venerdì 17 gennaio 2020

Potrebbero derivarne problemi


Per un editoriale a sua firma, apparso sul Corriere della Sera di sabato 11 gennaio (Il razzismo e i suoi confini), Ernesto Galli della Loggia è stato fatto oggetto di molte critiche, che evidentemente aveva messo in conto, perché le rigettava in anticipo, laddove, in chiusa al testo, faceva cenno a quell’«algido idealismo che affida tutta la sua capacità di convinzione alla forza del tabù che per ogni persona civilizzata rappresenta l’accusa di razzismo».
Per come gran parte delle critiche al suo editoriale sono state argomentate, si è costretti a dargli ragione, perché a muovergli laccusa di criptorazzismo è parso potesse bastare quel suo aver fatto cenno alla percezione di diversità che si può trarre dal confronto con l«altro» come a «un dato normale dei comportamenti umani»: cosa, infatti, se non un «algido idealismo», può ardire a criminalizzare ciò che è «umano» perché «normale» e/o viceversa?

Largomento è delicato e non voglio lasciar adito a fraintendimenti, quindi chiarisco subito la mia posizione riguardo a questo aspetto, e lo faccio avanzando unipotesi.
Io credo che Galli della Loggia non si sia solo limitato a mettere in conto le critiche al suo editoriale, ma abbia anche cercato di fare in modo che fossero tali da poter essere agevolmente, a suo parere, rigettate come espressione di quegli «alti principi» che guardano all«umanità» e alla «normalità» come a «bassi istinti». «Alti principi» e «bassi istinti», infatti, sono proprio le locuzioni che sceglie, virgolettandole nel testo, per rappresentare il conflitto dal quale i primi corrono il rischio di uscire sconfitti, sicché il suo editoriale pone una questione fondamentalmente tattica: a una «politica [che] è sempre tentata di sfruttare, esasperandolo, il dato culturale-identitario, dal momento che essa vede in ciò la possibilità di fare appello alla nostra parte meno razionale, di sollecitare le nostre reazioni più immediate e magari sconsiderate», è sensato opporre solo «la forza del tabù»?
Domanda retorica, come è ovvio, e noi sappiamo che una domanda retorica mira sempre ad ottenere una risposta predeterminata. Se qui chiede e ottiene il nostro «no», è chiaro che diventa possibile e per certi versi addirittura necessaria una mediazione tra «alti principi» e «bassi istinti», una terza posizione che non criminalizzi la percezione di diversità dell«altro», a patto che da essa non discendano «misure a qualunque titolo discriminatorie».
Certo – concede Galli della Loggia – siamo in presenza di razzismo «quando con atti o con parole ci si comporta verso chi non condivide la nostra cultura in un modo che ci guarderemmo bene da adoperare con coloro che invece la condividono», ma è conveniente prima che legittimo – o, a piacere, è legittimo prima che conveniente – stigmatizzare come razzista l«umanità» e la «normalità» di quella percezione di diversità?

Altra domanda retorica. Qui la risposta suggerita come la sola possibile è un po più articolata: «denunciarla come razzista rischia solo di fare il gioco del nemico dal momento che molte persone ingenue si diranno: se questo è razzismo, ebbene io allora sono razzista». Convincente? Occorre un chiarimento. Indispensabile a procedere, come vedrete.
Questultimo virgolettato, infatti, come un altro più sopra riportato («un dato normale dei comportamenti umani»), sono nel corpo del testo pubblicato dal Corriere della Sera, ma tratti da un volume di Claude Lévi-Strauss (più propriamente da una sua conversazione con Didier Eribon, edita in Francia nel 1988, per i tipi di Odile Jacob, col titolo De près et de loin), che Galli della Loggia ha ritenuto poter addurre a incontestabile argumentum ab auctoritate. In sostanza, la risposta predeterminata che qui ci era richiesta coincideva col doveroso assenso al parere di quello che i dizionari enciclopedici definiscono «padre dellantropologia».
Indispensabile, questo chiarimento, ad introdurre la più argomentata delle critiche alleditoriale di Galli della Loggia, che infatti è stata prontamente mutuata da chiunque ha avvertito che non si potesse dargli torto opponendo solo «la forza del tabù». Mi riferisco a ciò che ha scritto Piero Vereni, «antropologo, professore associato allUniversità di Roma Tor Vergata», come apprendo dalla homepage del suo blog, Fuori tempo massimo: il suo post è divenuto in breve argumentum ab auctoritate di chi altrimenti avrebbe dovuto accontentarsi di costruire lipotesi accusatoria di criptorazzismo solo sulla base di alcune pur infelicissime immagini prodotte da Galli della Loggia a esempio di percezione di diversità dell«altro», che in quanto espressioni di stereotipi, peraltro anche abbastanza logori, avevano in radice il vizio della generalizzazione e del pregiudizio («non volere avere troppo a che fare con i nigeriani, dico per dire, a causa del loro modo di fare, o sentirsi infastiditi dall’odore del cibo cucinato dai bengalesi, o trovare sgradevole l’idea di avere dei vicini di casa rom»).

Quanto sia stato letto con attenzione, il Vereni, non ha importanza, contava che, da antropologo, potesse offrirsi ad argumentum ab auctoritate a destituire di auctoritas largumentum ab auctoritate scelto da Galli della Loggia. E in questo, occorre dire, non si è risparmiato, perché quasi la metà delle sue 26.653 battute spazi inclusi è spesa a dirci che quello di De près et de loin è un Lévi-Strauss ultra-ottantenne e semi-rincoglionito, «rincantucciato in un conservatorismo imbarazzante, che gli veniva benevolmente concesso, almeno in Francia, per la grandiosità di quel che aveva pensato e scritto fino agli anni Settanta», e che il volume stesso altro non è che «un piccolo esercizio di furbizia editoriale, che immagino Eribon abbia saputo sfruttare per la sua carriera accademica».
Sarà che i maldicenti pettegolezzi degli accademici sono sempre molto più affascinanti di quelli delle shampiste, ma almeno a me il Vereni ha dato limpressione di sapere il fatto suo.
Poi, però, cè che l’impressione non basta, e per una diagnosi di semi-infermità mentale, per una condanna al ludibrio per posizioni ideologiche, è possibile venga voglia di argomenti, e uno non ne trovi di convincenti. Però almeno trova le ragioni per le quali Lévi-Strauss avrebbe torto, e con lui ovviamente anche Galli della Loggia. Vale la pena darci un’occhiata.
È che entrambi hanno un errato concetto di cultura: le attribuiscono due caratteristiche (compattezza interna e distinzione) che non hanno e non possono avere.
«Oggi – scrive il Vereni – l’antropologia culturale non vede più le culture come entità separate e nettamente distinte, ma dispone “il culturale” in un continuo che non è meno significativo né meno distintivo per il fatto che, oggettivamente, non consente la tracciatura di confini oggettivi nitidi. Ogni individuo dispone di porzioni di quella che lui considera “la sua cultura” ma contemporaneamente dispone di porzioni di culture “altre”, senza eccezioni».
Se però è così che stanno le cose, il problema non è solo il vecchio Lévi-Strauss: in quale opera del giovane Lévi-Strauss, infatti, vè cenno a questo «continuo culturale» che renderebbe immotivata, se non per pregiudizio criptorazzista, la percezione di diversità che un cacciatore nambikwara del Mato Grosso può avvertire dinanzi a un ragioniere brianzolo e viceversa? E allora che senso aveva calcare tanto la mano sulla vecchiaia del Lévi-Strauss di cui si serve Galli della Loggia? Bastava dire che, sì, sarà stato pure il «padre dellantropologia», ma poi quella è cresciuta e lha ripudiato.

Ma cè di più. Volendo, infatti, recepire in toto la critica a un concetto di cultura cui si attribuiscano stati danimo e sentimenti autonomi – in realtà solo per metonimia, perché è evidente che questi sentimenti e stati d’animo sono attribuiti a chi si percepisce, a torto o a ragione, in un distinto perimetro culturale – in che modo pensiamo di poter fare i conti con la percezione di diversità che il cacciatore del Mato Grosso può avvertire rispetto al ragioniere di Monza, e viceversa? Più in generale, il concetto di cultura che il Vereni ci assicura essere quello genuino consente ancora, chessò, a un forlivese di poter dire che un certo tipo di cucina – bengalese o meno – non gli aggrada? Potrà scappargli ancora di dire, distinto, che trova più graziosi i genitali femminili al naturale che dopo uninfibulazione?
Perché è chiaro che dopo la lectio magistralis del Vereni nessuno oserà più disegnare confini netti tra cultura e cultura, ma poi può darsi che nel «continuo culturale» a qualcuno possa scappare lo stesso di cogliere un «di qua» e un «di là» e dallarco riflesso del nostro aggiornatissimo concetto di cultura possa partire il dardo di unaccusa di criptorazzismo. Ho come il presentimento che potrebbero derivarne problemi.


4 commenti:

  1. Sono andato a leggere il testo del Vereni. Mi è sembrato un po’ greve l’espediente di travestirlo da “lettera che ho pensato per i miei colleghi e le mie colleghe antropologhe”. D’altra parte, da S.Paolo a Don Milani, l’epistola resa pubblica è genere letterario di successo. Per quanto riguarda le argomentazioni, dico solo che il linguaggio inutilmente abrasivo contrasta con la rivendicazione di autorevolezza scientifica. Ma poi c’è la chiusa, la chiusa. Si parte da una retorica assunzione di responsabilità (non abbiamo spiegato abbastanza, noi antropologi) ma poi si va subito sul pedagogico: d’ora in poi vi insegniamo noi a pensare, pezzi di merda.
    Niente olio di ricino, per fortuna.

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  2. In effetti l'olio di ricino è stato un prodotto culturale tutto italiano, se non ricordo male.
    Che il Vereni consideri poi "pezzi di merda" parte dei suoi lettori è tutto da provare,mentre per quel che mi riguarda ,personalmente non ho mai avuto problemi,all'interno della mia cultura a provare simili considerazioni,senza andare troppo lontano.

    caino

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  3. Aggiungerei un tema che mi sembra dirimente. Se quell'idiosincrasia personale che ognuno di noi ha per quanto è diverso da sé la chiamiamo razzismo, è chiaro che si può arrivare a dire che tutti siamo razzisti. Ma si tratta di una condizione dinamica e spesso temporanea, per cui chi oggi disprezza l'odore del cibo bengalese può arrivare a apprezzarlo, col tempo, familiarizzandosene. E, facendo un esempio a capocchia, con tutti i problemi di allergie che ci sono in giro, precludersi un cibo soltanto per motivi etnici, quando potrebbe essere l'unico che siamo in grado di tollerare, potrebbe non essere una buona scelta. Differente mi pare la scelta di fare di questa idiosincrasia personale un fatto politico. A quel punto, i confini mi pare tornino abbastanza chiari. E non vale accusare di ipocrisia chi, pur idiosincratico nel personale (diciamo pure razzista), faccia una scelta politica che non vada in quella direzione. Come pure mi sembra irrilevante stabilire se Salvini sia davvero più razzista dei suoi avversari, quando è chiaro che la sua scelta è appunto politica. Potrebbe addirittura fargli schifo fare discorsi razzisti. Ma Parigi val bene una messa, qualunque sia la religione che si abbraccia.

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