lunedì 10 febbraio 2014

Intorno al cacozelo




Ignorato dal Treccani, dal Devoto-Oli e dal De Mauro, il lemma cacozelo (dal greco κακός ζήλος) è definito «inusit. a noi» perfino dal Tommaseo, e sta per «imitazione o emulazione di quel che è vizioso, o men bello per affettazione di bellezza», anche se la sua miglior definizione è in Quintiliano (Institutionum Oratoriarum Libri Duodecim, VIII, 56-58), per il quale sta nel ricorso alla congerie delle «tumida et pusilla et praedulcia et abundantia et arcessita et exultantia» ed è perciò «omnium in eloquentia vitiorum pessimum», perché «mala adfectatio», aspirazione (al bello) con esito infelice (di caduta nel lezioso). Col cacozelo, insomma, possiamo dire che siamo al più goffo infortunio dell’artificio retorico: l’eloquenza manca il suo fine e si esaurisce in ostentazione compiaciuta della sua vacua ridondanza.
A parte, sarebbe da considerare che nel Tommaseo, come d’altronde dà conto il Pianigiani, l’«affettazione» è già il fine mancato cui mirava la pretensione dell’«adfectatio»: nella retorica dev’essere accaduto qualcosa – vedremo cosa – che ha fatto prendere coscienza delle infauste conseguenze delle eccessive libertà che, col passaggio dal Rinascimento al Barocco, la Maniera si è presa nei confronti della Misura. Basti pensare a come il severo giudizio di Quintiliano si ammorbidisca, e di molto, nel Seicento. Per François de La Mothe Le Vayer, ad esempio, «quelli che si sottomettono troppo scrupolosamente a tutti precetti dellarte [retorica] senza volerne trasgredire alcuno sono simili a quei funamboli o ballerini sopra la corda, che contano i passi che fanno e stanno in apprensione continua di cadere. Questo timore glimpedisce di sollevarsi in alto e, non pensando che a tenersi lontani dal vizio, trascurano sovente le parti più nobili e più cospicue delleloquenza. Non è per tanto che debbansi sprezzare le sue regole [...] [ma], ancorché le ridondanze o le superfluità siano molto viziose, le magrezze e le aridità del discorso lo sono ancora molto più» (Scuola de’ prencipi e de’ cavalieri, cioè la geografia, la rettorica, la morale, l’economica, la politica, la logica, e la fisica; cavate dall’opere francesi del sig. Della Motta Le Vayer, che le ha distese per istruzione di Luigi 14. re di Francia, tradotte nella lingua italiana dall’abbate Scipione Alerani - In Bologna, per Giacomo Monti, 1677).
Ma qualcosa accade – dicevamo – con l’uscita dal Barocco, anzi non è di troppo azzardo il ritenere che se ne esca proprio per ciò che accade: il retore cambia ruolo sociale, non importa quale sia il suo foro. Non è una scelta: è la società che gli cambia d’attorno, e in primo luogo si trova dinanzi un altro uditorio. Per meglio dire: l’argomentazione impone regole nuove. In altri termini: si vanno ponendo le basi alla nascita della logica proposizionale, nella quale «le parti più nobili e più cospicue delleloquenza» stanno nella capacità di dimostrare, piuttosto che in quella di mostrare. Ne è prova il fatto che la metafora, dapprima considerata banco di prova, lascia il posto all’analogia, che ben presto sarà guardata anch’essa con sospetto. Non a torto, perché anche oggi che non è affatto bandita dalle terre del «dominio retorico» è l’ultimo rifugio il cui il cacozelo riesce a trovare accoglienza. 



3 commenti:

  1. Mi domando quale sia la sottile perversione che induca o istighi una persona ad avere la necessità di dissertare intorno al cacozelo.

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  2. Screanzato, come si permette di definirla "sottile"?

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  3. Mi ricorda un pò l'erudizione e la scrittura di Franco Cordero (non so se può costituire un complimento). Molto bravo sig.Castaldi, molto fine.
    leo

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