giovedì 11 aprile 2019

«Certi pregiudizi, diventati nazionali...»


«In Germania i conti con il nazismo sono stati duri e definitivi», scrive Michele Serra (la Repubblica, 9.4.2019), sicché «eventuali eredi del vecchio Adolf avrebbero certamente provveduto a cambiare cognome», mentre «in Italia, si sa, le cose sono molto diverse», e il fatto che qualcuno, che di cognome fa Mussolini, non soltanto non abbia provveduto a cambiarlo, ma addirittura ne faccia motivo di vanto, al punto da servirsene per far politica senza altro merito da offrire (il riferimento, qui, è a un Caio Giulio Cesare Mussolini, che le cronache di questi giorni danno candidato alle prossime Europee nelle liste di Fratelli dItalia), è il più emblematico dei segni che qui da noi «i conti con il fascismo non sono stati mai fatti per davvero».
Non si può pretendere che un corsivo possa dar spiegazione di questo dato, che è incontestabilmente vero, e tuttavia Michele Serra sembra volerne attribuire la ragione a un vizio tutto italiano. Se, infatti, «l’omone col fez è presente in molte case, e in molte strade, con assoluta naturalezza, come gli acquerelli delle zie, il limoncello nella credenza o il ficus sul pianerottolo» (sapiente parodia delle gozzaniane «buone cose di pessimo gusto» che ingombrano il salottino de Lamica di nonna Speranza), è perché siamo tragicamente privi di pudore: non ci risparmiamo l’ostensione dellorrido feticcio che è in quel cognome, «incapaci anche di quei piccoli e confortanti ritocchi a un quadro largamente compromesso» dalla presenza di «tre partiti neofascisti (più la cospicua componente fascista della Lega)».

Due pregiudizi sono evidenti in questa analisi.
Il primo è relativo a quel carattere italiano che a ogni tentativo di definizione rivela essere mera invenzione letteraria, ma che secondo molti sarebbe il primum movens della nostra storia patria, le cui origini sarebbero di almeno sei secoli antecedenti all’Unità dItalia. Nel variegato spettro dei suoi tratti peculiari spiccherebbe un connaturato deficit di responsabilità individuale e collettiva, e allora ecco spiegata quellincapacità di fare i conti col passato che rimuove di ogni senso di colpa, rendendoci insensibili a tutto ciò che la evoca.
Tanto più deprecabile, questirresponsabilità, se si fa proprio anche il secondo pregiudizio, quello che nel fascismo vede «un modo di pensare e di sentire, una serie di abitudini culturali, una nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni» (Umberto Eco): tratti peculari anchessi del carattere italiano, se è in Italia che per la prima volta sono stati in grado di dar vita ad un regime politico.

[Nellepoca in cui la lotta ai pregiudizi metteva in discussione tutto, un illuminista ammoniva: «Certi pregiudizi, diventati nazionali, devono essere risparmiati da ogni uomo retto», e aggiungeva: «Chi si cura più del bene degli uomini che della propria gloria non farà trapelare la propria opinione su questi pregiudizi» (Moses Mendelssohn). Sulla pagina trovo un tratto di matita a sottolineare il «diventati nazionali» nella prima frase e, a fianco, un punto esclamativo: puoi anche staccar dal muro il crocifisso, ma non tazzardare a toccare lautopercezione di un popolo, soprattutto quando espressa da un moralista. Un punto interrogativo, invece, trovo a fianco alla seconda frase: che gloria ci si procura a mettere in discussione le convinzioni che non hanno saldo fondamento, ma che pure sono care a tanti? Lodio, piuttosto, o, peggio, il ludibrio. Proseguiamo, dunque, ma consci del rischio che si corre col mettere in discussione Michele Serra. I suoi sono pregiudizi «diventati nazionali», anzi, per meglio dire, sono pregiudizi già da tempo cari alla parte più qualificata della nazione, quella che al carattere italiano ha da tempo offerto occasione di riscatto con la sua «protezione paterna e padreternale» (Antonio Gramsci) alternando, alla bisogna, pietà e disprezzo, esortazione e biasimo. Proseguiamo con cautela, perché a voler proporre una tesi alternativa alla ragione per la quale in Italia i conti col passato non si sono fatti come in Germania, e a provarci suggerendo che nazismo e fascismo sono due cose assai differenti, il pericolo è grosso.]

Perché «in Germania i conti con il nazismo sono stati duri e definitivi», mentre in Italia «i conti con il fascismo non sono stati mai fatti per davvero»? La differenza sta tutta nella diversità caratteriale tra tedeschi e italiani? Non è possibile, invece, che la ragione stia in quella «profonda differenza» che Renzo De Felice segnala tra fascismo e nazismo, e che al netto di tutto ciò che li accomuna sul piano storico, destinando entrambi a una condanna senza possibilità di appello (sottolineo e risottolineo: condanna senza possibilità di appello), è innegabile sul piano culturale, su quello ideologico e soprattutto su quello psicologico? Non è possibile che proprio questa differenza possa spiegare quel che altrimenti si spiega solo facendo propri i pregiudizi paternamente e padreternalmente offertici da Michele Serra?
Rileggendo Intervista sul fascismo, più che possibile, pare necessario: fascismo e nazismo nascono da condizioni diverse, servono istanze diverse, e hanno diversa visione delluomo e del mondo, diversa rappresentazione della società e della storia, diversa dimensione psicologica in cui si muovono; diversa è la natura del rapporto che Duce e Führer mirano a stabilire con le masse, diverse le liturgie che allestiscono, diverso il disegno totalitario cui mirano; c’è più differenza tra nazismo e fascismo di quanto ce ne sia tra tedeschi e italiani, perché in ultima analisi il nazismo fu un tentativo di uscire dalla storia, in parte riuscito, mentre il fascismo fu un tentativo di progresso, platealmente fallito. Non è difficile capire cosa possa far più paura, dopo aver tentato, ed è questo che spiega perché «in Germania i conti con il nazismo sono stati duri e definitivi», mentre in Italia «non sono stati mai fatti per davvero».


6 commenti:

  1. Ovvio che fascismo e nazismo non sono sovrapponibili per molti aspetti, come invece lo sono per alcuni altri, ma ciò non toglie che i conti con il fascismo non sono stati mai fatti per davvero, e non basta tale diversità ontogenetica a spiegare il fatto che qualcuno, che di cognome fa Mussolini, non soltanto non abbia provveduto a cambiarlo, ma addirittura ne faccia motivo di vanto, al punto da servirsene per far politica. Pertanto quei motivi s'annidano nella insistita presenza dei partiti neofascisti e sul loro non proprio residuale seguito. Qui da noi, ma anche in Francia e un po’ ovunque in Europa, compresa la Germania che se li trova risorgenti nei momenti di conflitto sociale.
    Dunque le motivazioni non possono essere semplicemente di carattere politico, ma vanno cercate e indagate nella composizione di classe della società italiana ed europea, negli interessi concreti espressione dei ceti sociali, delle caste, dei blocchi corporativi, eccetera.

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    1. Michele Serra solleva una questione che lei pare voler trascurare. Qui non è discussione che anche in Germania, in Francia e in Europa in generale ci siano movimenti e partiti neofascisti o neonazisti, né che essi acquistino maggior seguito e assumano maggior visibilità nei momenti di conflitto sociale: il problema è che in Italia il cognome Mussolini non è tabù, mentre in Germania il cognome Hitler lo è. Vogliamo trovarne ragione nel fatto che si tratta di un epifenomeno della maggiore consistenza dei movimenti neofascisti in Italia rispetto a quelli neonazisti in Germania? Dovremmo concedere che la "composizione di classe" della società italiana sia significativamente diversa da quella della società tedesca o che il conflitto sociale abbia natura e portata altrettanto diverse. A me non pare. Dev'esserci altro, evidentemente, e a me pare che sia proprio la "diversità ontogenetica" tra fascismo e nazismo a spiegare perché i conti col passato siano stati fatti in modo drastico in Germania, mentre in Italia no. E' che la Weltanschauung del fascismo e quella del nazismo sono radicalmente diverse in punti salienti: nel fascismo la storia è sentita in progresso, mentre nel nazismo mira paradossalmente ad un regresso palingenetico; il nazismo inoltre è intrinsecamente e genuinamente totalitario, mentre il fascismo lo è solo di facciata e di proclama; ancora, mentre il fascismo rimane sostanzialmente eclettico anche quando da movimento diventa regime, e in sé continua a mostrare il fallimento della sincresi degli opposti che in esso sono confluiti (anticlericalismo e Concordato, futurismo e nostalgia per l'Antica Roma, ecc.), il nazismo nasce, cresce e muore come sistema omogeneo, come soluzione esistenziale, perciò incapace di quei continui compromessi, di quei continui adattamenti, di quelle vere e proprie svolte cui si assiste nel corso del Ventennio. Entrambi disumani, entrambi abietti, ma il motivo per cui in Italia il cognome Mussolini non produce lo stesso orrore che in Germania produce il cognome Hitler è nel portato che alle dette differenze fa riferimento. Augurandomi che la forma ellittica non mi faccia esser frainteso, direi che l'italiano che non trasale a sentir dire "Mussolini" è lo stesso cui può scappar di bocca la bestialità che "se non fosse stato per l'entrata in guerra,...", ed è in sostanza il tizio che fa un'ipotesi di stato autoritario che sarebbe disposto, almeno a chiacchiere, a sopportare; il tedesco che arrossisce al solo sentir dire "Hitler" ha ben presente in quale Germania starebbe seppure la guerra fosse stata vinta; inverando entrambe le ipotesi, sarebbero due stati completamente diversi: io e lei saremmo infelici in entrambi, ma in Italia troveremmo più italiani contenti di quanti tedeschi contenti troveremmo in Germania. Ma è probabile che non sia riuscito a spiegarmi a dovere.

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    2. “il problema è che in Italia il cognome Mussolini non è tabù, mentre in Germania il cognome Hitler lo è”. Questo fatto è evidente. “Vogliamo trovarne ragione nel fatto che si tratta di un epifenomeno della maggiore consistenza dei movimenti neofascisti in Italia rispetto a quelli neonazisti in Germania?” Non intendevo affermare questo. Uno dei principali motivi di differenza va trovato nella Shoah, e nel fatto che il peso e il ruolo della Germania fu immensamente diverso nella nella seconda guerra mondiale da quello dell’Italia.

      “Dovremmo concedere che la "composizione di classe" della società italiana sia significativamente diversa da quella della società tedesca o che il conflitto sociale abbia natura e portata altrettanto diverse. A me non pare.” Neanche a me. E infatti ho inteso dire che riguarda tutti indistintamente.

      Sulla diversità ontogenetica, andrei più cautamente, anche se di diversità effettiva e conclamata si tratta, se non altro in rapporto ai mezzi a disposizione. Tuttavia non è in gioco la differenza tra Hitler e Mussolini, tra fascismo e nazismo (che a un certo punto seppero anche ben assimilarsi, nel 1938 e poi nel momento in cui il fascismo fu libero da legami con la monarchia). Non sono d’accordo sull’assunto che “il nazismo sia intrinsecamente e genuinamente totalitario, mentre il fascismo lo è solo di facciata e di proclama”. Ciò significherebbe conoscere troppo approssimativamente il nazismo e concedere troppe attenuanti al fascismo.

      “l'italiano che non trasale a sentir dire Mussolini è lo stesso cui può scappar di bocca la bestialità che "se non fosse stato per l'entrata in guerra,...".

      Scappa purtroppo di bocca a quel tipo comune di italiano che non considera lastoria del fascismo come tutt’uno ( la guerra come sbocco “naturale” di quell’avventura, prima in Spagna e poi via via), ma per convenienza ne prende in considerazione di volta in volta un aspetto, quello che gli fa più comodo (l’urbanistica, le misure sociali più propagandate che effettive, ecc.). L’aspetto bonario, per così dire, non certo l’aspetto “etiope”, non certo l’aspetto aggressivo e “gassoso”, non certo l’aspetto dei tribunali speciali, non certo quegli aspetti che furono a suo tempo denunciati da Ernesto Rossi e da molti altri.

      “il tedesco che arrossisce al solo sentir dire Hitler ha ben presente in quale Germania starebbe seppure la guerra fosse stata vinta”. Qui, caro amico, lei si sbaglia, a mio modo di vedere. Lei si riferisce al tedesco socialdemocratico del boom economico e non al tedesco che fino l’ultimo giorno, fino all’ultima ora, combattè in nome e per conto di Hitler e della grande Germania.

      Sul piano più generale (leggendo i suoi post) concordo sul fatto che l’opposizione antifascista oggi non può essere recuperata, né per quanto riguarda la nostra generazione né per quanto riguarda le nuove generazioni. E su chi ricadano le maggiori responsabilità mi pare chiaro.

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    3. D'accordo sul peso dato dalla Shoah, ma io non la considero come "cosa fatta dal nazismo", piuttosto come "cosa di cui il nazismo è fatto". Senza nulla togliere alla loro valenza criminale, le leggi razziali del '38, al confronto, sono sovrastruttura, e tutta contingente, addirittura opportunistica.
      Sulle "troppe attenuanti" che la mia analisi concederebbe al fascismo, la invito a considerare che il termine implica un giudizio, che sul piano storico - come ho sottolineato e risottolineato nel post - non può essere che di condanna senza appello. Temo che lei commetta l'errore di considerare "attenuanti" quelle che sono le considerazioni liberate dalla griglia morale, ciò che in effetti fece Renzo De Felice, ricevendone critiche isteriche dagli intellettuali di sinistra di un'Italia che nei primi anni '70 non tollerava che la ricerca storica sul fascismo potesse essere scienza nettata di passione. Ma erano tempi in cui la sinistra ancora lucrava egemonia culturale grazie alle sue interdizioni.
      Per niente d'accordo sull'affermazione che la storia del fascismo sia un "tutt'uno", si tratta del solito retroproiettare che puzza di dialettica hegeliana, quella che vede continuità necessitata in ogni dove: nulla del fascismo del '22 è presente nel fascismo del '19, nulla del fascismo del '36 è presente nel fascismo del '25, nulla del fascismo del '43 è presente nel fascismo del '40: il fascismo è pleomorfo ed è assai probabile che avrebbe mostrato molti altri volti inediti se ne avesse avuto la possibilità, tutti criminali c'è da credere, ma diversi.
      Quanto scrivo "il tedesco che arrossisce al solo sentir dire Hitler ha ben presente in quale Germania starebbe seppure la guerra fosse stata vinta", uso il presente - scrivo "arrossisce" - dunque non mi riferisco al "tedesco che fino l’ultimo giorno, fino all'ultima ora, combatté in nome e per conto di Hitler e della grande Germania", quindi non comprendo il senso della sua obiezione.

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  2. La vicenda della persecuzione italiana dell'ebraismo, nel suo crescendo di persecuzione della parità, dei diritti e delle vite, per usare uno schema dell'ottimo Miche Sarfatti, mi risulta tutt'altro che sovrastrutturale e opportunistica; anche in ragione del raffronto con quella tedesca. Il millenario antigiudaismo cattolico combinato al razzismo (polimorfo e ben articolato) dell'Italia liberale ha ben educato il discorso pubblico ed il senso comune al salto di qualità delle leggi razziali di Stato (anche contro le popolazioni africane). Sarò ipersensibile al tema, al suo esito attuato dagli sgherri di Salò, e ad un rumore di fondo che sento a tutt'oggi, ma la sua mi pare una lettura sconsolatamente riduzionista.

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  3. Davvero in Germania hanno fatto conti duri e definitivi col Nazismo?

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