mercoledì 23 maggio 2018

Mortati, Virga e Mattarella


Qui cerco di rispondere a chi mi ha scritto dopo l’ultimo post (Einaudi e MattarellaMalvino, 21.5.2018), chiedendomi ragione del perché io abbia dubbi sul significato di quel «nomina» che recita l’art. 92 della Costituzione. Semplice: la questione è controversa, e non l’ho certo sollevata io.
Costantino Mortati, per esempio, ritiene che il Presidente della Repubblica sia in qualche modo obbligato a porre a capo del Governo la persona più adatta a interpretare l’indirizzo politico della maggioranza parlamentare, cosa che gli può essere fatta presente sono dalle parti che la compongono: la «nomina» avrebbe il senso di una presa d’atto di quanto emerso dalle consultazioni con le delegazioni delle forze politiche presenti in Parlamento.
Di parere contrario, invece, Pietro Virga: per lui la «nomina» è tutta discrezionale (in questo caso, però, non si capisce perché la «nomina» risulti invalida se l’atto non è controfirmato dal Presidente del Consiglio entrante, e parliamo della controfirma su un decreto, non di un semplice assenso, ancorché formale).

Se proprio devo esprimere il mio umile parere – questo mi è stato chiesto – direi abbia ragione il Mortati: «nominare» non significa «decidere a suo piacimento, semmai anche a dispetto degli intendimenti che gli sono stati espressi da quella che sembra essere una futura maggioranza parlamentare», ma «elaborare in una designazione quanto gli è stato fatto chiaro essere una soluzione di accordo tra le parti che concorreranno a costituire la futura maggioranza parlamentare».
Donde traggo questa convinzione? Dal fatto che la nostra è una Repubblica parlamentare. Col dare al Presidente della Repubblica la piena discrezionalità nella scelta del Presidente del Consiglio, la nostra diverrebbe di fatto una Repubblica semipresidenziale, nella quale il Primo Ministro vive della fiducia del Presidente della Repubblica, prima, e del Parlamento, dopo, con in più la possibilità di essere revocato dal Presidente della Repubblica anche continuando ad avere il sostegno del Parlamento. Con l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, la cosa può pure avere un senso. Non così, in una Repubblica parlamentare, dove il Capo dello Stato è eletto dal Parlamento, con funzioni che la Costituzione vuole politicamente neutre: quella di collegamento tra gli organi costituzionali dello Stato, quella di garanzia e controllo costituzionale, quella di rappresentanza dellunità nazionale. Per il modo in cui viene eletto, il Presidente di una Repubblica parlamentare ha solo la direzione formale del Paese, mentre quella materiale resta di esclusiva competenza del Governo.
Spesso non è stato così? Certo, ma in tutti casi in cui è accaduto cè stata violazione della Costituzione, tanto più grave perché ad opera di chi era chiamato a farsene garante.

Ma chi mi ha sollecitato a tornare sulla questione non si è limitato a chiedermi cosa leggo in quel «nomina»: mi ha chiesto pure un giudizio sulloperato di Sergio Mattarella in questi 80 giorni che ormai ci separano dal 4 marzo. Direi sia troppo presto per darne uno, perché al momento non ha ancora «nominato» il Presidente del Consiglio, né i Ministri del Governo, dunque è impossibile sapere se, e quanto, e in che modo, vorrà esorbitare dalle sue prerogative. Tutto sta a vedere se sarà in grado di «elaborare in una designazione quanto gli è stato fatto chiaro essere una soluzione di accordo tra le parti che concorreranno a costituire la futura maggioranza parlamentare», che poi corrisponderebbe a quanto Luigi Einaudi diceva essere compito del Presidente della Repubblica, e cioè quello di far giocoforza «sue» le proposte maturate dal confronto tra le parti destinate a comporre la maggioranza parlamentare in sostegno al Governo.
Il fatto che la nostra sia una Repubblica parlamentare gli lascia senza alcun dubbio il potere della «moral suasion», che però è altro da quella fastidiosissima «institutional interference» di cui si sono fatti attori molti suoi predecessori. Al momento non sarebbe serio giudicarlo sulla base dei retroscena quirinalizi, che ce lo ridanno più solertemente attento alle attese sovranazionali che a quelle nazionali, tanto meno attribuirgli intenzioni che sono al di qua di quanto dirà e farà. Di certo non gli sfuggirà che in tutti e due i rami del Parlamento c’è una maggioranza assoluta dagli umori assai selvaggi cui potrebbe venir l’uzzolo di metterlo in stato di accusa per attentato alla Costituzione. Molto difficilmente si arriverebbe alla sua destituzione, ma sarebbe un antipaticissimo sfregio da portare in faccia per gli altri milletrecento e dispari giorni del suo settennato.

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