Qui
cerco di rispondere a chi mi ha scritto dopo l’ultimo post (Einaudi
e Mattarella – Malvino, 21.5.2018), chiedendomi ragione
del perché io abbia dubbi sul significato di quel «nomina»
che recita l’art. 92 della Costituzione. Semplice: la questione è
controversa, e non l’ho certo sollevata io.
Costantino Mortati, per
esempio, ritiene che il Presidente della Repubblica sia in qualche
modo obbligato a porre a capo del Governo la persona più adatta a
interpretare l’indirizzo politico della maggioranza parlamentare, cosa che gli può essere fatta presente sono dalle parti che la compongono:
la «nomina» avrebbe il senso di una presa d’atto di quanto
emerso dalle consultazioni con le delegazioni delle forze politiche
presenti in Parlamento.
Di parere contrario, invece, Pietro Virga:
per lui la «nomina» è tutta discrezionale (in questo caso,
però, non si capisce perché la «nomina» risulti invalida
se l’atto non è controfirmato dal Presidente del Consiglio
entrante, e parliamo della controfirma su un decreto, non di un
semplice assenso, ancorché formale).
Se proprio devo esprimere il
mio umile parere – questo mi è stato chiesto – direi abbia
ragione il Mortati: «nominare» non
significa «decidere a suo piacimento, semmai anche a
dispetto degli intendimenti che gli sono stati espressi da quella che
sembra essere una futura maggioranza parlamentare»,
ma «elaborare in una designazione quanto gli è stato
fatto chiaro essere una soluzione di accordo tra le parti che
concorreranno a costituire la futura maggioranza parlamentare».
Donde traggo questa convinzione? Dal fatto che la nostra è una
Repubblica parlamentare. Col dare al Presidente della Repubblica la
piena discrezionalità nella scelta del Presidente del Consiglio, la
nostra diverrebbe di fatto una Repubblica semipresidenziale, nella quale il Primo
Ministro vive della fiducia del Presidente della Repubblica, prima, e
del Parlamento, dopo, con in più la possibilità di essere revocato dal
Presidente della Repubblica anche continuando ad avere il sostegno
del Parlamento. Con l’elezione diretta del Presidente della
Repubblica, la cosa può pure avere un senso. Non così, in una
Repubblica parlamentare, dove il Capo dello Stato è eletto dal
Parlamento, con funzioni che la Costituzione vuole politicamente
neutre: quella di collegamento tra gli organi costituzionali dello
Stato, quella di garanzia e controllo costituzionale, quella di
rappresentanza dell’unità
nazionale. Per il modo in cui viene eletto, il Presidente di una
Repubblica parlamentare ha solo la direzione formale del Paese, mentre quella materiale
resta di esclusiva competenza del Governo.
Spesso non è stato così?
Certo, ma in tutti casi in cui è accaduto c’è
stata violazione della Costituzione, tanto più grave perché ad
opera di chi era chiamato a farsene garante.
Ma chi mi ha sollecitato
a tornare sulla questione non si è limitato a chiedermi cosa leggo
in quel «nomina»: mi
ha chiesto pure un giudizio sull’operato
di Sergio Mattarella in questi 80 giorni che ormai ci separano dal 4 marzo.
Direi sia troppo presto per darne uno, perché al momento non ha ancora «nominato»
il Presidente del Consiglio, né i Ministri del Governo, dunque è impossibile sapere se, e quanto, e in che modo, vorrà esorbitare dalle sue prerogative. Tutto sta a vedere se
sarà in grado di «elaborare in una designazione quanto
gli è stato fatto chiaro essere una soluzione di accordo tra le
parti che concorreranno a costituire la futura maggioranza
parlamentare», che poi
corrisponderebbe a quanto Luigi Einaudi diceva essere compito del
Presidente della Repubblica, e cioè quello di far giocoforza «sue»
le proposte maturate dal confronto tra le parti destinate a comporre
la maggioranza parlamentare in sostegno al Governo.
Il fatto che la
nostra sia una Repubblica parlamentare gli lascia senza alcun dubbio il potere della
«moral suasion», che però è altro da quella fastidiosissima «institutional
interference» di cui si sono fatti attori molti suoi predecessori. Al momento non sarebbe serio giudicarlo sulla base dei
retroscena quirinalizi, che ce lo ridanno più solertemente attento
alle attese sovranazionali che a quelle nazionali, tanto meno
attribuirgli intenzioni che sono al di qua di quanto dirà e farà.
Di certo non gli sfuggirà che in tutti e due i rami del Parlamento
c’è una maggioranza
assoluta dagli umori assai selvaggi cui potrebbe venir l’uzzolo di
metterlo in stato di accusa per attentato alla Costituzione. Molto
difficilmente si arriverebbe alla sua destituzione, ma sarebbe un
antipaticissimo sfregio da portare in faccia per gli altri milletrecento
e dispari giorni del suo settennato.
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