domenica 7 aprile 2019

Il lemma trendy





«I comunisti che stanno in carcere?
Sarebbero peggio dei fascisti. Perché almeno questi
sono dei cialtroni e le bestialità che hanno in testa
le fanno male, mentre quelli sono onesti e rigorosi
e le bestialità le fanno bene»

Vitaliano Brancati, Il bellAntonio



Anche se il nostro patrimonio lessicale comprende un numero di voci che il computo dei linguisti stima tra le 215.000 e le 270.000, raramente ci si imbatte in chi correntemente ne impiega più di 7.500, mentre in media se ne usano poco più di un migliaio, e il dato è in calo, perché negli ultimi decenni è considerevolmente aumentato il numero di quanti riescono a farsene bastare 300, a dispetto del tanto digitare sulle tastiere di pc, tablet e smartphone, da cui ci si poteva attendere che gli italiani traessero un arricchimento del lemmario personale, come solitamente accade quando la comunicazione si amplia e diventa più frequente. Attesa vana: si scrive assai più di un tempo, ma in una lingua sempre più povera, refrattaria alla scelta del più appropriato sinonimo di cosa, del verbo che dia precisione al vago fare, dell’aggettivo che chiarisca se con grande sia da intendere voluminoso o rilevante, abbondante o importante.
Ai lemmi d’uso più comune, ridotto a numero tanto esiguo, si aggiungono, però, di tanto in tanto dei termini che godono di un’improvvisa ed estesissima ancorché effimera fortuna, per riaffondare di lì a poco, più o meno lentamente, nelle profondità dell’inconsueto o del desueto dal quale erano stati pescati. In questo modo accade che in un discorso pubblico sempre più piatto e opaco, anonimo e incolore, caschi un termine che fin lì aveva avuto incidenza solo episodica, per giunta assai datata.
Si prenda fuffa, per esempio. Fino a vent’anni fa, era ignorata perfino dal Treccani e dal Sabatini-Coletti. La si trovava sul Devoto-Oli, dove però se ne contemplavano solo le accezioni di «merce dozzinale, ciarpame, paccottiglia» e di «chiacchiera senza alcun fondamento o significato», considerandola «voce onomatopeica di origine lombarda», con ciò disconoscendo il significato originario di «ingarbugliamento dei fili di una matassa» dal toscano «fuffigno», come correttamente segnalato solo dal De Mauro. Poi, d’un tratto, il termine appare in ogni dove, e così per due o tre lustri, mentre oggi, invece, s’usa assai meno. Diremmo stia lentamente scivolando nel démodé.
Démodé? Possiamo sussumere nelle leggi della moda il processo che traccia la parabola di popolarità di questi termini? Se sì, non è difficile capire cosa ne decreti il declino: il lemma non ha le caratteristiche necessarie per diventare un classico e, al pari del capo di vestiario che non riesce a diventare un must nel guardaroba, viene dismesso appena ha smesso di esser trendy. Ma cosa ne decreta il successo? Qui le leggi della moda sono imperscrutabili, consentono solo di essere intuite. Per fuffa, restando al nostro esempio, deve aver senza dubbio avuto un peso il fatto che il lemma suona bene, è insieme buffo e incisivo, dà efficace colore al suo significato. In tal senso si apparenta alla locuzione francese à gogo, che ebbe grande popolarità nei primi anni Settanta, basta sfogliare i quotidiani e le riviste dell’epoca per ritrovarsela dovunque. Ma cosa decreta il successo di termini che non hanno queste caratteristiche? Perché d’un tratto escono dall’ombra per vivere la loro breve stagione di gloria? Se mi si fa passare la metafora, accade che dal baule degli abiti sotto naftalina ne venga tirato fuori uno preconfezionato che riserva la piacevole sorpresa della vestibilità di quello su misura. Fuor di metafora: è la costellazione dei tratti che fanno il significato a cercare un significante, e a trovarlo, quasi per caso, scoprendolo sorprendentemente aderente. In altri termini, la realtà produce un evento, dà vita a un modello, si struttura in una situazione, che non riescono a farsi bastare nemmeno in perifrasi i 300 o i 1.000 lemmi più comunemente usati per darsi un’adeguata definizione; poi, all’improvviso, dal dizionario spunta il lemma che in due o tre sillabe riesce a darne la sostanza per intero.
Anche qui non sarà inutile ricorrere a un esempio. Prenderemo il termine cialtrone che da alcuni mesi furoreggia dappertutto.

Nella persona del cialtrone confluiscono ben sei caratteri, e tutti ben distinti, come è reso evidente dallimpossibilità di trovare sovrapposizione o interscambialità tra i relativi sinomini:
- è innanzitutto persona che mostra assai poca correttezza nei confronti del prossimo, e senza farsi scrupolo di arrivare al dolo (è imbroglione, mascalzone, furfante, lestofante, ecc.);
- né si dà cura nel conferire almeno un minimo di plausibilità all’impostura, che è lo strumento di cui fa più frequente uso (è impudente, volgare, sfacciato, villano, ecc.);
- impostura che è quasi interamente affidata alla sua ciarla (è linguacciuto, parolaio, vaniloquente, ecc.);
- un ciarlare che per lo più è un millantare (è spaccone, pallista, borioso, spocchioso, ecc.), e che si rivela tale nella vistosità di due difetti:
- il cialtrone è sciatto, trasandato, pasticcione, abborracciatore, ciabattone, ecc.;
-  ed è indolente, fannullone, poltrone, scansafatiche, ecc.
Detimo incerto, cè chi ipotizza sia un incrocio tra ciarlone e poltrone (De Mauro, Devoto-Oli, Casalegno-Goffi), ma è evidente che la sua persona non possa esaurirsi in questi due soli aspetti, sicché, se fosse esatta lipotesi, si dovrebbe supporre che la persona del cialtrone sia venuta a costruirsi attorno a quel nucleo. Cosa le avrebbe conferito il resto? Dar carriera a quei due vizi morali: da ciarlone farsi ciarlatano, riscoprire in poltrone la variante di paltone (accattone), diventare impostura ambulante per il mondo, tra immeritate fortune e rovinosi rovesci, per guadagnare linfamia della persona «di volgarità sudicia e moralmente vile» (Tommaseo), «volgare e spregevole, priva di serietà e correttezza nei rapporti umani o che manca di parola negli affari» (Devoto-Oli), che «ricorre a trucchi scoperti per giustificarsi» (Sabatini-Coletti).
Tanto scoperti, i suoi trucchi, da rendere di regola la sua impostura assai irritante, ma talvolta anche divertente. Nel primo caso, il cialtrone è sentito come minaccia sociale, perché della risma dei gabbapopoli (un esempio ne Il viaggio di un ignorante di Giovanni Rajberti, del 1854, dove il cialtrone è per la prima volta accostato al populista, ovviamente ante litteram); nel secondo, la maldestrezza dei suoi mezzucci muove a una sorta di tenerezza (si pensi al «sofisticato cialtrone» affibbiato a Vincino nel necrologio de Il Foglio). Diremmo che labiezione che bolla il cialtrone mira a condannare innanzitutto loffesa che ci fa col ritenere di poterci abbindolare con eccessiva facilità: è un impostore che sottovaluta le nostre capacità di difesa allimpostura, e dunque merita due volte il nostro disprezzo.

Qui possiamo richiamare lassunto relativo alle ragioni che decretano limprovviso ed enorme successo che un termine inconsueto o desueto viene a riscuotere in un determinato momento, chiedendoci quale sia levento, il modello, la situazione che trovano in cialtrone la felice soluzione lessicale. Domanda superflua, basta considerare in quale contesto si registra la più frequente ricorrenza del termine: cialtroni sono i grillini: imbroglioni e villani, parolai e spacconi, fannulloni e pasticcioni.
Se il lettore ha avuto la pazienza di arrivare fin qui, potrà dare un senso al brano tratto da Il bell’Antonio di Vitaliano Brancati posto in esergo, chiedersi se la soluzione lessicale, di cui qui si è cercato di spiegare la ragione, non esprima nel profondo un bisogno di «bestialità fatte bene»


5 commenti:

  1. Ho assistito, qualche settimana fa, a un'interessantissima conferenza di Umberto Galimberti, il quale, tra i tanti argomenti trattati, tutti attinenti al tema dell'importanza della parola, oltre a riportare i dati citati anche da lei sulla conoscenza media lessicale, ha detto che noi riusciamo a pensare limitatamente alla conoscenza di lemmi che possediamo. Più semplicemente, è impossibile elaborare un ragionamento o un pensiero se non si conoscono le parole per costruirlo ed esternarlo. E questo mi pare spieghi molte cose relativamente all'andamento della società odierna.

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    1. Riprende alcune delle tesi espresse da Klemperer in "LTI, La lingua del Terzo Reich”

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    2. Mai visto Galimberti esprimere un concetto originale.

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  2. Sì, probabilmente lei ha ragione, c'è un gran bisogno di bestialità fatte bene: si confida dunque che le facciano altri, visto che cialtroni siamo anzitutto noi stessi.
    Preciso di amare il termine cialtrone dal 1998, anno di pubblicazione di "Chaltron Hescon" del compianto Tommaso Labranca.
    Stia bene. sempre utile passar di qua.
    Ghino La Ganga

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