venerdì 15 maggio 2020

Dieci splendidi oggetti morti


Marx chiude il primo capitolo del primo libro del Capitale col celeberrimo paragrafo sul carattere feticistico della merce (Der Fetischcharakter der Ware und sein Geheimnis). Dice che, a un primo colpo docchio, la merce sembra cosa prosaica, tutta conclusa nella sua autoevidenza, ma che ad analizzarla si rivela come cosa intricatissima (sehr vertracktes), piena di sottigliezze metafisiche (metaphysischer Spitzfindigkeit) e di allusioni teologiche (theologischer Mucken). Finché è valore duso, infatti, non ha alcunché di misterioso – è un prodotto del lavoro umano, e soddisfa questo o quel bisogno umano, stop – e tuttavia chi può negare che in essa vi sia un che di sensibilmente sovrasensibile (sinnlich übersinnliches)? Bene, da cosa le deriverebbe questo tratto, che Marx arriva addirittura a definire mistico (mystische Charakter)? Mantenetevi forte: «Dalla sua stessa forma». E cioè? «Il mistero della forma della merce sta semplicemente nel fatto che tale merce restituisce agli uomini, come in uno specchio, limmagine delle caratteristiche sociali del loro lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e perciò restituisce anche limmagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo sembrare come un rapporto sociale tra oggetti che esista al di fuori di loro». In sostanza, se il valore di scambio di una cosa, e cioè la forma che di un qualsiasi prodotto del lavoro umano fa una merce, sta nella quantità di lavoro socialmente necessario a produrla, e se questa quantità di lavoro indica quanto delluomo che materialmente lha prodotta è stato alienato in favore di chi ne è il proprietario, il prezzo che chi l’acquista ritiene congruo, e cioè il valore di mercato, gronda del sangue che il primo ha succhiato al secondo: nel fascino che quell’oggetto esercita su chi lo acquista c’è la venerazione per quel dio che esige, e ottiene, quel tributo di sangue. Un dio che potrà anche avere il suo fascino, ma di sangue si nutre.
Prendo in mano, per esempio, la Montblanc che nel 1980 fu il regalo di laurea che ebbi in dono dalla mia fidanzata di allora, e che oggi è uno splendido oggetto morto (e parlo della penna, perché della ex non ho notizia da più di trentanni), un modello in numero limitato, lacca cinese, pennino in oro deliziosamente istoriato: dovrei vederci innanzitutto il costo di allora, quasi un milione delle vecchie lire; e poi pensare al plus-valore che lazienda di Amburgo sottrasse ai suoi operai, meglio se calcolandolo in marchi tedeschi; per poi passare a considerarne il suo Fetischcharakter come effetto di una proiezione (il ruolo delloggetto di lusso nellItalia degli anni Ottanta, per esempio); per così giungere, infine, a cogliere nella vita che fu delloggetto, quella di là da produzione, vendita, acquisto e possesso, la forma fantasmagorica (phantasmagorische Form) dellingarbugliata matassa di relazioni sociali di cui è il proiettato. Ecco, allora, perché Marx insiste tanto sul feticcio come simulacro di un dio: come «i prodotti della testa umana [idoli, idee, ma anche disegno, e cioè design] sembrano essere dotati di una propria vita, figure indipendenti che sono in rapporto tra di loro e con gli uomini» – dice – così «i prodotti della mano umana» ci appaiono ingannevolmente nella dimensione di «rapporti di cose tra persone» e di «rapporti sociali tra cose», mentre invece stanno in quella di un «determinato rapporto sociale tra gli uomini».

Convincente? Tutto sta nelladerire o meno alla rigida distinzione che Marx fa tra valore duso e valore di scambio, e nel sottoscrivere o meno lasserto che «il carattere mistico della merce non deriva dal suo valore duso», ma da quello di scambio, un po come accade col denaro, che pure può essere feticcio, e proprio in quanto particolarissimo tipo di merce priva di un valore d’uso. Bene – ripeto – vi convince? A me non tanto, ma probabilmente è perché ho metabolizzato male un trauma infantile. Avrò avuto nove o dieci anni, infatti, quando, aprendo con le forbicine un bottone foderato di stoffa che avevo staccato da un vecchio paltò di mia nonna, vi trovai dentro una moneta da cinque lire: banalmente, il produttore aveva ritenuto più conveniente usare quella piuttosto che una rondella metallica. Solo qualche tempo dopo seppi che il supporto rigido allinterno di un bottone foderato è detto «anima», ma fu comunque prima di arrivare alla pagina di Marx sul Fetischcharakter der Ware, e questo forse spiega perché, leggendola, ripensai alla monetina cui era stato dato un valore duso, sottraendole del tutto quello di scambio, e il bimbo di quel pomeriggio dei primi anni Sessanta muscì dal petto e con veemenza protestò: «E il bottone di nonna, allora?». E niente di lì in poi riuscì a rendermela convincente, neppure le gran belle glosse, e toste, di Rubin, Benjamin, Baudrillard e Derrida.
A dare, però, una mazzata definitiva a Marx – e a Rubin, Benjamin, Baudrillard e Derrida – è stato, qualche giorno fa, Dieci splendidi oggetti morti di Massimo Mantellini (Einaudi, 2020), che fin dal titolo, daltronde, non fa mistero di rigettare la tesi che, di là dallinorganica realtà del loro valore duso, agli oggetti riconosce esclusivamente un proiettato di vita alienata: in quanto «morti», è evidente che i dieci oggetti – undici, anzi, di cui uno, però, ancora vivo – abbiano vissuto una vita vera, fuor dogni astrazione, al centro di «rapporti di cose tra persone» e di «rapporti sociali tra cose». Fin dalla prima di copertina, infatti, si fa presente che «questo libro parla di loro e dunque di noi». Quel «dunque» sembra buttato lì per caso, ma ha la potenza di un assunto. E quel «loro»? Certo, come pronome va bene pure se riferito a cose inanimate, ma è un caso che sia stato preferito a «essi»? Sono solo indizi, ma inequivocabili: gli oggetti compongono una costellazione autobiografica. E arrivo, così, all’ultima pagina di Dieci splendidi oggetti morti, finalmente persuaso che Marx sbagliasse.

Non vorrei, però, che introdurre a questo modo la mia recensioncella dellultima fatica del Mantellini portasse fuori strada chi mi legge: al pari dei suoi due lavori precedenti (La vista da qui – minimum fax, 2014; Bassa risoluzione – Einaudi, 2018), Dieci splendidi oggetti morti è anche un saggio, ma, come gli altri due, non è uno di quei libroni zeppi del sopracciò che, dopo averti tolto il fiato col waterboarding di frasi lunghe tre pagine e averti inflitto scosse elettriche ai coglioni con schemi, tabelle e diagrammi, ti puntano un’aguzza tesi al gargarozzo intimandoti: «Annuisci, stronzo, sennò sei un uomo morto!». Quasi non sembra abbia una tesi, invece, e infatti si fa avanti come uno di quei vacui libricini da intrattenimento che oggi vanno di moda, tutto collage di curiosità e aneddoti, carinerie e arguzie, che sembrano voler sedurre chi li legge facendogli dire: «Caspiterina, questo l’ho pensato anch’io, ma mica sono stato capace di rappresentarmelo in modo tanto efficace!». Tutta apparenza, drago d’un Mantellini, perché, sotto un lessico assai brillante e un periodare assai scorrevole, come da apericena, Dieci splendidi oggetti morti ha la solidità e la profondità di un classico, da porre sullo scaffale tra Le mots et les choses di Michel Foucault e Logique du sens di Gilles Deleuze. E tanto più stupisce, tanto più incanta per lelegante disinvoltura con la quale dà soluzione a questioni che hanno fatto invano scimunire anche quegli spocchiosi della Scuola di Francoforte, constatando che riesce a scioglierle senza nemmeno formularle, e in sole centocinquantadue pagine, poco più di due etti.
Niente scatarrate di note a pie di pagina (qui e lì qualcuna, certo, ma solo come tributo alla collana), e citazioni, sì, ma quasi tutte relative ad autori vivi o morti da non più di mezzo secolo (fatta eccezione per un Platone ed un Flaubert che hanno comunque croccanza liceale), e nessun indice dei nomi, nessun sommario delle voci bibliografiche, nulla della stantìa archeologia degli oggetti come reperti: la penna, per esempio, sta tutta in questo «mio tratto incerto messo sulla carta» (pag. 29). E qui mi pare occorra un primo doveroso grazie al Mantellini, che ci risparmia la preistoria e storia della biro, per trasfigurarle in mitopoietica: «la morte delloggetto penna è anche, un po, la morte di una parte di me» (pag. 30). Si colga il tepore di quell«un po» e lo si compari allalgido «ora vi dico» di tanti saggi su questo o quelloggetto, chessò, faccio per dire, la Storia del bidet di Luciano Spadanuda (Castelvecchi, 1998), dove al bidet si arriva con «il marchese dArgesson [che] una mattina si recò a far visita, a Parigi, a madame de Prie e fu testimone di uno spettacolo imprevisto e sorprendente [ed] era il 1726...». Come se in Proust leggessimo: «Si ha notizia per la prima volta delle petites madeleines in un manuale di pasticceria del 1648...». Il Mantellini ci risparmia questo orrore, non ci rifila la storia di Lazlo Biro che trae lidea della penna sfera dalla traccia di fango lasciata sulla neve dalle biglie con le quali dei ragazzini stanno giocando nelle vie di Budapest: la penna è quella del 1967, quella degli «esercizi calligrafici e le macchie sul banco» (pag. 32).
Sono queste incursioni autobiografiche – peraltro assai discrete, quasi pudiche – che fanno il sottotesto di Dieci splendidi oggetti morti, rendendo inutile il pesante armamentario argomentativo del saggista comme il faut: «La bic, la reflex, il vinile... – par dudire – Macché feticci, erano vivi! Avevano unanima, e il tempo, inesorabile, ce li ha portati via». E, voilà, la cosa ci convince. Non si commetta, però, lerrore di credere che il Mantellini ci accompagni per mano in un mercatino delle pulci o, peggio, in un museo degli oggetti duso quotidiano nel Novecento: nessuna operazione-nostalgia, perché quando si è lì per scivolare nella melassa del passatismo, drago dun Mantellini, ne siamo tratti via per stargli dietro nei suoi instancabili girovagare per le brulicanti metropoli della post-modernità, comunque rinfrancati da incantevoli parentesi dotium, cui dà location degne di Architectural Digest. Qui, ammessi ad unintimità che emana una fragranza fresca e agrumata, qui e lì screziata da note di lavanda, godiamo di un Umanesimo che, fatte le dovute differenze, ricorda molto quello del Petrarca.

È solo alla seconda lettura – la prima lho sprecata per trovarvi lessay – che Dieci splendidi oggetti morti mi ha aperto gli occhi sulla straordinaria capacità del Mantellini di pizzicare le corde giuste nel lettore al quale si rivolge. Non vi stupisca chio parli di un lettore particolare dopo aver appena detto che il libricino respira dUmanesimo, perché, almeno in questo, Marx ha ragione: un idealtipo duomo che si immagini conserva intatta la sua «anima» sotto la sempre diversa fodera dei tempi – semplicemente – non esiste. Perciò citavo Petrarca, uomo di mondo quanto non mai, perfetto anteprototipo del weberiano Wissenschaft als Beruf, che nel selfie ci tiene ad apparirci «solo et pensoso» sullo sfondo de «più deserti campi» anche se intanto gira come una trottolina in tutta Europa a curare gli interessi diplomatici dei Colonna: non ha importanza se lo sapesse o meno – anche a posteriori è questione che lascia il tempo che trova – ma il suo pubblico non era un uomo fuori dal tempo, semmai un uomo saldamente – comodamente, diremmo – piantato nel tempo da venire, e dunque un idealtipo di lettore che è universale nel modo in cui lesprit du temps sa immaginarsi luniversalità. È dalluniverso culturale di Mantellini, dunque, che vien fuori il suo lettore ideale. Il primo analogo che mi viene in mente è il Massini di Piazza Pulita, che però rispetto a Mantellini è troppo ipertiroideo. In Dieci splendidi oggetti morti non cè traccia di esaltazione, non cè inciampo nellenfasi: il pubblico cui si rivolge è lo stesso che non perde un appuntamento del giovedì su La7, ma sa che col Mantellini è fuori luogo – perfino sconveniente – accelerare il battito. D’altronde, il Mantellini è così anche dal vivo, mite, misurato, gentile ma senza affettazione, ironico ma mai sarcastico, sensibilissimo ma mai svenevole, anglosassone più che latino, un bon bourgeois dalle passioni intelligentemente sorvegliate. Del tutto naturale, quindi, che gusti, inclinazioni, propensioni – quel che ci guida verso questo o quello scaffale, ci porta ad ascoltare questo o quel brano musicale, ecc. – siano raccolti in quello spazio di distribuzione che la statistica chiama «moda», anche se parliamo di gusti, inclinazioni, propensioni di quel ceto che un tempo veniva detta «aristocrazia operaia».
Alto e basso, nel Mantellini, si sposano benissimo: De Gregori non fa a pugni con Eraclito, né Peter Gabriel con John Cage, i telefoni pubblici di Manhattan hanno la forma che ricorda («un po») la stele di Rosetta, lultimo frame che Opportunity ha inviato da Marte è un Rothko, e così via. Altrettanto avviene con le evocazioni, che hanno anche maggiore potenza delle citazioni, soprattutto quando danno limpressione di essere involontarie. «Servono braccia grandi per dispiegare la carta stradale del Nord Italia...» (pag. 3): è un caso che Dieci splendidi oggetti morti ci accolga aprendoci queste «braccia grandi» che fanno eco alle «grandi braccia, grandi mani avrò per te» di Mina? Non lo sapremo mai, ma intanto levocazione cè, e la canzone è proprio del periodo in cui sulla carta Michelin ci cerca la strada per arrivare dove «i nostri genitori stanno portando me e mia sorella per le vacanze estive». «Siamo fermi in un autogrill o in una stazione di rifornimento. Il motore dellauto si sta raffreddando (dice mio padre che una volta allora è meglio fermarsi un po (pag. 4): dettagli in apparenza insignificanti, ma che costruiscono unatmofera, peraltro assai simile al «dolcemente viaggiare / rallentando per poi accelerare /gentilmente senza strappi al motore», che è più meno dello stesso periodo. Una straordinaria tavolozza di immagini ed emozioni, non cè che dire. Alla fin fine, cosa ci importa se leffetto sia studiato o casuale? Con due pennellate, il Mantellini si presenta, e ci seduce: sono figlio di un padre saggio e prudente, salite a bordo, si parte. La se-duzione, d’altronde, con-duce.

In ogni saggio c’è l’immancabile momento in cui l’autore cita una sua opera precedente. C’è modo e modo ovviamente, e non di rado è fastidioso, ma anche su questo punto occorre spendere una lode: un «bassa risoluzione» (in corsivo nel testo), a pag. 58, sta a impercettibile ammicco, mentre di La vista da qui è ripresa la tesi che il medium non è il messaggio nella incidentale affermazione che «la tecnologia è una forma di ragionamento che va a sostituirne un altro» (pag. 36). Una discrezione, una grazia, che, al confronto, le autocitazioni dei Beatles risultano pacchianate. Al confronto, perfino un cameo di Hitchcock in uno dei suoi film diventa fastidiosa intrusione. 

[...]

Qui metto da parte le altre note che avevo appuntato e vi lascio alla lettura di Dieci splendidi oggetti morti, di cui vi consiglio caldamente l’acquisto. Un’ultima cosa, però. A pag. 101, citando il Roland Barthes di Mythologies (1957), l’oggetto appare come «miglior portatore del soprannaturale». Seppur di sponda, dunque, la questione del Fetischcharakter der Ware è affrontata, ovviamente rigettandola, e abbiamo visto con quale atto di fede. Non si deve tuttavia commettere lerrore di credere che i feticci di cui ci parla il Mantellini affollino un Pantheon di tipo pagano o animista, perché, quando si chiede quale sia loggetto che al meglio rappresenta «le caratteristiche di grandiosità e mistero», la risposta è: «linsieme di tutte le tecnologie che hanno abolito i fili […] le molte tecnologie che, sempre più spesso, avvolgono la propria funzione con un mantello di invisibilità. Il momento in cui, fra causa ed effetto, si spande quellistante di assoluto silenzio. O di buio improvviso» (pag. 102). Latmosfera sembra tardo-ellenistica, si avverte una tensione al monoteismo, al Grande Feticcio che tutto prende e pervade. Anche per questo, Dieci splendidi oggetti morti è un testo che rimarrà.

7 commenti:

  1. Se mai dovessi scrivere un libro (un po' saggio e un po' no), per vie traverse (o diritte) pubblicato Einaudi, porrei come clausola all'editore il non fartene mai avere una copia, neanche a pagamento su Amazon o quella libreria Feltrinelli che sai tu.

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    1. Oh, Gesù, e perché? Non scrivevo una recensione tanto benevola da anni.

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  2. Deliziosa "recensioncella", tutta giocata sulla linea sottile che separa l'ironia dall'empatia.
    E ora, a proposito degli oggetti morti, mi ritrovo a pensare (alla maniera di Georges Perec) ai miei particolari "Je me souviens":
    i miserabilii Vicolo Stretto e Vicolo Corto e l'aristocratico Parco della Vittoria, la Simca 1000, la Lettera 22, "Metti un tigre nel motore", i Quaderni Piacentini, Don Marino Barreto,
    Alberto Tomba, Silvio Noto, Van Wood, le Clarks Desert Boots, Campanile Sera, Alto Gradimento, l'aeronave Napoli.Capri a 2500 lire, il Settebello Milano-Roma, la Canasta, i Gufi, Alighiero Noschese, il Gruppo '63, il montgomery, il borsello.....continui chi vuole.



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    1. Recensione straordinaria. Non mi aspettavo di trovare in questo libro uno sgominatore di materialisti dialettici, ora l'acquisto è d'obbligo.

      Non saprei dire se anche il recensore sia "gentile ma senza affettazione, ironico ma mai sarcastico"!

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  3. Grazie per la bellissima esposizione.
    Gli oggetti morti, ma non solo mi hanno portato alla memoria un raccontino di Màrio Chàkkas, (Makrakomi, Fthiotis 1931 Atene 1972): Il bidè;
    Ci eravamo corrotti dentro senza rendercene conto. Quel bagno di lusso con l'insegna nobiliare dell'ippocampo sulle piastrelle, un'anatra con gli anatroccoli, cigni e pesci esotici, lavabo, tazza, vasca, bidè, soprabidè, tutto scintillante, avevano fatto la loro parte subdolamente, avevano scavato in profondità dentro di noi da termiti, come il tarlo nel legno, e ora ci sentivamo vuoti.

    Ricordo quando ero venuto ad Atene dalla provincia per la prima volta, e avevo affittato una camera senza gabinetto. Naturalmente c'era un gabinetto di fortuna nel cortile, ma bisognava scendere una scala buia, che scricchiolava e metteva tutti in agitazione. Una notte che pioveva e che mi prese il mal di pancia a mezzanotte, la feci in un giornale, e dopo averla impacchettata ben bene, ci avevo messo perfino un nastrino col fiocchetto, la mattina dopo sul presto, andando a lavorare, la lasciai in mezzo alla strada. Vi ricorderete certamente quanti pacchetti del genere si incontravano allora per le strade. Certuni li prendevano a calci per indovinarne il contenuto. Si dice che un tale lo portò alla polizia senza aprirlo, e chiedeva una ricompensa per il ritrovamento. Be', un pacchetto del genere lo feci anch'io, una volta, e anche adesso mi viene in mente, dopo tanti anni, mi viene da ridere.

    A quei tempi ero una persona allegra con pochi bisogni. Mi facevo la barba solo due volte la settimana, quando avevo appuntamento sulla collinetta con una ragazza, che aveva sempre fretta di tornare a casa. Veniva sempre di sfuggita, e aveva un fratello severo, con una mentalità da siciliano. Allora io me la sposai. Cosa dovevo fare? Piuttosto che farle prendere botte ogni volta che ritardava. Del resto, questo è il destino dell'umanità, almeno così si dice. Comunque, fra una cosa e l'altra, mi ritrovai con tutti i bottoni ben attaccati, anche quello è un vantaggio, anche quello è una sicurezza. Che camicie stirate, i primi tempi, che biancheria pulita, scarpe lucide, tutto perfetto, come si suol dire.

    Aveva anche una casetta del suo, una stanza sola, ma un cortile grande. A poco a poco, con le nostre economie, costruimmo la cucina e le altre camere. In generale, facemmo strada. Prendemmo frigorifero, lavatrice, e la vita diventava sempre più comoda.

    Solo nel gabinetto restammo indietro. In fondo al cortile, dentro una baracchetta, c'era un cesso alla turca, che mi costringeva tutte le mattine a sedermi sulle caviglie, anche se era un buon esercizio, dato che non avevo l'abitudine di far ginnastica. Nella baracchetta c'era anche un piccolo serbatoio di latta col rubinetto, che tutte le mattine riempivo per lavarmi. Bagno nel mastello del bucato. Tutti i sabato sera cominciava l'avventura. Mia moglie mi ficcava nel mastello e sfregava fino a spellarmi. Non importa.

    Continuai a far strada. Aiuto contabile, pagavo ancora la camera da letto, mobilio pesante con comodini e paralume, cielo sul mio e rosa su quello della signora. Poi diventai contabile, quando prendemmo anche quel piccolo terreno a rate. Ci piantammo addirittura due o tre alberi, che in principio, su insistenza di mia moglie, andavo ad annaffiare ogni domenica. Poi si seccarono anche loro, troppo da fare, ormai capocontabile, lo stipendio buono, e in pochi anni la casa fu completa, eccetto il bagno. Restò come il coronamento di sforzi ventennali.

    “Prima o poi verrà anche il momento del bagno”, dicevo a mia moglie che continuava a brontolare, si lamentava che veniva qualche visita, voleva andare a far la pipì, e lei perdeva la faccia. E del resto, arrivati a questo punto che cos'era poi il bagno? La coda del somaro. E dato che tutte le cose che si fanno una volta nella vita ce la mettiamo tutta perché siano fatte con gusto, così anche per il bagno presi tutte le mie misure per farne qualcosa di bello: --segue

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  4. ci misi delle piastrelle carissime, che creavano una strano insieme con scene varie, così da sentirmi a mio agio in quel posto, tutti i sanitari indispensabili, ovviamente anche un bidè.

    Le altre cose non mi hanno dato noia. Al diavolo. Hanno una loro utilità, e poi, coll'età che abbiamo adesso, godiamoci anche noi qualcosa. Solo il bidè mi ha dato fastidio, e si è tirato dietro anche tutto il resto. Il bidè. Perché essendo stitico e avendolo davanti per molto tempo, mi è sembrato che mi prendesse in giro con quella sua faccia lunga, un occhio blu e l'altro rosso, triangolari sulla fronte e sporgenti come quelli di un rospo, quella bocca come una cloaca che inghiottiva tutto con quel rantolo improvviso quando finisce l'acqua, come se mormorasse: Hai visto come ti ho ridotto? Ti ricordi quando sei venuto dal paese per la prima volta che fusto eri? Come hai fatto a impegolarti così, poveretto, una vita --- una casa? Io sono il premio dopo vent'anni di lavoro. Per lavarti di sotto. Hai visto dove ti ho portato?

    Mi avevano messo sotto il giogo per vent'anni, e io ero consenziente (questo è il peggio), per finire qui davanti a una serie di cose inutili, secondo me, o che anche se sono utili, maledette loro, non valgono come quella faccenda che si chiama vita e gioventù. Gli anni migliori li ho sprecati come una formica mettendo sotto le spalle e sistemando questa casa del cavolo, costruendo alla fine questo bidè, vent'anni mi ha inghiottito la sua cloaca, e io adesso sono rimasto come un limone spremuto, una faccia come una prugna secca, per un bidè.

    Con queste idee in mente tirai l'acqua e poi andai alla finestra per respirare un po', per sentire la voce della città. Da tutte le parti veniva uno strano rumore. Non era il solito rumore delle automobili. Questo era di un altro tipo: uno splash-splach continuo copriva ogni altro frastuono. Tesi l'orecchio e capii. Tutta la piana dell'Attica si era trasformata in un immenso bidè, e tutti ci eravamo seduti sopra e ci lavavamo, ci lavavamo, mentre centinaia di migliaia di sciacquoni, versando cascate d'acqua, salutavano il nostro progresso.
    da Il bidè e altre storie, Kedros, Atene 1970

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