venerdì 17 aprile 2015

Sul genocidio, ancora

Quando c’è controversia sul significato di un termine, che quasi sempre è controversia su quanto sia corretta o meno una sua attribuzione, penso non ci sia niente di meglio che cominciare a ragionare sulla sua origine, cercando di trovare il come, il dove e il quando s’è fatto significante. E tuttavia questo non basta, perché non è affatto raro che, col tempo, un significante possa cambiare significato, e anche di molto, com’è nel caso di ecatombe, termine che nacque nel IV secolo a.C. per significare l’uccisione di cento buoi (εκατον βους), offerti in sacrificio a una divinità. In realtà, c’è chi sostiene che cento fossero le zampe degli animali sacrificati, che dunque erano solo venticinque, e non necessariamente buoi. Di fatto, quando oggi diciamo ecatombe, l’idea non corre necessariamente a un’offerta votiva, né necessariamente all’uccisione di animali, venticinque o cento che siano.
Sostanzialmente diverso, invece, è il discorso relativo ai termini che nascono in un contesto scientifico per dare un nome a entità materiali o concettuali che ovviamente ne sono sprovviste al momento in cui vengono postulate, scoperte, inventate, ecc. In questo caso, il significante resta legato per lungo tempo al significato per il quale il termine è stato coniato, anche quando l’entità alla quale è stato attribuito viene ad appalesare caratteristiche che sembrano farlo diventare improprio, com’è nel caso dell’atomo, che α-τομος è rimasto anche dopo la scoperta che è possibile scomporlo in particelle subatomiche.
La questione relativa all’uso del termine genocidio rimanda ineludibilmente alla sua origine, che trova ragione nel tentativo di definire il tratto distintivo di una particolare fattispecie criminosa, ravvisabile in alcune eliminazioni di massa, e in altre no. Tale tratto distintivo è quello relativo alla finalità posta nell’atto criminoso quando questo prenda a oggetto il γενος della massa che intende eliminare, e cioè il carattere che conferisce un comune elemento identitario agli individui che la compongono. Col genocidio, insomma, siamo dinanzi al programma di eliminazione di quell’elemento identitario (nazionale, etnico, religioso) attraverso la soppressione di tutti gli individui che lo rappresentano con la loro mera esistenza, così intesa come «vita indegna di essere vissuta» (Hannah Arendt).
Per quale ragione Raphael Lemkin ritenne necessario dar vita a un neologismo per definire quello che altrimenti poteva continuare ad esser detto sterminio, massacro, eccidio, ecc.? Semplice. Perché con la Shoah era venuto a rendersi tragicamente evidente, non foss’altro perché esplicitamente dichiarato dai carnefici, quello che era il fine ultimo di quella carneficina: l’annientamento degli ebrei in quanto ebrei. Il genocidio degli ebrei, insomma, trovava ragione nel solo fatto che essi fossero ebrei, sicché nell’Endlösung der Judenfrage l’attenzione andava posta sul fatto che la questione (-frage) fosse l’esistenza stessa degli ebrei in quanto ebrei e che la soluzione (-lösung) non potesse che essere il loro completo annientamento. Anche per questo la definizione di olocausto appare altrettanto pertinente: per i nazisti era tutto (ολος) ciò che era ebreo a dover essere bruciato (καυστος). Sappiamo, infatti, che in Germania e in tutti i paesi di cui il Terzo Reich prese il controllo militare la ricerca degli ebrei in quanto ebrei al fine di avviarli allo sterminio fu puntigliosamente condotta senza eccezioni di sorta, sicché in pochi anni il numero delle vittime toccò i sei milioni di individui e ad essere risparmiati da quel massacro furono i soli ebrei riusciti a sfuggire per tempo alla messa in atto del programma di annientamento totale, insieme ai pochi sopravvissuti ai campi di sterminio.
Nel caso degli armeni che nel 1915 furono sterminati in un numero che le varie stime danno tra i 200.000 e i 1.600.000, possiamo parlare di genocidio? Gli armeni furono eliminati in quanto armeni? Fu l’elemento identitario nazionale, etnico, religioso che li contraddistingueva nel motivare il loro massacro? Se sì, come spiegarci il fatto che molti armeni furono risparmiati dalla persecuzione, dalla deportazione e dall’eccidio anche se il loro destino era nella disponibilità di chi intanto ne massacrava una gran quantità? Richiamando alla memoria la situazione venutasi a creare nelle regioni orientali della Turchia allo scoppio della Grande Guerra, con la paventata ipotesi che gli armeni dell’Anatolia potessero unirsi ai russi, coi quali invece i turchi erano in conflitto, con ciò causando alla Turchia la perdita di controllo sui territori da essi abitati. La soluzione fu trovata nelle deportazioni e nelle uccisioni di massa. Gli armeni, dunque, non furono sterminati in quanto armeni, né in quanto cristiani. Ragionevolmente è da ritenere che, se analogo problema fosse sorto nelle regioni meridionali della Turchia, ad essere deportati e uccisi sarebbero stati i curdi, anche qui non in quanto curdi.
È questo che a mio modesto avviso rende impropria la definizione di genocidio per lo sterminio che cent’anni fa i turchi consumarono a danno delle popolazioni armene della Turchia orientale. Questo non attenua in alcuna misura la gravità del crimine che fu commesso, che resta enorme. Credo perciò che oggi si debba pretendere dalla Turchia di non sminuirne l’entità, senza però chiederle l’ammissione di genocidio, a meno che non si voglia ottenere, come mi pare sia nelle intenzioni di molti, un ulteriore suo irrigidimento su posizioni che progressivamente la allontanino sempre più da quell’Europa cui Kemal Atatürk l’aveva così sapientemente orientata.
D’altra parte, senza nasconderci l’intento che cova nell’acuire le crescenti tensioni tra Turchia ed Europa (il Vaticano è sempre stato ostile all’idea di un’entrata della Turchia nella Ue), desta sconcerto che a rilanciare l’imputazione di genocidio sia il massimo rappresentante di un’istituzione che nella sua storia ne ha commessi diversi. Si pensi agli albigesi, massacrati in quanti albigesi, o ai valdesi, massacrati in quanto valdesi. «Come successore di Pietro – disse Karol Wojtyla il 12 marzo 2000 – chiedo che in questo anno di misericordia la Chiesa, forte della santità che riceve dal suo Signore, si inginocchi davanti a Dio e implori il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli». Perdono chiesto a Dio, non alle vittime.

30 commenti:

  1. Lei scrive: in tutti i paesi di cui il Terzo Reich prese il controllo militare la ricerca degli ebrei in quanto ebrei al fine di avviarli allo sterminio fu puntigliosamente condotta senza eccezioni di sorta, sicché in pochi anni il numero delle vittime toccò i sei milioni di individui e ad essere risparmiati da quel massacro furono i soli ebrei riusciti a sfuggire per tempo alla messa in atto del programma di annientamento totale, insieme ai pochi sopravvissuti ai campi di sterminio.

    La comunità ebraica romana (8-12mila persone) subì poco più di un migliaio di deportati. A Venezia i deportati furono 248 su una comunità ben più consistente. Anche in altre città le deportazioni furono assai inferiori rispetto alla popolazione ebraica residente. Solo pochissimi fuggirono in Svizzera durante la guerra, come altri non ebrei. In Francia i deportati furono molti di più, ma circa il 75% degli ebrei francesi nel 1945 erano vivi. Come spiega queste vistose “eccezioni” da parte di carnefici tanto puntigliosi?

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  2. salve, le ripropongo questo articolo letto su l'internazionale che sposa la sua tesi , (anche se il titolo potrebbe sembrare di tono diverso)...
    http://www.internazionale.it/opinione/gwynne-dyer/2015/04/14/genocidio-armeni-verita

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  3. Mi pare un ottimo articolo, tranne nel punto in cui concede che si sia trattato comunque di genocidio. In realtà, gli armeni non furono uccisi perché armeni, ma proprio per le ragioni così ben ricostruite da Gwynne Dyer.

    [Approfitto per avvisare che su questo argomento non pubblicherò eventuali commenti anonimi.]

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  4. Dottor Malvone, sei semplicemente ridicolo.

    red. cac.

    p.s.

    Assolutamente indispensabile la cagatina sull'ecatombe.

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  5. Posto che non ho mai capito la ratio di queste battaglie sull'uso di un termine nel linguaggio comune (altro conto sarebbe una discussione su, chessò, la sentenza dell'ICTY su Srebrenica), chiamare Lemkin come "teste a favore" mi sembra un po' spararsi sui piedi: "became interested in genocide because it happened so many times, it happened to the Armenians, and after the Armenians Hitler took action".

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    1. Non mi pare di aver chiamato Lemkin come "teste a favore", né ho mai affermato che egli negasse all'eccidio armeno la definizione di "genocidio", anche se rimane non irrilevante che i fatti di Anatolia si fossero consumati nel 1915 e la formulazione del concetto gli venga solo nel 1943, quando è la Shoah a porsi come problema. In ogni caso, l'autore di un neologismo non ne è il padrone, perché la definizione di un concetto vive esclusivamente nel rapporto di congruità ad esso. Immagina sennò Democrito che torna tra noi e si incazza perché avendo dato l'atomo per indivisibile, neh, come ci siamo permessi di smentirlo? Risposta a Democrito: tu limitati a dare al significante di a-tomo il significato di particella indivisibile; se poi riusciamo a dividerla, possiamo pure continuare a chiamarla atomo, ma è chiaro che non sia più a-tomo; se poi vogliamo discutere sulla congruità del termine rispetto al concetto che tu intendevi esprimere, spiace contraddirti: l'atomo non è a-tomo. In quanto alla "ratio di queste battaglie sull'uso di un termine nel linguaggio comune", non posso credere che tanta ingenuità sia genuina. Innanzitutto, non si tratta di un termine di linguaggio comune, ma tecnico-scientifico e applicato alla sensibilissima materia del diritto: in sostanza, dal termine che i appioppa ad un crimine discendono conseguenze di una certa importanza, com'è ad esempio (era l'esempio che facevo nell'altro post sul genocidio) per il definire "strage" un "omicidio plurimo", sul piano del giudizio penale e di quello morale.

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    2. Sul punto: lei mi pare sostenga che la parola genocidio sarebbe stata inventata con uno scopo ben preciso, e che indagare questo scopo sarebbe cruciale o comunque significativo per dirimere la questione in esame; "per quale ragione", si e ci chiede, "Raphael Lemkin ritenne necessario dar vita a un neologismo per definire quello che altrimenti poteva continuare ad esser detto sterminio, massacro, eccidio, ecc.?"; ora, anche accettando integralmente i termini in cui lei pone il problema, è proprio dal punto di vista di Lemkin che questa peculiarità (quella che distinguerebbe un ben determinato tipo di massacro di massa, che ci accingiamo a chiamare genocidio, da tutti gli altri) è ab origine condivisa dai massacri di ebrei e armeni.

      Sul resto: spero si possa convenire sull'idea che se i parlanti prendono a chiamare atomo un qualcosa che poi risulta non-così-indivisibile, o ammoniaca un qualcosa che poi si scopre non avere tutta questa attinenza con il dio Ammone, sono l'indivisibilità ed Ammone a doversene fare una ragione; e con essi, le eventuali intenzioni dell'eventuale inventore del vocabolo — se non altro perchè la speranza di poter ricondurre una massa all'utilizzo di un vocabolo nella sua accezione "più vera" è realisticamente zero.
      Lo stesso, però, vale per "genocidio" se propnunciato nel contesto di un discorso papale, che ipso facto di tecnico non ha nulla (specie poi se pronunciato di fronte ai discendenti delle vittime, e se parte di un discorso smaccatamente politico).

      [quanto a me, è molto facile che quell'ingenuità che lei interpreta come artefatta, magari in maniera estremamente sgraziata, sia proprio il dato reale — al punto che non sono manco in grado di rammaricarmene]

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    3. "Un discorso papale,che ipso facto di tecnico non ha nulla..."? Bergoglio ignorava che proprio su quel termine solitamente la Turchia si incazza come una bestia e proprio per quello che implica rispetto a eccidio, massacro, carneficina, ecc.? Lei intende suggerirmi che sia stato così, ho capito bene?

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    4. Il punto del mio intervento era solo di sottolineare come, se pure il termine "genocidio" sia stato inventato per distinguere certi tipi di massacro di massa dai rimanenti, chi l'ha inventato da quel pounto di vista non discriminava affatto tra il caso ebreo e quello armeno, anzi: sotto quel nome aveva intenzione di accomunarli. Per cui sostenere che il caso ebreo abbia una peculiarità che quello armeno non avrebbe sulla base della ratio con cui quel neologismo è stato introdotto mi pare argomento che le si ritorce contro.

      Dopo di che (ma tutto quello che segue è orpello, eventualmente farneticazione) secondo me Bergoglio usa il termine genocidio in maniera non troppo dissimile da come lo fanno la stampa o la politica (ha presente cose tipo: "in Kosovo è in corso un genocidio!, bombardiamo Belgrado!"?); del resto non ha la cultura di un membro di una corte internazionale o di uno studioso di diritto internazionale (che pure non sono esattamente i miei beniamini), nè ce l'ha l'uditorio cui si rivolge. Tant'è che anche Stalin è un genocida, lì ti voglio a trovare γενος e compagnia (quale popolo avrebbe mai voluto obliterare Stalin in quanto quel-popolo?).
      Voglio sperare che il nostro amico fosse conscio che la cosa avrebbe fatto incazzare i turchi; ma è abbastanza evidentemente come qui il racconto storico sia strumento per fare politica, per affermare una tesi cara e negarne un'altra scomoda, per randellare tizio e farsi amico cajo. Probabilmente, proprio come quando si parla di foibe quasi mai lo si fa per sincero interesse verso le dinamiche degli eventi, e se i croati si incazzano tanto piacere, così anche qui magari è in ballo qualcosa di più grosso; non so: forse proprio la creazione di quell'"asse della cristianità" con alcune chiese d'Oriente di cui han parlato certi giornalisti.

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    5. La ringrazio nel farmi presente che su un punto non riesco proprio a farmi intendere. Lei dice, infatti, che "se pure il termine genocidio sia stato inventato per distinguere certi tipi di massacro di massa dai rimanenti, chi l'ha inventato da quel punto di vista non discriminava affatto tra il caso ebreo e quello armeno, anzi: sotto quel nome aveva intenzione di accomunarli". Bene, io affermo che, una volta data la definizione di un termine, chi l'ha coniato non è giudice insindacabile per stabilire se "questo" vi si attagli e "quello" no, perché la definizione di quel termine vive di vita autonoma nella congruità degli elementi che le danno articolazione, mentre invece "questo" o "quello" sono variamente interpretabili, anzi, nel caso di fatti storici sono per loro stessa natura soggetti a quel processo di continua revisione che, pur senza stravolgerne il senso, ne approfondisce i caratteri. Perciò non credo che "sostenere che il caso ebreo abbia una peculiarità che quello armeno non avrebbe sulla base della ratio con cui quel neologismo è stato introdotto [sia] argomento che [mi] si ritorce contro": di fatto, gli armeni non furono sterminati in quanto portatori di un carattere identitario sussumibile in un γενος, ma perché erano un problema per i turchi, e i turchi decisero che la soluzione migliore fosse quella criminale. D'accordo, invece, sul fatto che Bergoglio abbia voluto creare un po' di casino. In questo senso, mi auguro che la cosa fosse intenzionale e - secondo la ratio che lei attribuisce all'intenzione - non all'oscuro del significato di "genocidio", anche se nell'ambiguità dell'uso del termine. Meglio un papa carogna che cretino.

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  6. Nel mio piccolo credo che sia difficile applicare o meno la definizione di genocidio, in questo o altri casi, dando per decisive le intenzioni di chi compie il massacro. Le intenzioni non sono sempre manifeste come per i nazisti. Si possono sollevare mille obiezioni pertinenti sui dettagli (che per me rimangono tali) che secondo alcuni rendono o no tale evento un genocidio. Per esempio gli armeni a Istambul e Edirne sono stati parzialmente risparmiati per convenienza, necessita o non c'era una vera volontà di sbarazzarsene? Difficile rispondere.
    Per questo credo sia più utile concentrarsi sul risultato: dove era presente una popolazione ora non c'é più perché uccisa, fatta uccidere o lasciata morire. Chiamarlo genocidio non mi sembra inappropriato.
    Per quanto riguarda l'articolo di Dyer é molto interessante ma mi sembra esageri quelle che furono esigenze militari turche.
    Il fatto che sia il Papa a parlarne non mi stupisce, lavora per un'azienda che é stata leader per secoli nell'ambito dei massacri,stragi, genocidi e via dicendo, insomma lui é un esperto.

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    1. Posso essere d'accordo, tuttavia non capisco perché, se ci troviamo d'accordo sulla gravità del crimine, hai bisogno di dargli per forza una definizione che tu stesso definisci controversa. Chiamiamolo massacro, eccidio, carneficina, che non mi pare siano termini controversi rispetto a ciò che è accaduto nel 1915. Pretendere a tutti i costi che sia definito genocidio, mi auguro sollevi anche in te qualche sospetto.

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  7. Mi scuserà atlantropa se prendo Lemkin come "teste a favore"; lo faccio perché credo sia d'una qualche utilità a questa discettazione. L'avvocato ebreo polacco nel 1953, in un discorso per il ventesimo anniversario dell'Holodomor, disse che la politica staliniana nei confronti dell'Ucraina era stata "un caso di genocidio, cioè di annientamento non solo di persone ma di una cultura e di una nazione" (Gaetano Colonna, L' Ucraina tra Russia e Occidente pgg 27-28). Ora, alla luce delle tesi riportate dal dottor Castaldi, possiamo essere d'accordo o meno con Lemkin, poiché il fine di Stalin non era di uccidere gli ucraini in quanto ucraini ma a causa dell'opposizione che questi - nello specifico i kulaki - facevano sia all'assoggettamento al regime sovietico, sia alle politiche economiche che aveva imposto. Possiamo essere d'accordo o meno, dicevo, sta di fatto che nella definizione che dà di genocidio, trasfusa poi nella Convenzione per la Prevenzione e la Punizione del Crimine di Genocidio, Lemkin non solo non approfondisce eventuali motivazioni che potrebbero scatenarlo, ma nemmeno le fornisce. Che tali motivazioni siano state dedotte dalla recente - allora - Shoah e prese a paradigma? Che per Lemkin la base etimologica sia stata funzionale alla mera coniazione del termine genocidio, senza altre specifiche implicazioni?

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  8. *Sulla prima riga: "teste", non "teste a favore" (accidenti).

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  9. Non per fare il precisino, ma il concetto di vita indegna di essere vissuto non è attribuibile alle riflessioni di Arendt, ma data decisamente prima. Per l’esattezza, ai professori Karl Binding (giurista) e Alfred Hoche (psichiatra), nel volume “Die Freigabe der Vernichtung Lebensunwerten Lebens”, pubblicato nel 1920. Va sottolineato che Binding morì nello stesso anno e che Hoche lasciò l’università nel 1933, in polemica con l’avvento dei nazisti al potere, e che fu critico nei confronti dell’Azione T4, il famoso programma di eutanasia nazista.
    Il collegamento al genocidio, insomma, è difficilmente rintracciabile nell’origine del termine, e nemmeno nel suo significato, a meno di non dare ragione a chi vede un collegamento strutturale tra eutanasia e genocidio. Il termine medio, che costruisce questo collegamento, è appunto l’idea che un intero gruppo etnico sia collettivamente indegno di vita, o nemico; quanto di più diverso tanto dall’accezione originaria quanto di chi, oggi, sostiene la liceità dell’eutanasia, a partire da una data situazione individuale.
    Il punto è, per tornare alla questione degli armeni, che essi sono stati individuati come potenziali nemici in quanto armeni, e dunque come entità collettiva da distruggere con misure generali e definite appositamente: non esistono ragioni plausibili per sostenere, nemmeno nella più delirante paranoia nazionalista, che vecchi donne e bambini armeni fossero, in quanto tali, un ostacolo al progetto di Grande Turchia, e il loro sterminio mirava, con chiarezza, a sradicare la presenza armena in quanto tale dall’Anatolia. Il fatto che tale sterminio sia stato sostanzialmente mirato alla regione in questione, a mio parare, non cambia in nulla i termini della questione: per definire tale un genocidio non credo sia necessario il progetto di estinzione totale di un gruppo etnico in tutto il mondo, altrimenti tale termine sarebbe sinonimo esclusivo della Shoah e non avrebbe altri casi storici di applicazione. Lo stesso Karadzic voleva estirpare croati e musulmani bosniaci dalle terre rivendicate per i serbi, e non pensava certo a radere al suolo Zagabria, e discorso analogo può essere fatto per i massacri dei Tutsi e per ogni altro caso normalmente riconosciuto come genocidio, con la sola eccezione, appunto, della Shoah.
    Insomma, sono d’accordo che non vi fosse, da parte del governo ottomano, un antiarmenismo paragonabile all’antisemitismo nazista (o all’odio etnico dell’ex Jugoslavia o dell’Ucraina), e che se in Anatolia ci fossero stati i brianzoli al posto degli armeni avrebbero subito sorte analoga; ma la sola differenza è che ci sarebbe stato un genocidio brianzolo invece che un genocidio armeno.
    Semmai, è interessante tornare al compitino di Cicciobello e ai famosi tre grandi crimini del Novecento, il primo dei quali sarebbe il genocidio armeno, la cui qualifica si estende alla Shoah e ai crimini dello stalinismo. Crimini questi ultimi che, per quanto enormi, non possono essere qualificati, questi proprio no, di genocidio, dato che i campi di prigionia staliniani avevano due caratteristiche fondamentalmente incompatibili con la logica genocida: in primo luogo, erano posti da cui era previsto che, una volta scontata la pena, si uscisse, e in secondo, ci si veniva mandati al termine di un processo che, per quanto farsesco e criminale, stabiliva comunque delle colpe individuali. Insomma, più che sull’eventuale stiracchiamento del termine nel primo caso, porrei l’accento sulla sua applicazione completamente impropria nel terzo.

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    1. Ma, per carità di Dio, la precisione non guasta mai. Solo, per la precisione, quando Hoche e Binding parlano di «lebensunwerten Lebens», non si riferiscono a un gruppo di individui contraddistinti da un elemento identitario che possa definirsi γενος, mentre nell’impiego che la Arendt fa dell’espressione quell’elemento identitario è presente e decisivo. Fu qualche anno fa che su Il Foglio – non ricordo se Crippa o Meotti – si precisò la stessa cosa, ma lì era – appunto – per insinuare una reciprocante consentaneità dei concetti di eutanasia e genocidio, che anche per te è insostenibile, almeno a quanto mi è dato da capire. Per questo non comprendo appieno cosa intendi dire, quando affermi che «il collegamento al genocidio è difficilmente rintracciabile nell’origine del termine, e nemmeno nel suo significato, a meno di non dare ragione a chi vede un collegamento strutturale tra eutanasia e genocidio», giacché «il termine medio, che costruisce questo collegamento, è appunto l’idea che un intero gruppo etnico sia collettivamente indegno di vita, o nemico; quanto di più diverso tanto dall’accezione originaria quanto di chi, oggi, sostiene la liceità dell’eutanasia, a partire da una data situazione individuale». Riesco a dare un’articolazione a queste due affermazioni solo immaginando che si faccia un po’ di confusione tra «situazione individuale» e «condizione identitaria». Ma – ripeto – dev’essere colpa mia nel non riuscire a penetrare a dovere quello che intendevi dire. Del tutto in disaccordo, invece, quando dici che dai turchi gli armeni «sono stati individuati come potenziali nemici in quanto armeni», e che dunque, «se in Anatolia ci fossero stati i brianzoli al posto degli armeni, avrebbero subito sorte analoga, ma la sola differenza è che ci sarebbe stato un genocidio brianzolo invece che un genocidio armeno»: sono in disaccordo perché, nel genocidio, l’identificazione del nemico da eliminare in quanto gruppo che esprime un determinato γενος è essenziale – direi funzionalmente cogente – allo sterminio di quel gruppo e non di un altro. Questo, almeno, nelle motivazioni che fecero ritenere necessario a Lemkin il trovare un termine che segnasse la differenza con un massacro motivato da questioni tutte contingenti, quelle nelle quali un armeno vale quanto un brianzolo. In quanto al fatto che nel 1915 furono eliminati anche donne, vecchi e bambini, non direi che faccia prova di genocidio, perché con la Grande Guerra saltano le regole che almeno sulla carta avevano fin lì fatto del conflitto bellico una faccenda tra eserciti in cui le vittime civili fossero da intendere come mero effetto collaterale, e ti risparmio i casi in cui, di lì in poi, donne, vecchi e bambini furono passati per le armi senza che si sia mai posto il problema se definire genocidio quelle carneficine. Obiezione che almeno in apparenza – ma solo in apparenza – potrebbe essere degna di nota (me l’ha sollevata un lettore anonimo di cui non pubblicato il commento per i toni sgradevoli che lo accompagnavano) è quella relativa al fatto che anche il progetto nazista di Endlösung der Judenfrage lasciò vivi molti ebrei: obiezione che cade dinanzi a ciò che Lemkin lega al concetto di genocidio, e cioè il fatto che non si esaurisca nell’eliminazione fisica, ma si concreta e si corrobora nella discriminazione, nella negazione dei diritti civili, ecc.
      [segue]

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    2. In più c’è da considerare che la Shoah copre un arco temporale poco più ampio di un biennio e che il programma fu interrotto dalla capitolazione del Terzo Reich, ma contemplava l’eliminazione di tutti ebrei raggiungibili. Non abbiamo la certezza che così sarebbe accaduto, ma sappiamo che i campi di sterminio avessero difficoltà a stare al passo e le deportazioni dovevano adeguarsi. Un altro punto sul quale non mi trovo d’accordo è quello in cui affermi che «per definire tale un genocidio non credo sia necessario il progetto di estinzione totale di un gruppo etnico in tutto il mondo, altrimenti tale termine sarebbe sinonimo esclusivo della Shoah e non avrebbe altri casi storici di applicazione». A parte il fatto che altri casi storici di applicazione li abbiamo (facevo l’esempio dei valdesi e degli albigesi, sterminati in quanto valdesi e in quanto albigesi, ma genocidio può essere definito anche quello a danno dei nativi americani, usualmente detti indiani, anche se le modalità della loro eliminazione attenuano, anche se solo in apparenza, la gravità del crimine e la sua fattispecie giurisprudenziale). Completamente d’accordo, invece, sulla incongruità del termine genocidio per i crimini dello stalinismo.

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    3. Lei può dare, come chiunque, la sua interpretazione in merito a dei fatti storici, ma affermare che avrei inviato un commento dai “toni sgradevoli” non sta nella realtà di quanto ho scritto (se il motivo di censura è effettivamente quello). Obiezione un po’ più seria potrebbe riguardare l’anonimato, in tal caso avrei potuto usare un nick anch’io come gli altri commentatori. Ho posto una domanda molto semplice e dai toni cortesi e correttissimi nella lettera e nelle intenzioni: “Come spiega queste vistose “eccezioni” da parte di carnefici tanto puntigliosi?” Lei ora ha dato una risposta che solo in parte risponde all’interrogativo poiché essa non coglie, a parere mio, la profondità di quella tragedia anche nella dimensione degli scopi pratici perseguiti e prevalenti in quel momento. Arrivo al punto: anche in quel caso, come in quello degli armeni in Turchia, il movente ha assunto una connotazione ideologica (religiosa, etnica, ecc.), ma il movente reale aveva in quel frangente anzitutto uno scopo pratico. Possiamo prefigurarci che in seguito la deportazione e l’eliminazione degli ebrei, e dunque non solo l’eliminazione diretta di quelli giudicati inabili o non idonei al lavoro, sarebbe stata estesa a tutta la popolazione ebraica europea o comunque raggiungibile (ma non solo ebraica). Però in quel momento lo scopo eminentemente pratico aveva per tema il lavoro coattivo a sostegno dello sforzo industriale bellico (prima ancora aveva lo scopo di “requisire” i patrimoni: infatti chi pagava e lasciava il bottino poteva emigrare). Quello era, al momento, il prezzo che gli ebrei (e non solo loro) stavano pagando. Del resto il ghetto ebraico di Varsavia, dopo quattro anni di occupazione, e nonostante le durissime condizioni cui erano sottoposti i suoi abitanti, sussisteva ancora nell’agosto del 1944 tanto da poter opporre una dura resistenza che tenne impegnate diverse divisioni tedesche. Che alcune componenti del regime nazista profittassero di questa situazione per dar sfogo alle loro teorie antigiudaiche è pur esso un fatto, così come sono fatti le esecuzioni in massa perpetrate nell’est europeo. Lo stesso discorso vale per lo sterminio degli amerindi, per la sorte toccata tra gli altri ai pellerossa: lo scopo pratico era la conquista dei loro territori e l’espansione verso ovest (la vicenda mineraria che portò al massacro di Sand Creek trovò dei fanatici religiosi come il colonnello John Chivington). Le motivazioni ideologiche a sfondo razzista o religioso non mancano mai in casi simili ma esse sono sempre funzionali a un qualche scopo concreto. E così nel caso della deportazione dei neri dall’Africa, ecc.. Perciò ritengo, per esprimere infine un mio giudizio sulla diatriba terminologica, che la questione andava posta anche da questo punto di vista, cosa che nel caso degli armeni è stata fatta (l’intelligenza vera o presunta con i russi). Ma ciò ha costituito proprio il motivo per distinguere il caso armeno da quello ebraico. Cosa che, per i motivi esposti, non condivido poiché quando si sradicano delle comunità dalla propria terra e si procede alla loro eliminazione fisica, quello è genocidio.

      Decida Lei se questo commento è anonimo e sgradevole quanto il primo. A me basta che abbia raggiunto la Sua attenzione.

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    4. No, stavolta i tono non sono sgradevoli, anche se resta la questione dell'anonimato, e proprio non capisco cosa le impedisca di firmarsi con un nome e un cognome. Nel merito, come ho già detto, non basta uno sterminio a fare un genocidio e, per quanto le vittime appartengano ad un gruppo omogeneo per carattere identitario nazionale, etnico o religioso, non c'è genocidio se quel carattere identitario non è la ragione che muove allo sterminio. Poi, certo, posso essere d'accordo con lei che possa essere difficile distinguere fino a che punto le "ragioni pratiche" che muovono allo sterminio siano siano davvero tali o sono alibi. Mi auguro voglia concordare sul fatto, però, che, prima e dopo il loro massacro, gli armeni non furono oggetto di discussione da parte dei turchi rigiardo al fatto che loro vita fosse degna o no di essere vissuta. Più in generale - sto per porre la stessa domanda a Lorenzo per il suo commento in coda - a cosa le è indispensabile la definizione di genocidio per lo sterminio degli armeni? Si tratta di un crimine orrendo anche senza quella definizione, no?

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    5. Nemmeno gli indiani pellerossa furono oggetto di discussione da parte dei bianchi riguardo il fatto che loro vita fosse degna o no di essere vissuta. Concordo perfettamente con Lei che si trattò di un crimine esecrando anche senza quella o altre definizioni, ma il lanternino del filologo non è il mio.

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    6. Che i nativi d'America fossero a pieno titolo degli esseri umani o meno è questione che appassiona i conquistadores dalla contesa di Vallaloid (1550) al massacro di Sand Creek (1864). Carina, invece, la strisciata polemica sulla filologia. :-D

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    7. Tra i cattolici vi fu chi difese gli indios in quanto esseri umani come Las Casas e i gesuiti:
      http://it.m.wikipedia.org/wiki/Bartolomé_de_Las_Casas

      Micus

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    8. Certo, Sepulveda sosteneva che non lo fossero. La contesa di Vallaloid cui facevo cenno vede opposte le due tesi, ma Sepulveda non era buddista.

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  10. Mi scuso per la mia scarsa chiarezza, e provo a spiegarmi: il ragionamento di Binding e Hoche perora la legittimità (di principio) dell’eutanasia per una serie di condizioni di perdita della capacità di vita, in seguito a malattie terminali, disabilità mentali e così via. Si tratta di una serie di dati oggettivi, indipendenti dal γένος e che si danno in una dimensione rigorosamente individuale, ma ciò non toglie che, nelle intenzioni dei due accademici, si trattasse di stabilire il diritto (ripeto, in linea di principio) delle istituzioni di porre fine alla vita di individui che non avevano commesso alcun reato, sulla base della semplice valutazione delle condizioni di questa vita.
    Da qui al genocidio manca un anello fondamentale, ed è ciò che maldestramente cercavo di dire: appunto, il passaggio dal caso individuale e indipendente dal γένος all’applicazione a un gruppo definito unicamente a partire dal γένος: in altre parole, il drastico rovesciamento del criterio di identificazione del soggetto a cui attribuire la qualifica di Lebensunwerten Lebens. È qui che si applicano, come ricordavo in un commento precedente, i primi due criteri identificati da Sémelin: la specificità e l’indiscriminazione; se queste due categorie definiscono l’intenzione genocida, organizzazione e distruttività ne strutturano la prassi.
    Il punto, a mio parere, è che il concetto di vita indegna definisce un tipo specifico di genocidio possibile, quello che potrei definire “igienico”. Credo che ve ne sia un altro, che del resto spesso si intreccia al primo, e che comunque è per sé sufficiente e, anzi, si dà spesso da solo: quello “difensivo”, in cui il gruppo da sterminare viene identificato come pericolo, nemico o oppressore. Un caso tipico mi sembra quello del Ruanda, per intendersi. In questo caso, non è necessaria una sovrastruttura ideologica particolarmente sofisticata: non c’è bisogno di aver elaborato un’ossessione verso un particolare nemico, ma è sufficiente vedere il proprio gruppo di appartenenza come minacciato e autorizzato a qualsiasi estremo per difendersi.
    Ora, nel caso degli armeni, la loro identificazione come nemico è specifica e indiscriminata e riguarda, per l’appunto, l’intero γένος. Non vi è una particolare ideologia antiarmena, ma un nazionalismo estremo, acuito dalla crisi dell’impero ottomano ed esacerbato dalla guerra. Ripeto, al loro posto avrebbero potuto esserci i brianzoli o, come tu stesso suggerisci, in un altro scenario ipotizzabile sarebbe potuto toccare ai curdi o a chiunque altro. Ma resta il fatto che la violenza distruttrice e organizzata è stata diretta contro gli armeni in blocco, e non come effetto collaterale di un’azione di guerra o di una prassi repressiva, ma proprio per sradicarli in quanto tali. Mi pare che vi siano tutti gli estremi per il genocidio, almeno quanto ve ne sono per definire tale quello dei nativi americani.

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    1. "La numerosa comunità armena di Istanbul, lontana dalle operazioni militari in Anatolia orientale, uscì dalla guerra quasi indenne" (Gwynne Dyer - Internazionale, 14.4.2015). Tu, invece: "Nel caso degli armeni, la loro identificazione come nemico è specifica e indiscriminata e riguarda, per l’appunto, l’intero γένος". E allora io: "Agli armeni di Istambul mancava il γένος armeno?".

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    2. Tu dici che "genocidio può essere definito anche quello a danno dei nativi americani". Ebbene, come sai non c'è stato alcun momento della storia in cui la semplice appartenenza al γένος nativo americano avrebbe comportato il rischio di esser preso e ucciso ovunque ci si trovasse o anche solo in qualunque luogo sottoposto all'autorità degli Stati Uniti.
      Sappiamo che essere Sioux nel South Dakota nel 1890 era pericoloso, più o meno come essere Tutsi in Ruanda nel 1994, armeno in Anatolia nel 1915 o ebreo in qualsiasi parte dell'Europa occupata dai nazisti, specie nelle parti orientali a partire dal 1941. Ognuno di questi casi ha le sue caratteristiche, e certamente la Shoah ha delle caratteristiche che la rendono unica, ma in tutti questi casi ogni membro di un dato γένος rischiava la morte o la deportazione in condizioni disumane per il solo fatto di appartenere a quel γένος. Per me i casi sono due: o si parla di genocidio esclusivamente quando esiste un chiaro piano di sterminio totale di un dato γένος in ogni luogo della Terra, e allora l'unico caso che si è dato storicamente è stata la Shoah, o si accettano alcune estensioni del termine oltre il caso estremo.
      Proprio per questo, mi sembrano particolarmente efficaci le categorie di Semelin, che definiscono il contesto e le modalità dell'azione a partire da parametri verificabili.

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  11. Quindi per lei cercare di "ripulire" un'intera regione dai rappresentanti di un'etnia, non perché razzialmente inferiori ma perché ritenuti pericolosi di rappresentare una minaccia per la sicurezza dello stato, non è genocidio? Se gli USA durante la II guerra mondiale avessero non solo imprigionato tutti i giapponesi residenti nel territorio americano (come hanno fatto), ma li avessero uccisi con donne e bambini per garantirsi da sabotaggi interni, non sarebbe stato forse un genocidio? Peraltro nel caso armeno le operazioni interessarono anche gli armeni di Istanbul (nonostante quanto scriva Dyer) e se le proporzioni furono diverse è essenzialmente per una questione di urgenza: si cominciò da dove era più pericoloso. - Ah ma allora vede che non è questione di genos ma di valutazioni militari o politiche? obietterà lei. E io le risponderò: il genos c'entra eccome, nel momento in cui io decido che uno stato può essere sicuro solo con una popolazione di un certo tipo e non con un'altra.

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  12. Un uomo selvaggio dal cuore puro
    vi rivela il Sacro Graal:
    "Il senso della vita è la vita
    il senso della vita è vivere
    non esiste alcun senso della vita
    al di fuori della vita stessa".

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  13. Trattandosi comunque di un crimine orribile, a cosa le è indispensabile che venga definito genocidio?

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  14. Però se si tocca l'argomento si passa sempre per il negazionista di turno. Misteri della lingua italiana.
    "Quello stronzo ha ammazzato la madre, maledetto parricida!"
    "Ehm, veramente..."
    "Zitto! Lo vuoi difendere vero?"

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