamento, di indottrinamento e di
fidelizzazione, con la trasformazione dell’uditorio
in platea di spettatori/consumatori, e del discorso in slogan.
In
entrambi i casi, per retorica e per propaganda, accade che il
messaggio non si indirizzi più a un «uditorio
universale», ma a un
«uditorio particolare»
(le virgolette, qui,
rimandano alla differenza posta da Perelman, e già discussa tempo fa
su queste pagine: «Il
discorso rivolto a un uditorio particolare mira a persuadere, mentre
quello rivolto all’uditorio universale mira a convincere»,
perché «un discorso
convincente è quello le cui premesse e i cui argomenti sono
universalizzabili, vale a dire accettabili, in linea di principio, da
tutti i membri dell’uditorio universale»,
dacché conseguirebbe che quello persuasivo abbia efficacia solo
laddove la particolarità dell’uditorio sia data da una specifica
tendenza ad assecondare un certo tipo passioni e un certo tipo di
pregiudizi, e in sostanza a rappresentare un certo grado di
regressione, a piazzare il prodotto su una specifica fetta di
mercato).
Quanto
fin qui detto ci consente alcune considerazioni che altrimenti
sarebbero suonate apodittiche: (1) non si può avere degrado del
termine ad accezione senza che (prima che) l’avvento della società
di massa abbia mutato la natura del foro in cui erano abitualmente
messe in campo le tradizionali armi della persuasione assicurate
dalla retorica (il propagandum
può perdere
definitivamente – irreversibilmente – il suo valore neutro, per
implicare necessariamente la diffusione di «grossolane
deformazioni o falsificazioni di notizie o dati»,
solo in un contesto che consenta di indurre processi regressivi, con
l’impiego di mezzi adeguati a ottenere una diffusione ampia e
veloce, in un uditorio con i caratteri di massa); (2) nell’accezione
così acquisita, la propaganda non perde del tutto il significato del
termine (resta l’«azione
intesa a conquistare il favore o l’adesione
di un pubblico sempre più vasto»),
ma ciò che le serviva a tal scopo («ogni
mezzo idoneo a influire sulla psicologia collettiva e sul
comportamento delle masse»)
annulla ogni differenza formale tra persuasione e suggestione; (3)
con ciò la propaganda diventa un’arma eminentemente disonesta e
subdola, che perciò può essere utilizzata solo dal nemico, a dar
conferma della sua malvagità (è un’arma che mira a rafforzare il
consenso nel suo campo e a seminare dissenso in quello avverso); (4)
giacché ogni massa è disomogenea (nei suoi vari settori presenta un
diverso grado di resistenza all’induzione della regressione),
l’efficacia della propaganda (che, degradata ad accezione, abbiamo
detto poter essere impiegata solo dal nemico) si misura sui risultati
del consenso che il nemico ottiene nel proprio campo e del dissenso
che ottiene in quello avverso; (5) l’efficacia della propaganda
(che – occorre ripetere – è solo quella del nemico, una volta
che il termine è stato degradato ad accezione) ha una duplice
valenza: (5') segnala quanta regressione il nemico è in grado di
indurre nel proprio campo (consentendo così di poter considerare
vittime della sua arma quanti in quel campo lo appoggiano); (5'') dà
ragione di quante vittime è in grado di causare in quello avverso,
dove però, anche se considerate tali, acquistano il ruolo di nemico
interno.
Anche
se non esplicitate in questi termini, tali considerazioni paiono già
rintracciabili in un articolo che un altro psicoanalista, Ernst Kris,
scrive appena poche settimane dopo quello di Roger Money-Kyrle: ha
per titolo Il “pericolo”
della propaganda (ne Gli
scritti di psicoanalisi,
Boringhieri 1977) e anche qui può tornare utile riportarne qualche
brano.
«Se
un’affermazione è resa in forma di slogan, la forza del suo
richiamo può sopraffare quella della ragione; lo slogan richiede una
risposta emotiva». Ci
aspetteremmo che la riflessione prenda una piega metapsicologica per
analizzare i meccanismi grazie ai quali una locuzione o una frase
riescono a far breccia nella struttura psichica di un soggetto, e
invece Kris procede a questo modo: «Lo
slogan del “pericolo della propaganda” ha, effettivamente, dato
vita a risposte di questo genere, la più tipica delle quali è
“attenti alla propaganda”».
Anche qui si è indotti a un fraintendimento: Kris sta forse cercando di
farci credere che considerare un pericolo la propaganda sia dovuto a
un moto irrazionale quanto quello che la rende efficace? Ancora una
volta siamo smentiti: «Discuterò
in seguito una simile risposta. Per il momento vorrei trasformare lo
slogan in affermazione e chiedermi che cosa la gente abbia in mente
quando dice che la propaganda è pericolosa».
Dove sta il “pericolo”? «Non
tutti coloro che fanno questa affermazione si riferiscono allo stesso
pericolo, [perché]
generalmente vogliono
dire che solo la propaganda dei loro oppositori è pericolosa».
Ecco – insieme – recuperato il significato originario del termine
e denunciata la natura del suo degrado ad accezione. Ma in cosa
consiste, questo pericolo? A cosa ci si riferisce quando si afferma
che la propaganda è un pericolo? «Al
fatto che l’uomo è suggestionabile; alla tecnica escogitata per
trarre vantaggio da questo fatto; ai gruppi di pressione che usano
questa tecnica».
Qui
possiamo saltare a pie’ pari la lunga parte dell’articolo
dedicata alle cause della suggestionabilità umana (anche se può
essere utile rilevare il punto in cui si afferma che «la
linea di confine tra suggestione e persuasione è difficile da
stabilire»), per
arrivare alla risposta che ci era stata promessa: «La
gente è suggestionabile e lotta contro questo. Dall’esperienza
clinica noi conosciamo il paziente che soffre di angoscia
dell’angoscia, di paura della propria paura. Questo è assai comune
se la sua angoscia si riferisce a desideri passivi. Egli è a
conoscenza della propria passività e vive un secondo livello di
angoscia. La sua conoscenza della sua passività aumenta l’angoscia.
Noi sappiamo quanto sia difficile controllare questi stati […]
[che] possono
rendere […] il paziente più incline a qualche gratificazione dei
suoi desideri passivi. Se l’assalto
proviene da un lato che egli non stava sorvegliando, può avere
successo. In una certa misura, sembra esistere un fenomeno simile
nella sfera sociale». E
qui è interessante considerare il caso portato a esempio.
«La
fobia della propaganda dei primi mesi di questa guerra negli Stati
Uniti [ripetiamo:
l’articolo è del 1941]
non ha protetto la gente
dalla propaganda stessa, anzi l’ha
resa più accessibile a un certo tipo di propaganda: il movimento
antipropaganda è diventato propaganda esso stesso. Come sempre,
però, il desiderio del pubblico di accettare la propaganda di questi
antipropagandisti era ben fondato in qualcosa che ha la natura di un
interesse dell’Io:
la gente voleva restare fuori dalla guerra e voleva essere sottoposta
alla propaganda, e così la fobia della propaganda si sviluppò in un
movimento propagandistico. […] Non sembra esserci ragione di
credere che […] la paura della suggestionabilità e della
propaganda abbia mai funzionato come una vaccinazione. Al contrario,
[…] questa paura paralizza una risposta attiva alla pressione della
propaganda. Questa risposta attiva non è altro che l’essere
preparati in qualunque momento a contrapporre la propria opinione a
quella del propagandista».
In sostanza, suonare l’allerta
per la minaccia posta dalla diffusione di «grossolane
deformazioni o falsificazioni di notizie o dati» ad
opera del nemico (la propaganda pienamente degradata ad accezione)
ottiene il fine di rendere più vulnerabile «la
gente» del proprio
campo a «un certo tipo
di propaganda», che
sempre propaganda è (nel senso che l’accezione
dà al termine), ma che rifiuta di definirsi tale: la fobia della
propaganda nemica è funzionale a rendere efficace la propaganda
amica, nel contempo rigettando il sospetto che anch’essa
diffonda «grossolane
deformazioni o falsificazioni di notizie o dati»;
di più, rendendolo colpevole, come indizio di intelligenza col
nemico.
Per
quale ragione è solo con la II guerra mondiale che il termine
propaganda perde
del tutto il significato che sta nel suo etimo (dove ciò che occorre
pro-pagere ha
valore neutro) e acquista quello che implica esclusivamente la
pratica di diffondere «grossolane
deformazioni o falsificazioni di notizie o dati» (con
ciò diventando arma disonesta usata solo dal nemico)? Credo che la
risposta stia nel fatto che con la II guerra mondiale i regimi
cosiddetti liberaldemocratici sono stati costretti a confrontarsi con
quelli cosiddetti totalitari, a riconoscere che gli strumenti di
reclutamento ideologico erano sostanzialmente simili (necessariamente
simili, potremmo concedere, nell’ottica della logica bellica, dove
il fine della vittoria non lascia spazio a scrupoli morali sui mezzi
da impiegare) e a doverlo negare (dove con negare qui è da intendere
il processo col quale in psicoanalisi si fa riferimento a quel
meccanismo di difesa col quale l’inconscio opera una distorsione
della realtà finalizzata a neutralizzare i suoi aspetti spiacevoli e
dolorosi; trattandosi di una negazione che opera sul piano lessicale,
spezzando la relazione tra significante e significato, si potrebbe
più congruamente parlare di forclusione).
Traggo
questa conclusione dal tentativo, vedremo quanto fallimentare, di far
distinzione tra una «propaganda
democratica» e una
«propaganda
totalitaria»,
«propaganda buona e
propaganda cattiva»,
sulla base dell’assunto
che «i metodi usati per
influenzare l’opinione
pubblica sono strettamente legati al sistema di governo».
I corsivi sono tratti da un articolo di Ernst Kris che segue di pochi
mesi quello già citato, e che ha per titolo Alcuni
problemi della propaganda di guerra: note sulla propaganda nuova e
vecchia, anch’esso
contenuto nel volume edito dalla Boringhieri (Gli
scritti di psicoanalisi,
1977); ed è lo stesso Kris a dimostrarci quanto sia fallimentare
questo tentativo, che pure è speso «senza
fingere un distacco che non pretend[e]
di avere» e
nella consapevolezza che «in
ogni società esiste qualche mezzo di controllo sociale di questa
natura che stabilisce un contatto tra i capi responsabili e la
collettività», che «la
situazione dell’“essere
in guerra” è una situazione che tende a stigmatizzare ogni
comunicazione di questo tipo»,
che di qui e di lì dal fronte c’è
un «alto grado di
uniformità della propaganda di guerra»,
di qui e di lì dal fronte ultimativamente riducibile all’«argomento
“la nostra causa è giusta, noi vinceremo”».
Quale
sarebbe, allora, la differenza tra la «propaganda
democratica» e la
«propaganda
totalitaria», tra
«propaganda buona e
propaganda cattiva»?
«La propaganda
totalitaria è chiaramente basata sull’assunto
che il messaggio del capo dovrebbe essere totalmente “accettato
come ideale dell’Io”
e l’identificazione
dovrebbe aver luogo nel Super-io. La propaganda democratica, al
contrario, è basata su un concetto in cui si distribuiscono più
pianamente due tipi di identificazione: una nel Super-io e una
dell’Io».
Come ci è data plasticamente questa differenza? «Se
uno dei capi totalitari si indirizza al suo popolo, regolarmente egli
parla in un’adunanza
di massa [il che
indurrebbe una condizione di suggestione ipnotica] […]
[Al contrario] i
capi democratici parlano stando seduti nel loro studio. Si rivolgono
agli individui della loro nazione, i loro discorsi sono “quattro
chiacchiere in famiglia, intorno al focolare domestico”. Non esiste
una differenza di prestigio o potere, ma una differenza di
responsabilità tra l’oratore
e l’ascoltatore, al
quale è lasciato di soppesare, verificare e riflettere».
L’articolo,
occorre rammentare, è del 1941: torna utile, oggi, ammesso che lo
fosse allora, a dimostrarci che la propaganda totalitaria è cattiva
e quella democratica è buona? Ammesso che torni utile, c’è
da constatare che con ciò la propaganda buona non è più efficace
di quella cattiva, al punto che è lo stesso Kris a segnalare che in
campo democratico ci sono molti ad essere «favorevoli
a un’intensificazione
della propaganda, all’uso
di tutti i mezzi possibili della pubblicità per creare entusiasmo: i
più radicali tra di essi sostengono che i metodi adottati dai
nazisti sono i migliori possibili».
Si è nel torto a credere che costoro, oggi, abbiano vinto?
Non
c’è da stupirsi che anche nel campo cosiddetto democratico ci sia
chi ritiene che «i
metodi [propagandistici]
adottati dai nazisti sono
i migliori possibili» e
che non sia proficua un’informazione che consenta di «soppesare,
verificare e riflettere»,
operazioni che sono oggettivamente un freno alla diffusione di un
messaggio che per fine ha la suggestione ipnotica, la mobilitazione
emotiva, la fidelizzazione e il reclutamento; né c’è da stupirsi
che questo valga tanto per la propaganda di guerra che per quella di
mercato (non è un caso che le centrali propagandistiche attive nel
mondo occidentale nel corso della seconda guerra mondiale si
avvalsero di esperti già attivi in campo pubblicitario), per la
semplice ragione che la logica del profitto economico è la stessa
della conquista bellica.
Possiamo
con ciò concludere che non ci sia alcuna differenza tra la
propaganda totalitaria e quella cosiddetta democratica? No, qualche
differenza c’è, e non da poco, ma attiene esclusivamente a modo in
cui esse affrontano la resistenza alla penetrazione del messaggio
propagandistico, che in entrambi i casi tuttavia è criminalizzata,
anche se la pena comminata è diversa: lo stato totalitario punisce
il rigetto della sua narrazione propagandistica con la persecuzione,
la reclusione e perfino con la morte; lo stato cosiddetto democratico
con la messa all’indice, la discriminazione e l’emarginazione.
Questa differenza di trattamento riservata a chi si oppone a far
propria la narrazione propagandista di regime (cui qui si dà il
significato originario di «forma
di governo», che
consente di usare il termine per ogni forma di governo) non è certo
irrilevante, come si diceva, ma nulla implica relativamente ai mezzi
e ai fini che muovono la logica propagandistica.
È legittimo
tuttavia porsi un problema: cosa ha prodotto, dal 1941 ad oggi, un
uso sempre più frequente dei «metodi
adottati dai nazisti» anche
da parte dei regimi cosiddetti democratici? Cosa ha portato i regimi
cosiddetti democratici a ritenere che i «metodi
adottati dai nazisti» siano
«i migliori possibili»?
Ma, prima di tutto, è davvero così? Quali sono i «metodi
adottati dai nazisti»?
Kris dice che, a differenza di quella democratica, la propaganda
totalitaria è ripetitiva e martellante, ma solo dopo aver affermato
che, in ciò, esse mostrano solo una «differenza
di grado». Tutto qui?
No, perché una differenza che dovrebbe essere sostanziale emerge
proprio dalla descrizione del contesto in cui si articola la sua
riflessione: «Molti
osservatori hanno denunciato il fatto che l’entusiasmo
in questa guerra sembra essere sospetto nelle democrazie. La febbre
spionistica o le campagne d’odio sono rifiutate dalla gente […]
Tendono a un’apprensione sempre più ragionevole, a un’informazione
maggiore e migliore».
Un contesto assai meno attossicato di quello odierno, si direbbe, il
che conferma quanto già detto: dal 1941 ad oggi la pratica propagandistica è diventata
sempre più uniforme di qua e di là dalla linea che separa le
società cosiddette democratiche da quelle in cui vigono regimi
totalitari, dittatoriali, autocratici, ecc.
E
allora torna la domanda: cosa ha prodotto questa uniformità? La
risposta a me pare estremamente semplice: le società cosiddette
democratiche sono diventate sempre meno democratiche; il ridurre i
cittadini a consumatori ha reso sempre più efficace il messaggio
propagandistico che meglio s’attaglia alla logica del mercato; la
persuasione, come il profitto, non può più porsi scrupoli nel
perseguire il suo fine, che o è illimitato o è destinato a
deflettere e ad estinguersi.
Con
ciò concedo che il lettore abbia pieno diritto di chiedersi: dunque
tu affermi che la deriva neoliberista delle società
liberaldemocratiche occidentali implichi un pericolo totalitario? Sì,
ne sono sempre più convinto.
La
crisi pandemica mi ha dato modo di trovare piena conferma di ciò che
Michel Foucault affermava nelle sue lezioni al Collège de France del
1979-80 (Du
gouvernement des vivants),
e cioè che il paradigma ordoliberale è intrinsecamente repressivo e
totalitario. La crisi ucraina, poi, ha ulteriormente rafforzato la
convinzione che ha mosso su queste pagine la mia polemica avverso la
presunzione di superiorità morale e culturale di certa sinistra:
quando la liberaldemocrazia ha smesso di essere metodo per diventare
ideologia, ha assunto logica imperiale. In entrambe le crisi, ho
visto confermate le tesi di Debord sulla relazione tra potere e
società dello spettacolo, quelle di Perniola sulla sensologia,
la forma di nuovo potere che dà per acquisito il consenso
plebiscitario su fattori affettivi e sensoriali, quelle di Agamben
sulla permanentizzazione dello stato di eccezione.