lunedì 14 aprile 2014

Quattro appunti


I. Nel tentativo di dimostrarci che l’italianità è mero prodotto storiografico, mera invenzione letteraria, astratto stereotipo che mal si adatta a varietà e complessità di tipi, e solo per assecondare pregiudizi di comodo, siano essi lusinghieri o malevoli, che il carattere nazionale è solo costruzione retorica, e assai posteriore a un’idea di unità geografica, coincidendo con lo sforzo di immaginare in essa la cogenza di un’unità politica, e che insomma «l’italiano non esiste» – tentativo che in buona misura ci appare andato a buon fine – Giulio Bollati (L’italiano – Einaudi, 1983) lascia inavvertitamente cadere una considerazione che sembra cogliere un tratto peculiare, tutto naturale, dello specifico identitario che intende dimostrare come surrettizio e strumentale: l’italiano eccelle nel saper guardare e nel saper rappresentare ciò che guarda. Sembrerebbe poter essere il gene che spieghi almeno un aspetto del fenotipo: sarebbe data spiegazione del perché oltre il 50% del patrimonio artistico universale è italiano (secondo alcuni oltre il 70%). E tuttavia mi pare che come spiegazione non regga: la stragrande maggioranza (oltre l’80%) del patrimonio artistico italiano è toscano, e per giunta la sua produzione è concentrata in pochi secoli, sicché dovremmo ipotizzare che esista un’italianità, ma circostanziata a un solo tratto caratteriale, per lo più rappresentata in un’area geografica e in un arco storico relativamente limitati. Saremmo alla sineddoche identitaria.

II. In Perché gli intellettuali non amano il liberalismo (Rubbettino, 2005), traduzione italiana di Pourquoi les intellectuels n’aiment pas le liberalism (Odile, 2004), Raymond Boudon ci offre spiegazioni che appaiono poco convincenti. Sfrondandole del superfluo sono le seguenti: (1) sotto l’etichetta di liberalismo sono ricompresi molti significati e autori assai diversi, e questo causerebbe confusione (arriva a dire «ignoranza»): ammissibile per chi si serve dell’intelletto come principale strumento di lavoro? (2) la visione dell’uomo, della società e dello stato propria del liberalismo è sostanzialmente «razionale» e «culturalista», dunque ha radici assai meno profonde di quanto le abbiano altri filoni di pensiero: ammissibile che gli intellettuali si muovano preferibilmente nel solco di quelli più tradizionali? (3) la natura intrinsecamente utilitaristica del liberalismo tende a privarlo di una struttura sistematica, rendendolo poco adatto a offrirsi come ideologia: se è ammissibile che gli intellettuali si muovano preferibilmente in un sistema, l’asistematicità del pensiero liberale non si offre in definitiva anch’essa come sistema, foss’anche nel darsi come metodo per la costruzione di principi, regole e criteri? Rozza, probabilmente, ma assai più appagante la risposta che Robert Nozick dà alla stessa domanda in Why Do Intellectuals Oppose Capitalism? (Cato Institute, 1998): gli intellettuali sono ostili al liberalismo perché le società che lo adottano non remunerano adeguatamente gli anni che essi hanno sacrificato allo studio.

III. In coda a una polemica che su queste pagine mi ha già visto fornire a più riprese numerose prove documentali a smentire quanto affermato da chi (or non rammento chi fosse) sosteneva che Luigi Surzo fosse tornato dagli Stati Uniti antiproporzionalista e uninominalista, riproduco qui sotto alcuni passaggi da un suo articolo apparso su Il Quotidiano in data 8 marzo 1947, a parecchi mesi dal suo rientro in Italia, quando il dibattito pubblico verteva su sistema elettorale da adottare per le prime elezioni politiche dell’Italia repubblicana. Sturzo scriveva: «La legge elettorale, quale essa sia, dovrà favorire sia la formazione di partiti nazionali, sia la frequenza e valorizzazione dei contatti programmatici e politici fra gli eletti e gli elettori. A questo scopo si deve preferire quel sistema proporzionale che, senza impedire le formazioni di piccoli partiti di tipo nazionale, metta un freno al pullulare di partiti locali, anzi localistici, che contando sopra una proporzionalità infinitesimale, alterano l’organicità rappresentativa dei corpi elettivi. [...] A questo punto vengono fuori gli uninominalisti a dirci che, con il loro preferito sistema, i candidati riescono di più vicini agli elettori, perché le circoscrizioni sono ancora più piccole delle provinciali. In realtà, in una provincia da sei a dieci seggi, la selezione dei candidati si fa più o meno per centri locali, sì da ripetere quasi gli antichi collegi con occasionali adattamenti. Ma col sistema del collegio provinciale e a base di partiti, si moltiplica per sei o per dieci  linteressamento dell’elettorato, ora che questo è universale, abbracciando uomini e donne, e la molteplicità dei partiti e la intensità di vita locale rende più vivace e fattiva la partecipazione del popolo alla politica. Con la combinazione del collegio provinciale e del sistema proporzionale si ha il vantaggio di eliminare i colpi di maggioranza, che per pochi voti sopprimono la rappresentatività delle minoranza. [...] Gli uninominalisti ci ripetono che con il loro sistema vengono fuori deputati ben preparati, nomi degni della rappresentanza nazionale, mentre la proporzionale ci condanna ad avere una camera di mediocri, di intriganti, di demagoghi, di giovincelli sbadati, sol che abbiano voce nei partiti. [...] Il problema, che questi tutelatori della qualità del deputato non si sono messi a esaminare, è ben altro: cion i partiti nazionali e con la proporzionale si favorisce l’avvento delle classi operaie al governio del paese, secondo i democristiani in cooperazione con le altri classi; secondo i social-comunisti per la dittatura del proletariato. Teniamo alla teoria della democrazia cristiana e favoriamo la cooperazione di tutte le classi, una cooperazione effettiva, a parità di condizioni, senza privilegi per gli uni e per gli altri. Finora la rappresentanza parlamentare politicamente è di tutte le classi, ma individualmente della classe borghese, che è ancora la classe politica, la ruling class del paese. Togliatti, Nenni, Saragat sono individualmente borghesi vestiti da proletari. De gasperi, Gronchi, Aldisio sono dei borghesi che non rinnegano la loro classe, ma adottano anche la classe operaia. Croce, Orlando Paratore, Nitti e Sforza sono dei borghesi che non rinnegano la borghesia professionista, pur interessandosi dei problemi sociali. Non  c’è bisogno del sistema uninominale per creare alla classe borghese un privilegio che non ha bisogno di avere».

IV. Dovrei farlo di continuo, ma il timore che possa apparire una carineria... Insomma, ci tenevo a dire, anche se una tantum, che la lettura quotidiana di Formamentis mi è preziosa. 

1 commento:

  1. Va bene anche una tantum, sei nella ristretta cerchia dei miei lettori abituali, organizzerò una riffa

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