Uno prova ad argomentare, poi arriva il tizio che, cacchio cacchio, tomo tomo, al tweet di ... risponde: battuta che manco mi nonna, pure senza apostrofo, e ti risparmia il post, però rimani paralizzato per due giorni.
giovedì 28 aprile 2016
Paralisi
Uno prova ad argomentare, poi arriva il tizio che, cacchio cacchio, tomo tomo, al tweet di ... risponde: battuta che manco mi nonna, pure senza apostrofo, e ti risparmia il post, però rimani paralizzato per due giorni.
lunedì 25 aprile 2016
Allora dieci, cento, mille Davigo
Vorrei
parlare dell’intervista
che Piercamillo Davigo ha concesso ad Aldo Cazzullo (Corriere
della Sera,
22.4.2016), ma mi sono indispensabili due premesse, senza le quali
temo sarei pesantemente frainteso. Non escludo affatto che sarò
frainteso lo stesso, ma premettere quanto segue mi farà sentire con
la coscienza a posto. Cercherò di essere breve.
Tempo
fa, su queste pagine, scrivevo che «la
caricatura del giustizialista è un gioco da ragazzi»,
mentre
col garantista è molto più difficile. La maschera del
giustizialista è «ciliosa,
biliosa, ha labbra strette, reca lo stampo di un cruccio perenne che
si stempera in un malvagio sorriso di soddisfazione, sempre spietata,
solo quando vede il cappio stringersi al collo del colpevole, anche
quando è solo presunto tale»,
ma com’è, mi domandavo, «la
maschera del tizio che pretende sempre tre gradi di giudizio per dire
colpevole chi è colto in flagrante, e che dinanzi
all’intercettazione telefonica nella quale un criminale si
autoaccusa di un delitto solleva la questione se mettergli la cimice
sia stato lecito, e che riesce sempre a trovare un diritto negato a
ogni fetente della peggior risma, e più fetente è, più sembra
andare in brodo di giuggiole a trovargliene uno da spendersi per
garantirglielo?».
Bene, direi che un’ottima
caricatura del garantista ci è stata offerta da quanti hanno reagito
all’intervista
di Piercamillo Davigo cadendo in convulsione isterica.
Seconda
premessa. Suonerà patetico, so bene, ma io continuo a credere nella
democrazia e nel liberalismo. Ormai sono irriconoscibili, non c’è
bisogno di farmelo notare, concedo che negli ultimi trent’anni
abbiano dato il peggio, finendo per dar ragione perfino a chi afferma che
siano impossibili in assoluto e incompatibili l’una all’altro.
Ci sarà chi mi vorrà convincere che il guasto è intrinseco alla
loro stessa natura, e anche qui io non solleverò obiezioni: basta un
niente, e la democrazia si svuota per lasciar di sé al massimo la
forma, pronta a riempirsi di orribili schifezze, e così il
liberalismo, che troppo spesso offre spiragli a tutto ciò che è
illiberale, finendo per tollerare, come unica diversità, la
diseguaglianza. Non farò come i marxiani, che in nessuno degli
esempi offerti dalla storia riconoscono il vero socialismo (altra
cosa dai marxisti, che spesso si accontentano anche del peggio), né
farò come i cristiani, che per la comprensione di quanto sia
perfetta la creazione rimandano a quanto ci sarà rivelato dopo la
morte, ma solo se da vivi ne sopportiamo i difetti e rinunciamo a
metterci mano: democrazia e liberalismo sono solo metodi, non reggono
in virtù di una teoria che gli dà un fine ultimo, né tanto meno
reggono sulla forza di una fede che sospenda il giudizio sui dati
dell’esperienza. Democrazia e
liberalismo reggono solo sul rispetto delle leggi che ne impediscono
il fallimento, e nulla più della corruzione lo favorisce: con la
corruzione che alimenta l’interesse
personale nell’adempimento di una
funzione pubblica, il principio della rappresentanza viene
minato alla base; con la corruzione che altera la misura del merito
nelle dinamiche della libera concorrenza, il mercato diventa un
tritacarne. L’assassino ne
uccide uno, due, dieci, cento, ma il patto tra corrotto e corruttore
ferisce tutti.
Vabbè,
volevo essere breve, e non ci sono riuscito. Vorrà dire che invece
di analizzare frase per frase ciò che Piercamillo Davigo ha detto ad
Aldo Cazzullo, mi limiterò a considerare solo il passaggio che ha
sollevato più polemiche: «Non
hanno smesso di rubare; hanno smesso di vergognarsi. Rivendicano con
sfrontatezza quel che prima facevano di nascosto. Dicono cose tipo:
“Con i nostri soldi facciamo quello che ci pare”. Ma non sono
soldi loro; sono dei contribuenti».
È sembrato fosse un’odiosa
generalizzazione, l’affermazione
di una presunzione di colpevolezza per tutta la classe politica
italiana. Impressione errata, a mio modesto avviso. Volutamente
errata, forse, nel tentativo di far quadrato contro quello che così
potesse essere denunciato come il tentativo di una generale condanna
preventiva. Sta di fatto che all’appello
hanno risposto solo i partiti che hanno fra i loro eletti il maggiore
numero di indagati, rinviati a giudizio e condannati in primo grado o
in via definitiva, con ciò dando conferma di quanto il presidente
dell’Anm
aveva detto appena due giorni prima, e proprio a smentire ogni
insinuazione di vulnus al diritto: «La
presunzione d’innocenza è un fatto interno al processo, non
c’entra nulla coi rapporti sociali e politici»
(Il Fatto
Quotidiano,
20.4.2016).
La responsabilità penale è personale, certo, ma, dinanzi al reato
come costante sistemica, c’è
una responsabilità politica che è di sistema, ed è in tale sistema che «non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti». Quando la classe
politica non è in grado di darsi strumenti per prevenire la
corruzione, prima, ed emarginare i corrotti, poi, è colpevole:
contro la democrazia, contro il liberalismo. Quando in favore
dell’indagato,
dell’imputato, del condannato, se appartenente alla classe
politica, la
garanzie diventano
guarentigie, il garantismo diventa una maschera, anche parecchio
grottesca. Allora dieci, cento, mille Davigo.
domenica 24 aprile 2016
La fine dell’assoluto
Riproduco
qui sotto il primo e l’ultimo
capoverso dell’articolo a firma
di Edoardo Boncinelli che oggi è su la Lettura (Corriere
della Sera, 24.4.2016), a prolegomeno per ogni ciancia metafisica.
venerdì 22 aprile 2016
[...]
«L’italiano
non è l’italiano: è il ragionare»
Leonardo
Sciascia, Una storia semplice (1989)
Quando
si parla di analfabetismo funzionale, ci si limita a
considerare
l’incapacità
di comprendere un testo relativamente semplice, produrne
uno sufficientemente adeguato a esprimere quanto sia nelle intenzioni
di chi scrive, eseguire calcoli anche estremamente facili e risolvere
problemi non eccessivamente complicati – incapacità che per
ciascuna delle dette operazioni è opportunamente valutabile grazie a
test che ne rivelano la gravità caso per caso – come espressione
di un mero deficit di nozioni, che per quanto attiene al leggere e
allo scrivere sarebbero grammaticali, sintattiche e lessicali, quasi
che il problema debba ritenersi relativo solo al grado di istruzione,
e in sostanza all’acquisizione,
al corretto uso, alla
necessaria manutenzione degli utensili impiegati per comunicare,
dimenticando che a informare la struttura del linguaggio sono le
leggi della logica, sicché non è affatto azzardato affermare che a
ogni analfabeta funzionale corrisponda un individuo che non ragiona
affatto o che ragiona male.
Questo
primo capoverso poteva essere spezzettato in dieci frasi per renderne
più agevole la lettura? Senza dubbio, ma a che scopo? Per non
pretendere dal lettore una continuità di attenzione che già a un
terzo della sua lunghezza – concedo – può risultare faticosa. È
così che deve
aver preso piede la premura di costruire frasi brevi: dal tronco
della proposizione principale vengono potate le coordinate, le
subordinate e le incidentali, senza togliere efficacia comunicativa
al testo, sia chiaro, ma rinunciando a dargli una forma che
corrisponda all’articolazione
logica che lo sostiene. In altri termini, la scelta è quella di
disarticolare i processi logici, ritenendo che non sia essenziale
assicurarne la continuità per dar ragione del loro sviluppo.
D’altronde,
se si ha contezza del fatto che di analfabetismo
funzionale soffre oltre l’80% degli italiani (nella sua forma più
grave la percentuale è del 47%),
non c’è
altra scelta: occorre rinunciare a produrre testi che impongano al
lettore la fatica di ragionare. Non mi si fraintenda: con una
scrittura semplice, non faticosa, si possono adeguatamente esprimere
concetti anche assai complessi, senza che l’impianto
argomentativo venga a perdere solidità, né che venga meno la
possibilità di saggiarla. Di fatto, tuttavia, il saggiarla implica
dover ricostruire il processo attraverso il quale l’impianto
argomentativo è venuto a strutturarsi. Poco male, si dirà, in fondo
nulla andrà perso. Certo, ma solo per chi sarà in grado di
riattaccare i rami al tronco: l’analfabeta
funzionale non ne sarà capace, anzi, neppure ne comprenderà il
senso. Si saranno così create le premesse perché a persuaderlo
possa bastare ciò che pensa di aver capito, laddove il testo gliene
offra occasione, poco importa quanto reale. La breccia sarà fatta
per lasciare passare non solo paralogismi e tautologie, ma anche
argomenti validi, se però esposti in modo didattico, il che
giocoforza presuppone la disponibilità ad assegnare autorità senza
poterne valutare pienamente la legittimità.
Il
primato europeo di analfabetismo funzionale di cui l’Italia
continua ad essere l’incontrastata
detentrice fin dalla prima indagine effettuata sul fenomeno non è, dunque, solo un problema strettamente culturale, ma anche, e forse soprattutto, una questione
antropologica, tanto più rimarcabile in quanto tale per l’enorme
divario che la separa dagli altri paesi:
a dispetto degli autori che ci hanno scoraggiato dalla
costruzione di quegli idealtipi cui si dà il nome di «carattere»,
quello italiano
esiste, e ha una ben distinguibile cifra identitaria, che è l’incapacità di ragionare.
martedì 19 aprile 2016
Bah, chissà, forse la fretta
I tecnici nominati dalla
Procura di Vibo Valentia ritengono in via preliminare che gli incidenti verificatisi sul tratto della Salerno-Reggio Calabria ora sottoposto a sequestro
cautelativo siano dovuti a difetti nella realizzazione delle opere
di ammodernamento che di recente vi sono state apportate. Bah, vedremo come andrà a
finire, può darsi che tutte quelle morti siano dovute solo al caso e che
l’impresa incaricata dei lavori
non abbia alcuna responsabilità dell’accaduto.
Certo, se ne avesse, sarebbe legittimo chiedersi cosa possa aver
causato gli errori di progettazione e di messa in opera. Chissà, forse
la fretta. Sappiamo, infatti, che entro il 22 dicembre la A3 deve essere completata, perché
l’inquilino di Palazzo Chigi
possa inaugurarla, come ha promesso lo scorso febbraio, quando
all’annuncio in conferenza
stampa tutti gli hanno riso addosso, e allora – mirabile visu –
sulle sue gote si è colto un lieve accenno di rossore, del tipo che
si osserva in certe balaniti: quell’oltraggio alla sua credibilità può averlo spinto a mettere il pepe al culo ai responsabili dei
cantieri aperti sulla A3, e si sa che col pepe al culo l’errore
scappa sempre. Fare per fare, e fare in fretta, di rilancio in
rilancio, in perenne sfida: è la filosofia di Matteo Renzi, i morti nella galleria Tremisi-San Rocco ne sarebbero i paralipomeni.
lunedì 18 aprile 2016
Guerri su Buonaiuti
Rammentandoci
che il
20 aprile ricorre il 70° anniversario della morte di Ernesto
Buonaiuti, Giordano Bruno Guerri ne tratteggia
la figura di intellettuale che subì feroci persecuzioni da parte del
papato, chiudendo il suo articolo con l’auspicio che Bergoglio ne
faccia ammenda, tanto più doverosa da parte di Bergoglio perché è
proprio il suo pontificato ad aver dato segno di «voler
recuperare lo spirito più profondo del messaggio di Buonaiuti»,
e poi perché Bergoglio è un gesuita, e proprio i gesuiti furono i
suoi più accaniti detrattori (Adesso
Papa Francesco perdoni l’«eretico» Buonaiuti -
il
Giornale, 18.4.2016).
L’auspicio sembra assai sentito, d’altronde basta
aver letto la biografia di Buonaiuti che Guerri diede alle stampe
tempo fa (Eretico
e profeta,
Mondadori 2001) per capire quanta compassione abbiano suscitato in
lui i torti subìti dall’«esponente
più importante del modernismo» qui
in Italia. Né sembra strumentale, l’auspicio, anche se le
posizioni anticlericali di chi lo formula sono note, perché, da
storico che non si è mai adeguato a una conformistica lettura del
fascismo, Guerri non dimentica di denunciare anche i torti che
Buonaiuti subì dal regime fascista (tutte recepite, in occasione del
Concordato e dei Patti Lateranensi, le richieste vessatorie avanzate
dal Vaticano nei suoi confronti), né, da liberale, fa sconti ai
liberali, Croce in testa, che per la sorte di Buonaiuti spesero solo
indifferenza («pensando
a torto che si trattasse di battaglie che non riguardavano la vita
laica»).
Tutto bene, diremmo, se non fosse che in quarta di copertina, sulla
prima edizione della biografia di Buonaiuti, si legge: «non
potrà mai essere perdonato dalla Chiesa: o eretico o santo».
Che, da un lato, rivela la piena comprensione delle ragioni che
ancora oggi costringono la Chiesa a rigettare i capisaldi del
modernismo (evoluzione creatrice, lettura storico-critica delle
Scritture, recupero dell’ecclesiologia del primo cristianesimo,
ecc.) con una fermezza di cui invece si sente in grado di poter fare a meno quando fa l’ecumenica
con ortodossi, anglicani e lefebvriani, e, dall’altro, esprime in
modo plastico la coincidenza di strategia e di tattica nel modo che
essa adotta per riscrivere la sua storia. Proprio perciò, e in virtù del suo quasi sfacciato candore, l’auspicio
appare sottilmente provocatorio.
Come diceva il poeta
Sette
italiani su dieci, ieri, hanno disertato le urne. Trattandosi di un
referendum, direi che le ragioni – valide o meno, a piacere –
possano ridursi alle seguenti, ma senza che ciascuna escluda
necessariamente le altre:
(1) rigetto di ogni forma di voto, come
espressione di sfiducia nel metodo democratico o addirittura di
ripudio del principio che lo informa;
(2) rigetto del voto
referendario, per generica contrarietà ad ogni forma di democrazia
diretta, per specifico dissenso al senso che questa assume nello
strumento del referendum, per sfiducia maturata dall’esperienza
delle numerose volte in cui l’esito
del voto è stato disatteso;
(3) rigetto del
quesito posto in questa occasione, perché non
adeguatamente compreso, perché ritenuto di peso irrilevante, perché
considerato strumentale, perché non proposto da 500.000 cittadini,
ma da 9 regioni;
(4) contrarietà all’evenienza
che dalle urne uscisse vincitore il sì e conseguente scelta di far
forte il no con l’astensione
motivata dalla somma delle suddette ragioni.
È ovviamente
impossibile discernere in quota percentuale quanto abbia pesato l’una
o l’altra ragione nel
mancato raggiungimento del quorum, ma un astensionismo ormai stabile
intorno al 30-40% per ogni genere di consultazione elettorale
tenutasi negli ultimi dieci anni, con un marcato incremento quando si
trattava di referendum, consente di ridimensionare il peso tutto
apparente che assume la pur incontestabile vittoria di chi voleva che
andasse come è andata.
Relativamente più semplice è l’elenco
delle ragioni che hanno portato alle urne i restanti tre italiani su
dieci:
(1) c’era chi non diserta mai il voto,
perché lo ritiene un dovere civico, non intende venirvi meno neppure
se ha coscienza che ormai conta sempre meno, e va a votare sempre,
anche se non ha le idee ben chiare, dove probabilmente lascia la
scheda in bianco;
(2) poi c’era chi, a torto o a ragione, pensava
di aver chiara la questione che era in gioco, e su quella intendeva
esprimere la propria idea, ritenendo indispensabile darle un peso col
voto, sia per votare sì, nel tentativo di abrogare una norma
ritenuta ingiusta, sia per votare no, perché indisposto a vederla
confermata dal mancato raggiunto del quorum o disposto a vederla
confermata anche in quel modo, ma personalmente indisposto a
servirsene;
(3) infine c’era chi al voto riconosceva la legittimità
del valore strumentale che era venuto assumendo come espressione di
sfiducia al governo, poco importa se per la natura stessa del quesito
o per la sfida lanciata da Matteo Renzi col suo invito
all’astensione.
Anche qui è difficile separare una ragione
dall’altra per assegnare a ciascuna il proprio peso percentuale,
sta di fatto che l’invito di Matteo Renzi all’astensione rende in
qualche modo omogeneo il 32,15% che si è recato alle urne,
conferendogli un profilo politico che il 67,85% che se n’è tenuto
lontano non ha. In buona sostanza, questo referendum ha creato un
collante tra chi è andato a votare perché l’indifferenza è un
peccato mortale, chi ci è andato pensando a cazzo di cane che il suo
voto servisse a salvare l’albatros dall’atroce agonia in una
pozza di catrame e chi invece l’ha fatto semplicemente perché
sperava di poter vedere Matteo Renzi schiattare di rabbia: un
collante che manca alle componenti dell’elettorato astensionista,
sul quale oggi il buffone ha buon gioco a puntare i piedi, ma che in
realtà è meno affidabile della superficie delle sabbie mobili. In più, non è da sottovalutare l’effetto
frustrante di un mancato quorum in chi è andato a votare, non
importa quale fosse il motivo che portasse alle urne.
In definitiva,
direi che il fine immediato posto dal referendum, come ampiamente
previsto, è senza dubbio fallito, ma quello che, scientemente o
meno, gli era insito alla media e lunga distanza ha trovato pieno
successo, come ne ha dato plastica dimostrazione la conferenza stampa
tenuta da Matteo Renzi, dove la voglia di incassare il risultato è
stata cautamente raffrenata da toni di ricomposizione: la vittoria
non era del governo, ma dei lavoratori addetti alle trivelle; la
sconfitta non era di chi era andato a votare, ma di chi ce l’aveva
portato. Può darsi che questo tentativo di blandire il risentimento
dei tanti che sono stati sbeffeggiati dai suoi sgherri possa avere
qualche effetto, ma l’impressione è che con la vittoria ottenuta
ieri, soprattutto col modo in cui se l’è procurata, Matteo Renzi
abbia dato un altro colpo di vanga allo scavarsi la fossa nella quale
sarà seppellito vivo. Non è dato sapere quando, e comunque non è
ragionevole pensare che accadrà presto, in fondo quella italiana è
plebe dai riflessi assai ottusi, quasi spenti.
«E
poi perdere ogni tanto ci ha il suo miele»,
come diceva il poeta. Che aggiungeva: «si
pianga solo un po’ perché è un peccato e si rida poi sul come
andrà a finire»;
«la
ragione diamo e il vincere ai coglioni, oppure ai bari»;
«ne
abbiam visti geni e maghi uscire a frotte per scomparire»;
«ghignando
ce ne andremo pian pianino per sederci lungo il fiume ad
aspettare»...
Conviene riascoltare tutta la sua poesia.
Per oggi abbandoniamoci al
lirismo, via, ché poi, quando verrà il momento di saldare i conti
non ce ne sarà tempo, né motivo.
domenica 17 aprile 2016
Siamo onesti, via
Siamo
onesti, via, quello che si è tenuto oggi era un referendum fallito
in partenza. A gente come quella che intasa la canna fecale che da
Aosta scende fino ad Enna non si pongono quesiti così astrusi, ma
domande semplici e su questioni che tocchino davvero la viva realtà
del suo quotidiano.
Karma
È
giovane, questo è vero, ma non si può mai dire, la morte è
capricciosa, pesca a caso, e poi ultimamente non mostra un’ottima
cera, è gonfio, chiude la frase con un lieve affanno, appena
percettibile, questo sì, ma non sarei affatto sorpreso se la minima
fosse sui 90/95, la creatininemia sforasse anche di poco, avesse
qualche occasionale disritmia cardiaca... Poi c’è
che i giovani si sentono immortali, sottovalutano i sintomi,
sperperano energie pensando siano inesauribili... Se poi sono drogati
di vitalismo e di autostima, perennemente su di giri, convinti di
avere il mondo in pugno, basta un nonnulla, chessò, un piccolo
aneurisma cerebrale, e il karma non perde l’occasione
di dar prova di quanto sappia essere stronzo. Insomma, non c’è
da disperare, occorre solo esser pazienti.
«Nessuno strumentalizzi il voto», dice. Ti verrebbe da sparargli in bocca, ma perché scomodarsi? Lasciamo fare al fato, che in ogni vita è piantato come una trivella, e succhia e succhia e succhia, senza rinnovo della concessione, fino a esaurimento.
«Nessuno strumentalizzi il voto», dice. Ti verrebbe da sparargli in bocca, ma perché scomodarsi? Lasciamo fare al fato, che in ogni vita è piantato come una trivella, e succhia e succhia e succhia, senza rinnovo della concessione, fino a esaurimento.
sabato 16 aprile 2016
venerdì 15 aprile 2016
Napolitano 2005
Mai
avrei immaginato che Napolitano avesse fan tanto agguerriti.
Ammiratori, sì, sapevo che ne avesse, ma non immaginavo che fossero
capaci di esprimere la loro ammirazione per Re Giorgio con insulti
così violenti all’indirizzo
di chi azzardasse a sollevargli critica. La regola, qui, è di cestinare ingiurie e minacce, ma a questi corazzieri di complemento in pensione devo una risposta, e mi pare non ce ne
sia una migliore che proporre un Napolitano d’annata.
Non così lontano nel tempo, poi: si tratta dell’intervista
concessa ad Alessio Falconio, per Radio Radicale, l’8
giugno del 2005. Concetti chiari, e chiaramente espressi, peraltro
ribaditi nel 2011, anche lì in occasione di una chiamata
referendaria. Ascoltatelo, l’emerito,
poi andate a fare in culo assieme a lui.
[Commenti di tenore analogo a
quelli riservati al post qui sotto saranno allegati a documento di
querela contro ignoti.]
Un emerito
Quando
si trattò di discutere su quale valore attribuire al voto, la
Costituente si spaccò in due: c’era
chi voleva
che la Costituzione ne affermasse l’obbligatorietà
giuridica e chi invece riteneva fosse un pochino esagerato schiaffare
in galera chi disertasse le urne. Si arrivò al compromesso e il voto
fu dichiarato «dovere
civico».
In quanto «dovere»,
era implicito dovesse stabilirsi una sanzione per chi se ne sottraeva. Avendo rinunciato a trattarla come un reato, l’astensione
fu punita con l’iscrizione
in un apposito albo, che per un mese restava esposto al pubblico
nella bacheca delle ordinanze comunali, e con l’annotazione
«non
ha votato»
sul certificato di buona condotta per i cinque anni successivi, a
norma dell’art.
115 del testo unico della legge elettorale del 30.3.1957, che
definiva il voto come «obbligo
al quale nessun cittadino può sottrarsi».
Sarà solo un caso, ma tutto questo ha termine solo quando le leggi
elettorali virano al maggioritario, quasi a concedere un vero e
proprio diritto di astensione dal voto proprio quando la cosiddetta
governabilità comincia ad essere sentita prioritaria rispetto alla
rappresentatività. Come a dire: togliamo al tuo voto il suo
effettivo peso, ma in cambio ti concediamo la libertà di non votare,
lasciando al biasimo la mera maniera.
La Costituzione continua a
recitare che il voto è un «dovere
civico»,
ma al rispetto del principio sembrerebbe sia tenuta solo la figura
istituzionale, visto che continua ad essere vigente, per esempio, la
legge
352 del 25.5.1970 (Norme
sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa
legislativa del popolo)
che punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni «chiunque
investito di un pubblico potere [...] si adopera [...] ad indurli
[gli
elettori] all’astensione».
Vigente per modo di dire, visto che il Presidente del Consiglio continua ad invitare a disertare il referendum che si terrà
dopodomani senza che una Procura della Repubblica senta il bisogno di
intervenire.
Poi c’è
l’emerito,
e a emerito non aggiungo Presidente della Repubblica perché alludo ad altro. Dalle pagine de
la
Repubblica,
ieri, l’emerito
diceva che «l’astensione
è un modo di esprimere la convinzione dell’inconsistenza e della
pretestuosità di questa iniziativa referendaria»,
alla faccia dell’Ufficio
centrale per il referendum presso la Corte suprema di cassazione che
l’ha
dichiarata legittimamente fondata. Il rispetto del principio viene così ad essere dichiarato eludibile anche da chi sia investito di un pubblico potere.
Sarà solo un caso, ma tutto questo accade col degrado della funzione rappresentativa in una delle più plastiche rappresentazioni del cosiddetto «populismo dall’alto»: il pubblico potere trae legittimità dal silenzio-assenso più che dal dichiarato consenso e l’invito all’astensione diventa il modo per poter dichiarare legittima la pretesa della delega in bianco.
Ne è ulteriore conferma la
procedura che l’emerito ritiene
più adeguata a correggere quelli che non ha difficoltà a riconoscere
come punti deboli della riforma costituzionale per la cui
approvazione così com’è da
parte del parlamento non ha risparmiato impegno: «Bisogna
soprattutto farla, una riforma come quella appena approvata, eppoi
impegnarsi per la sua migliore attuazione. A questo compito
dovrebbero partecipare, una volta confermata la legge con il
referendum, anche i gruppi politici che oggi la osteggiano». Scriverla come viene, approvarla anche se ha dei difetti, chiedere al popolo bue di dare il non obstat, e poi procedere a migliorarla per quanto possibile coinvolgendo chi avrebbe voluto emendarla prima che fosse approvata, ovviamente se disposto al supino assumere la ratio di un tombale neoconsociativismo. Che vi dicevo? Un emerito.
mercoledì 13 aprile 2016
[...]
Si
è soliti attribuire a Chilone il precetto di non
dir dei morti altro che bene,
ma in realtà Diogene Laerzio gli mette in bocca semplicemente il
divieto di dirne male (Vite
dei filosofi,
I, III, 70), che però ha antecedenti in Omero (Odissea,
XXII), in Archiloco (fr. 134 West) e in Eschilo (fr. 151 Radt).
Non
è del tutto irrilevante la differenza tra il τον
τεθνηκοτα μη κακολογειν
di Chilone e il
de
mortuis nihil nisi bonum
che diventa quando Ambrogio Traversari lo traduce dal greco al latino
(Laertii
Diogenis vitae et sententiae eorum qui in philosophia probati
fuerunt,
1433). Nel primo caso, se voglio dir male di un morto, il precetto
non mi dà alternative: devo tacere. Nel secondo caso, è un po’
diverso: mi è offerto il modo di parlarne, ma solo per dirne bene,
il che non mi impedisce l’uso
di strumenti retorici che possono rivelare quel che davvero penso,
almeno a chi sia in grado di cogliere cosa ci sia sotto (υπο)
il mio parlare (κρινειν).
In sostanza, il de
mortuis nihil nisi bonum mi
consente un’ipocrisia
(υποκρισιη)
che il τον
τεθνηκοτα μη κακολογειν mi
nega.
Probabilmente è questo che spiega perché si sente parlare
tanto bene di chi si sentiva parlare tanto male in vita, appena
muore. Si tratta, tuttavia, di un’ipocrisia
che solo in pochi casi rivela l’insopprimibile
bisogno di ribadire, pur ricorrendo all’unico
espediente consentito, il giudizio negativo che si aveva del morto,
quand’era
vivo, perché, più in generale, accade che al tacere si preferisca
parlare, per coprire l’eco
del giudizio negativo che nel silenzio sarebbe ancora ben udibile: il
tanto dirne male quand’era
vivo è così persistente che rischia di offenderlo anche da morto, e
allora occorre esagerare col dirne bene, non di rado arrivando al
grottesco.
Pessimi difetti diventano, così, virtù che prima non
erano neppure sospettate, e al disprezzo fa posto la lode,
all’insulto
l’incensamento: il pazzo fottuto è diventato un appassionato visionario, il losco burattinaio ora è un leader buono e saggio, dove prima c’era l’avido affarista ecco l’idealista che ci rimetteva di tasca sua... Il moralista ne resta nauseato, lo studioso di scienze umane sa trovarlo affascinante.
martedì 12 aprile 2016
lunedì 11 aprile 2016
Nessuno è perfetto
Bravo,
’sto
Grossi, ma proprio bravo, bravo, bravo: «Al
referendum
– dice – si
deve votare: la partecipazione al voto –
spiega – fa
parte della carta d’identità del buon cittadino».
Che peccato non averlo avuto alla presidenza della Corte
Costituzionale ai tempi del referendum sulla legge 40, quando il
cardinal Ruini invitava all’astensione.
E vabbè che una parolina avrebbe potuto spenderla anche allora, ché
già ci aveva un curriculum prestigiosissimo, ma non risulta. Chissà
’ndov’era,
magari era docente all’estero...
Andiamo a controllare, va’, può
darsi che su Wikipedia... Ah, ecco, nel 2004 era giudice
di un tribunale ecclesiastico. Su nomina della Cei, naturalmente.
Alla cui presidenza c’era
il cardinal Ruini. Chiudiamo, via, nessuno è perfetto.
Tutto deve essere semplice
Nel
caso in cui Giulio Regeni fosse stato ucciso da una cellula deviata
dei corpi di sicurezza egiziani – poco importa se infiltrata da
agenti stranieri che si fossero posti il fine di creare tensione tra
Italia ed Egitto o se espressione di uno di quei settori
dell’esercito che, per unanime
parere degli analisti delle cose
egiziane, da tempo tramano per rovesciare al-Sisi – potremmo
dire che la sua operazione stia dando ottimi risultati: il caso è
all’attenzione dell’opinione
pubblica internazionale come emblematico di un regime sanguinario e
gli attriti tra le autorità italiane e quelle egiziane sono arrivati
al punto da mettere in discussione, seppure a mero scopo
intimidatorio, i solidi accordi di partnership economica che fin qui
avevano lasciato a bocca asciutta Francia e Regno Unito.
Potremmo
dire sia stata scelta la vittima giusta, la si sia macellata nel modo
migliore, nel momento più opportuno, con un accorto calcolo della
reazione che l’assassinio
avrebbe provocato in Italia (soprattutto in relazione a chi dovesse
necessariamente esserne il responsabile), dei passi diplomatici che
questa avrebbe reso necessari (salvo ricadute su un governo che non
poteva, e ancor più non può, permettersele), della necessitata
risposta del regime egiziano (nell’impossibilità
di ammettere di non avere il pieno controllo dei corpi di sicurezza),
dell’escalation che tali elementi
avrebbero innescato.
Potremmo, ma quest’ipotesi è liquidabile
come «complottista», e quella di «complottismo», oggi, è imputazione che rovina la reputazione in società: l’uomo di mondo, oggi, ama radersi col
rasoio di Occam, per porgere dal suo viso perfettamente sbarbato un
sorriso beffardo a chiunque azzardi che i complotti sono il pane
quotidiano di ogni servizio segreto. Come non detto, era giusto per non dare per scontato quel che è scontato. Giulio Cesare? Si decise di ammazzarlo lì per lì, smettiamola con le malate insinuazioni che dietro ci fosse una congiura, sennò finiamo nel mucchio di quelli che negano lo sbarco sulla Luna? Tutto non può che essere
estremamente semplice, deve esserlo, sennò cadiamo nella paranoia: ergo al-Sisi è fesso e feroce, e i suoi hanno ucciso
Giulio Regeni, e non ne hanno fatto sparire il corpo perché avevano finito l’acido, oppure no, perché c’era una partita alla tv, oppure perché – via, che importa il perché? Tutto è così semplice: di qua il ragazzo che stringe a sé il gattino, di là il tipaccio col grugno da faraone. Urge che al-Sisi ammetta la sua colpa, sennò prima
ritiriamo l’ambasciatore dal Cairo, e poi l’Eni. Perché noi abbiamo una
dignità da difendere, e vale più dei 25 miliardi di dollari di
interscambio con l’Egitto. Ci facesse affari la Francia, con quel criminale.
sabato 9 aprile 2016
Amoris laetitia
«Diremo
forse che colui che dà
maggiormente perde nello scambio
sul valore
di ciò che possedeva?
Niente affatto, dal momento
che tale superfluo
è per lui senza utilità,
o che comunque, egli ha accettato di farne
lo scambio
proprio perché accorda maggior valore
a ciò che riceve
che a ciò che abbandona»
Michel
Foucault, Le parole e le cose (1966)
All’apertura
della sessione sinodale dello scorso ottobre, in favore di chi
potesse averlo dimenticato, Bergoglio avvertiva che «il
sinodo non è un parlamento»,
non è un luogo «dove
ci si mette d’accordo».
Ancora più esplicito, alcuni mesi prima, era stato quando,
all’accendersi
di imbarazzanti tensioni tra gli opposti schieramenti in seno
all’assise
che doveva licenziare l’Instrumentum
laboris
a partire dalla Relatio
synodis,
aveva rammentato che, a norma del Codice
di Diritto Canonico,
«il
sinodo dei vescovi è direttamente sottoposto all’autorità
del Romano Pontefice»
(Can. 344). Come a dire: parresia à gogo, ma poi decido io, quindi
moderiamo i toni. Che poi poteva intendersi pure a questo modo: ho
già deciso il da farsi, mi servite solo a dargli la parvenza di una
decisione collegiale, quindi cercate di non rompermi il cazzo.
Cosa
avesse deciso era già chiaramente intuibile nella stessa decisione
di convocare un sinodo straordinario, e proprio sulla famiglia: i
margini entro i quali la pastorale poteva azzardare qualche novità
consentivano di rinforzare all’esterno
l’immagine
di un pontificato che più di un fesso già aveva definito
«rivoluzionario»,
senza per questo dover mettere a soqquadro la dottrina. In sostanza,
si era riprodotta la situazione che ha già dato altre volte in
passato alla Chiesa di Roma l’opportunità
di mostrarsi in grado di adattarsi ai tempi, ma senza svendere il suo
deposito di fede, e Bergoglio non intendeva lasciarsene scappare
l’occasione.
Con l’esortazione
apostolica postsinodale Amoris
laetizia
diremmo che l’operazione
sia andata a buon fine, ne sono prova le reazioni di chi vuol
leggerla come una «rivoluzione».
In realtà, basta attenersi al testo per constatare che le sue
accorte ambiguità possono accontentare anche i cattolici più
intransigenti, che senza dubbio non rinunceranno a qualche lamentela,
ma più per onorare il ruolo assegnato loro in commedia che per
sincera preoccupazione. Nei loro confronti, d’altronde,
Bergoglio ha mostrato grande delicatezza con l’annuncio
di una ripresa delle trattative coi lefebvriani, diffuso, seppur con
la dovuta discrezione, appena una settimana prima che fosse
pubblicata l’Amoris
laetizia.
«La
gioia dell’amore che si vive nelle famiglie è anche il giubilo
della Chiesa» (1).
Sarà superfluo chiarire che parliamo delle «famiglie»
che la Chiesa ritiene propriamente tali, perché, tanto per
fare un esempio, «non
esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure
remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio
e la famiglia»
(251). D’altra
parte, la Chiesa può considerare moralmente legittimo un amore che
non
sia fecondo dandosi in «immagine
per scoprire e descrivere il mistero di Dio» (11)?
E allora tutto vien da sé: cinque capitoli (198 dei 325 paragrafi
che compongono l’Amoris
laetitia)
che scorrono anodini a riproporci il modello di famiglia cristiana,
quello strano oggetto che dalla testa del prete è proiettato sulla
famiglia reale che occupa il banco in prima fila e pare segua con
attenzione la sua omelia. Famiglia che non esiste neppure al netto
delle assoluzioni per tutte le disattenzioni, ma al prete piace tanto
da considerarla l’unica
possibile, anche se ha imparato a prendere atto che deve
accontentarsi del poco che la proiezione gli restituisce: «non
tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere
risolte con interventi del magistero»
(3), anche perché non possono, puttana Eva, e allora conviene
«essere
umili e realisti, per riconoscere che a volte il nostro modo di
presentare le convinzioni cristiane e il modo di trattare le persone
hanno aiutato a provocare ciò di cui oggi ci lamentiamo»
(36). «Per
molto tempo abbiamo creduto che solamente insistendo su questioni
dottrinali, bioetiche e morali, senza motivare l’apertura alla
grazia, avessimo già sostenuto a sufficienza le famiglie,
consolidato il vincolo degli sposi e riempito di significato la loro
vita insieme»
(37), e che ci abbiamo ricavato? «Dobbiamo
ringraziare per il fatto che la maggior parte della gente stima le
relazioni familiari che vogliono durare nel tempo e che assicurano il
rispetto all’altro»
(38), approfittiamone e cerchiamo di cavarne quel che può tornarci
utile.
Sia chiaro, «in
nessun modo la Chiesa deve rinunciare a proporre l’ideale pieno del
matrimonio»
(307), ma cerchiamo di chiudere un occhio tutte le volte che nella
realtà dobbiamo constatarlo più mezzo vuoto che mezzo pieno. Parola
d’ordine:
indorare la pillola. Per meglio dire: sull’amo
della dottrina ci vada un bel verme grasso di misericordia, e buona
pesca. Viga il principio, ma la regola si adatti al caso. Perché il
peccato resti peccato, siate di manica larga col perdono. Divorzio, aborto, eutanasia, fecondazione assistita, matrimonio gay – non cambia niente, è ovvio, ma cerchiamo di non urlarlo a squarciagola, ché ne ricaviamo solo emorroidi. Eucaristia ai divorziati risposati? No, ma sì, cioè, così così.
Ok, potrà
«costa[rci]
molto dare spazio nella pastorale all’amore incondizionato di Dio»,
saremo portati a «esig[ere]
dai
penitenti un proposito di pentimento senza ombra alcuna»,
ma
convincetevi che «la
prevedibilità di una nuova caduta non pregiudica l’autenticità
del proposito»
(311).
Buon viso a cattivo gioco, ché a fare la faccia cattiva non si ha
buon gioco.
venerdì 8 aprile 2016
[...]
Arrivato
alla 246ª
delle 1294 pagine de La scuola cattolica
di Edoardo Albinati (Rizzoli, 2016), sento l’irresistibile
bisogno di espiare la colpa di averlo acquistato.
Non
devo più farmi fottere dagli unanimi elogi della critica.
Non
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