Cominciamo
col dire che le colpe dei padri non devono mai ricadere sui figli.
Poi però aggiungiamo subito che non si può pretendere che a un
figlio riesca facile riconoscere le colpe che vengono addebitate al
padre, e che è del tutto naturale che in lui continui a vedere il
brav’uomo che non smetterà mai d’essere, a fronte di qualunque
evidenza. Non dimentichiamo, infine, che anche il peggior fetente può
essere un padre passabilmente amabile. E quindi lasciate in pace la
povera Maria Elena Boschi: suo padre è davvero una brava persona.
giovedì 7 aprile 2016
mercoledì 6 aprile 2016
Sul referendum del 17 aprile
Una
rapida occhiata ai numeri basta a
chiarirci cosa davvero sia stato, in Italia, l’istituto
referendario: i quesiti che si è tentato di sottoporre al parere
degli italiani sono stati 191, ma, tra mancato raggiungimento del
numero di firme necessarie e bocciature al vaglio di legittimità, il
tentativo è andato in porto solo 67 volte, con 27 casi nei quali
non si è raggiunto il quorum, 9 nei quali la proposta abrogativa è
stata respinta e almeno la metà dei rimanenti 30 nei quali l’esito
delle urne è stato sostanzialmente disatteso, vanificandone ogni
effetto.
Com’è che allora il referendum continua a illudere tante
anime belle? Quasi certamente lo si deve a tutta la retorica che si è
spesa su quelli che furono indetti per abrogare le leggi che
consentivano divorzio e aborto, e che non ci riuscirono: leggi che dobbiamo al Parlamento, ma
che si continua ad avere la sensazione siano uscite dalle urne.
Non
starò ad annoiare oltre il mio lettore: mi sono già intrattenuto a
lungo, due o tre anni fa, sull’inutilità dell’istituto
referendario, addirittura sulla sua pericolosità per quanto gli è
conferito dall’essere uno strumento di democrazia diretta, dove il
pericolo che sta a monte dell’illusione non è meno serio di quello
che gli sta a valle. Qui, stringendo, non ho fatto altro che ripetere
ciò che ho già detto allora, a indispensabile premessa di quanto
segue, che poi è la risposta a chi mi ha chiesto se andrò a votare
il 17 aprile e, se sì, come voterò.
Premessa che sembrerebbe voler
dar senso a un’astensione. E invece andrò a votare. All’esclusivo
scopo di dare il mio contributo al raggiungimento del quorum, che
peraltro do per scontato sarà difficilissimo raggiungere. Meno
difficile di quanto sarebbe stato se non fosse scoppiato lo scandalo
che ha portato alle dimissioni di Federica Guidi, ma comunque assai
difficile. Superfluo dire che questa decisione nasce dal significato
che Matteo Renzi ha voluto dare a questo referendum, dunque potrebbe
anche essere irrilevante cosa voterò: potrei anche annullare la
scheda o lasciarla bianca, la ragione che mi porterà al seggio
elettorale troverebbe comunque piena soddisfazione, anzi, in entrambi
i casi la troverebbe in coerenza a ciò che penso dell’istituto
referendario. Il fatto è che ritengo intellettualmente disonesto
usare strumentalmente un voto al quale si è voluto strumentalmente
attribuire un significato diverso da quello che dovrebbe avere, e
dunque, senza perdere neppure per un istante la certezza
dell’inutilità del mio voto, non ritengo sia corretto sottrargli il valore che
gli è attribuito e che dunque, almeno formalmente, sono costretto a riconoscere: non annullerò la scheda, non la lascerò bianca.
Voterò sì e ritengo sia doveroso spiegare il perché. Anzi, giacché
al sì sono arrivato grazie ai tre minuti che Michele Governatori ha
dedicato al referendum del 17 aprile in una delle puntate della sua
rubrica del martedì su Radio Radicale, mi limito a riproporli qui.
Il punto che ritengo dirimente è quello relativo alla concessione a privati di un bene pubblico per un tempo illimitato, che d’altronde è in franca violazione delle direttive comunitarie cui Governatori fa cenno, e che dunque rende sanzionabile in sede europea il comma 239 dell’art. 1 della legge n. 208 del 28 dicembe 2015 anche laddove vincesse il no o il quorum non fosse raggiunto. Ennesima dimostrazione, laddove ce ne fosse stato bisogno, che a questo governo manca ogni misura del diritto.
martedì 5 aprile 2016
[...]
Pensare
che l’arguzia faccia attestato
di libero intelletto, e che il gusto di dissacrare riveli un’indole
insofferente ad ogni genere di pregiudizio, riserva delusioni solo
all’ingenuo. Dall’autore
de La secchia rapita, strepitosa satira delle miserie umane
ipocritamente agghindate di nobili ideali, è strano arrivi una
difesa del geocentrismo che
rigetta le tesi di Niccolò Copernico in forza del più gretto senso
comune e della più polverosa tradizione? Per niente. Il sarcasmo
trova sempre carne più tenera nel nuovo e, risparmiandoci citazioni,
la satira nasce reazionaria, per consolare i servi, per dare ad essi, nello
spazio che sa rubare al padrone, il carnascialesco del mondo
sottosopra. Seccata la penna che gli è servita a scrivere le
lapidarie ottave con cui ha bersagliato di sberleffi Modena e
Bologna, ecco Alessandro Tassoni reintingerla nel suo calamaio per scrivere che la terra non può girare attorno al sole, perché «ciò s’oppone alla Scrittura sacra»: scherza coi fanti, ma lascia stare i santi.
lunedì 4 aprile 2016
[...]
Sul
metodo piovano i rimproveri, ma il risultato resta convincente,
d’altronde, e fin dal
sottotitolo (Saggio di storia parziale), Gli oligarchi
di Jules Isaac (Sellerio, 2016) non fa mistero di essere una
peroratio. Bel libro, davvero.
Non solo ladri di polli
Francamente
non si capisce perché la telefonata di Federica Guidi sia stata «inopportuna»: «opportuno» viene da «ob-portus», detto del vento che
favorevolmente spinge la nave in porto, e la telefonata annunciava
che il vento favorevolmente la spingeva. Di poi, venendo al suo
significato estensivo, per ciò che convenga o sia adeguato alla
circostanza, è di chiara evidenza che la telefonata fosse al
contrario pienamente «opportuna»: conveniva che l’emendamento
passasse, e la circostanza giustificava che ne fosse messo a
conoscenza chi ne avrebbe tratto convenienza, giacché stava
passando. A mio modesto avviso, e non sarebbe la prima volta, anche
in questa occasione ’sti
quattro mariuoli di provincia dimostrano di avere mano lesta, ma
lingua che fa batacchio in campana fessa.
Poi dicono che so’
democristiani... Ma non scherziamo: un democristiano dei bei tempi
andati non l’avrebbe
mai definita «inopportuna», la telefonata, avrebbe detto che forse poteva dar adito a eccepire, ma solo se capziosamente, e unicamente al fine di
insinuare che dimostrasse una condotta poco cristallina. E poi, fra
mille e mille esortazioni a non soccombere all’onda
calunniosa, il partito avrebbe fatto quadrato attorno al suo
ministro, e quello non si sarebbe mai dimesso. Questi, al confronto,
sono ladri di polli, e al telefono sono pure scarsi a perifrasi per
evitare che la torcia elettrica ce li mostri tutti inzaccherati di
merda di gallina.
Dico: è quello il modo di avvisare il tuo
sventrapapere che sei riuscita a fargli il regalino cui quello teneva
tanto perché ultimamente era a corto di liquido? Ma vola alto, caspiterina, dagli un appuntamento su una banchina del porto
di Taranto che ancora non è in costruzione, parla di Potenza come se
stessi inanellando lodi attorno alla sua nerchia, ma non essere così
esplicita, pensa alle camicie che dovrà sudare il suo avvocato. Una
cosa è delocalizzare la produzione in Croazia mettendo la cassa
integrazione a spese dello Stato, un’altra
è fare il ministro: un minimo di stile, cazzo.
Ma è chieder troppo: si tratta di maneggioni ai quali i babbi hanno insegnato prima la faccia tosta e poi lo scilinguagnolo, prima il mestiere di fottere i fessi e poi l’arte di metterli a tacere con un’alzata di spalle. È la razza dei villanzoni che illustrano al meglio il manifesto ideologico del familismo amorale: capofamiglia esperto di paccotti, mamma finta bionda in pelliccia e con caviglie gonfie, fratello un po’ coglione ché la natura s’è voluta concentrare sul rampollo da spendere per la scalata sociale e la domenica tutti a messa, pregando il Padreterno che arrivi l’occasione di poter usare il vestito della festa anche nei giorni feriali.
E il cucuzzaro?
Vogliamo parlare del cucuzzaro? Dice: l’emendamento
è mio, l’ho
scritto di mio pugno, so’
stato io a volerlo. A parte il fatto che pare già saltino fuori le mail di
quelli della Total e della Shell che dettano allo staff della Pupona
come volessero fosse limato perché non lo trovavano abbastanza liscio, se il ministro non ha fatto altro che
annunciare al fidanzato che stava per essere varato un provvedimento
bello, buono e giusto, dove sarebbe l’inopportunità della
telefonata? Era l’emendamento a favorirlo, non il sapere in
anticipo che sarebbe stato approvato. E poi per quell’emendamento
si sarebbe messo il voto di fiducia: essere certa che sarebbe passato
non era segno che a volerlo fosse tutto il governo e che così
avrebbe voluto il parlamento? Dov’è che s’è violato il galateo?
Dice: l’emendamento sbloccava una situazione in stallo da troppo
tempo, e in questo l’azione di governo è stata coerente con il più
generale intento di sbloccarne altre, come Pompei, come Bagnoli, come
la Salerno-Reggio Calabria. Ma in questi casi si tratta di opere
pubbliche, qui si sbloccava solo ciò che impediva di fare utili a imprese private, per giunta estere, di cui una, sulla situazione da sbloccare, avevano investito due milioni e mezzo di appalto in favore del fidanzato di
Federica Guidi. Di fatto, poi, Pompei, Bagnoli e la Salerno-Reggio
Calabria restano ancora bloccati, e guarda tu cosa si va sbloccare per sollecito interessamento di mezzo governo:
l’affarone privato.
Dice: fa lo stesso, ci sono di mezzo dei posti
di lavoro. Che andrebbero persi se non si cedesse alle pretese che le
società petrolifere avanzano su Taranto, certo, ma che non
andrebbero persi rinunciando a quei due soldi di royalties che fanno
di quanto si estrae dalla Basilicata un prodotto da esportazione. Per
poi venirci a spacciare l’emendamento come pilastro di un progetto
di autonomia energetica e a prometterci un occhio di riguardo alla pompa di benzina se ci beviamo lo sbirignaccolo della versione ufficiale. Non solo ladri di polli, ma pure miserabili
bugiardi.
E a cappello? «Possono dirmi
che non sono capace, ma, se mi dicono che sono disonesto, mi partono i
cinque minuti». E fatteli
partire, buffone.
Ah, ’sta polis!
Non
basta capire, occorre sapersi spiegare, argomentare in modo
ineccepibile, possibilmente persuasivo, in forza del solo buonsenso,
chessò, tanto per dire, cominciando con l’evitare
il ricorso ad autorità che sono indiscutibili solo nel proprio
hortus conclusus: tanto per dire, evitare Tucidide in esergo. Ma poi
nemmeno questo basta, perché senza una genuina premura per il bene
comune diventa vano ogni acume, peggio ancora poi pensando sia
legittimo trarne un pur minimo vantaggio personale: aver ben chiaro
che l’amore per la polis è
tutto a perdere, anzi è pericoloso, ineluttabilmente nefasto. E
allora rinunciarci: innaffiare le piantine di basilico e di menta,
darsi allo zen stirando una camicia...
È
stata una bellissima settimana: volume delle news a zero, i volti
noti scorrevano in tv come pesci in un acquario, nessuna voglia di
sapere che avessero da dire. Poi devo dire che mi è tornata la mania
per Cranach e ho rimesso mano al materiale che tempo fa avevo messo
da parte per uno studiolo sulla sua Flagellazione. Insomma, il blog
ne ha sofferto. Pazienza, via, ché ora vediamo di riaccendere ’sta
passione civile addormentatasi a bocc’aperta davanti all’ennesima
rissa tra opposte bande. Senza dimenticare, naturalmente che ό τε
γάρ γνούς καί μή σαφώς διδάξας έν ίςω
καί... Ah, ’sta polis!
martedì 29 marzo 2016
[...]
Fatta
eccezione per quella di Peteano (1972), su nessuna delle stragi che
hanno insanguinato l’Italia per oltre un decennio, da quella di
Piazza Fontana (1969) a quella della Stazione di Bologna (1980), è
stata fatta piena luce, tutt’al più si è arrivati a individuare
gli esecutori materiali, in tutti i casi con ampio margine di dubbio,
e per tutte si è perso il conto degli episodi che hanno provato,
senza possibilità di smentita, gravi inefficienze investigative,
quando non si è trattato di depistaggio, di inquinamento delle
prove, se non di vero e proprio favoreggiamento da parte di servizi
deviati o addirittura di figure di ruolo istituzionale.
Vantando tale tradizione, non si capisce come si sia potuto
dar fiato in Italia – proprio in Italia – alle feroci critiche
piovute in quest’ultima settimana sulla polizia, l’intelligence e
la magistratura belghe. Che avranno senza dubbio commesso errori
nella gestione del problema posto dalle cellule terroristiche
responsabili degli attentati del 22 marzo, ma incomparabilmente meno
gravi rispetto a quelli che costellano la cronaca dei nostri Anni di
piombo, per giunta senza che per ora siano emersi in Belgio elementi che lascino supporre connivenze o
insabbiamenti, che invece, qui da noi, sono stati la regola, senza eccezioni. C’è la tendenza, qui da noi, a dimenticare in fretta.
[...]
Sono
in molti ad essere convinti che la morte di Giulio Regeni sia
imputabile a uno degli organi di sicurezza egiziani, ma le opinioni
divergono riguardo al movente.
Per
alcuni, infatti, il giovane sarebbe stato sequestrato, torturato e
ucciso da uno dei nuclei operativi della polizia o dei servizi
segreti che in Egitto, fin dalla presa del potere da parte di
al-Sisi, sono routinariamente impegnati nell’azione
di repressione di ogni forma di dissidenza al regime: il sequestro
avrebbe avuto lo scopo di strappargli informazioni su una rete di
oppositori coi quali, a torto o a ragione, i sequestratori ritenevano
che egli fosse entrato in contatto, mentre la morte sarebbe stata la
diretta conseguenza delle torture con le quali si è cercato di
estorcergliele, poco importa se riuscendoci o meno, o come soluzione
per metterlo definitivamente a tacere dopo avergliele estorte.
Le
torture subite da Giulio Regeni, in tutto simili a quelle denunciate
da molti dissidenti sottoposti allo stesso trattamento, sono senza
dubbio un elemento a favore di questa tesi, che tuttavia ha un
significativo punto debole proprio nel ritrovamento del corpo che ne
recava gli inequivocabili segni, perché farlo sparire, come è
accaduto in molti casi analoghi, non avrebbe comportato alcuna
difficoltà per chi avesse voluto occultare, con quelli, le ragioni del suo omicidio.
Questo
porta altri a ipotizzare che i responsabili di quanto è accaduto
sarebbero uomini appartenenti a un corpo deviato in seno agli organi
di sicurezza dello stato, che ha agito con l’evidente
intento di destabilizzare la dittatura di al-Sisi, per causarle un
serio imbarazzo presso l’opinione pubblica estera e minare le basi
della solida partnership commerciale che intrattiene con l’Italia.
È
ipotesi, questa, che apre un ampio ventaglio di supposizioni sui
reali autori dell’efferato
delitto. Molti hanno sostenuto che i responsabili debbano essere
ricercati tra elementi dell’organizzazione
dei Fratelli musulmani, che tra gli oppositori al regime è quella
più agguerrita e che fin qui è stata anche quella più duramente colpita
dalle misure repressive di al-Sisi: membri dell’organizzazione
sarebbero riusciti ad infiltrare alcuni corpi dello stato, con ciò
dimostrando di continuare ad avere una notevole capacità di presa ad
ogni livello della società egiziana.
In
entrambi i casi si comprenderebbero i goffi tentativi delle autorità
chiamate a render conto all’Italia
e all’opinione
pubblica internazionale di quanto è accaduto. Tentativi fin qui risoltisi nell’offerta
di spiegazioni che sono parse implausibili. Sta di fatto che ammettere che la polizia
o i servizi segreti possano essere stati infiltrati da elementi
ostili al regime non sarebbe meno imbarazzante che assumersi la
responsabilità dell’omicidio
di Giulio Regeni.
È
in tal senso che anche l’ultima
di tali spiegazioni, quella che imputa la morte del giovane a una
banda di delinquenti comuni, sembra mostrare troppi punti che la
rendono inverosimile, costruita ad arte, e pessima arte, per
nascondere la realtà dei fatti, i quali rimanderebbero la responsabilità
dell’accaduto, ancorché indirettamente in questo caso, alle misure repressive che la
dittatura di al-Sisi attua nei confronti dei suoi oppositori. Poca
importanza, allora, avrebbe chi abbia materialmente ucciso Giulio
Regeni, perché la colpa ricadrebbe comunque su chi ha voluto che in
Egitto fosse sospesa ogni garanzia in favore della dissidenza.
Nessuna spiegazione, allora, sarebbe adeguata se non con un’ammissione
di colpevolezza da parte del regime, che ovviamente non potrebbe
permettersela neppure se la catena delle responsabilità che hanno
prodotto l’evento
fosse realmente in capo ai suoi vertici.
Sembrerebbe,
dunque, che non ci sia alcuna via d’uscita:
nessun’altra
spiegazione potrà mai soddisfare chi è convinto che Giulio Regeni
sia stato ucciso dagli organi di sicurezza dello stato, né mai tale
ammissione potrà essere fatta dal regime. Questo braccio di ferro
non può che consumarsi nel logoramento delle relazioni diplomatiche
e della partnership commerciale tra Italia ed Egitto.
Se
fosse valida l’ipotesi
che la morte del giovane è stata concepita proprio a tal fine,
potremmo dire che l’operazione
stia dando i risultati voluti, rimarrebbe solo da chiedersi chi
l’abbia
decisa. Davvero i Fratelli musulmani? Qualche altro attore
interessato a creare attriti tra Italia ed Egitto? Anche su questo è
improbabile si arrivi a far luce, di fatto non manca chi trarrebbe
enormi benefici da un allentamento dell’interscambio
economico che si è consolidato tra i due paesi. D’altra
parte, se è possibile che polizia e servizi segreti egiziani possano
essere stati infiltrati da elementi dei Fratelli musulmani, non si
vede perché non possano esserlo stato da agenti di paesi interessati
a contrastare gli interessi italiani in Egitto.
L’ho
già scritto a caldo, il 6 febbraio, e l’ho
ripetuto a freddo, una decina di giorni dopo: cosa ci sarebbe di
strano se i responsabili della morte di Giulio Regeni fossero agenti
dei servizi segreti di paesi come la Francia o il Regno Unito? Con la morte di
un nostro connazionale in terra egiziana, soprattutto se seguita a
bestiali torture che sollevano una sacrosanta indignazione, non avrebbero fin qui ottenuto proprio quanto era voluto?
Per
quanto possa farci schifo, tuttavia, proviamo a metterci nei panni di
al-Sisi: nel caso in cui non fosse direttamente o indirettamente
responsabile dell’accaduto,
nel caso in cui a sequestrare, torturare e uccidere Giulio Regeni non
fosse stato un organo di sicurezza dello stato egiziano, nel caso in
cui fosse ignoto alle stesse autorità egiziane chi siano i reali
autori dell’omicidio,
cos’altro
resterebbe se non il tentativo di confezionare una spiegazione di
comodo, ancorché farlocca? In ogni caso, dovrebbe trattarsi di una
spiegazione che non metta in discussione il pieno controllo del
regime sugli organi di sicurezza dello stato: negare la possibilità
che essi possano essere stati infiltrati sarebbe indispensabile,
salvo l’implicita
ammissione che l’eventualità non sia del tutto escludibile, ma non
possa essere esplicitamente offerta come ipotesi credibile.
Resta
la possibilità che Giulio Regeni sia davvero stato vittima di
delinquenti comuni, ma questa è ipotesi che viene sdegnosamente
rigettata da chi è convinto che il movente della morte non possa non essere politico. A favore di questa ipotesi depongono le testimonianze di
molte vittime della banda che di recente è stata eliminata dalla
polizia egiziana. Raccontano di essere stati sequestrati e sottoposti
a trattamenti brutali da soggetti che si qualificavano come
appartenenti ad organi dello stato e che li lasciavano liberi solo
dopo aver estorto loro del denaro: perché Giulio Regeni non potrebbe
esserne stato vittima?
Contro
questa ipotesi vengono opposte ragioni che sembrano aver forza solo
nella convinzione che non possa essere valida perché non deve
esserlo. Perché sarebbe stato torturato in modo così bestiale? Per
sottrargli il denaro che Giulio Regeni si rifiutava di dar loro,
forse per la banale ragione che non ne avesse nella misura che a torto i suoi
sequestratori ritenevano fosse nelle sue disponibilità. Si contesta
che questa sia spiegazione troppo banale, resa ancor più inverosimile dal
fatto che i responsabili non si siano disfatti dei documenti del
giovane dopo averlo ucciso. In più, c’è che sono stati eliminati
impedendo loro di confessare di essere autori del delitto, il che
puzza di maldestro insabbiamento dei fatti per come si sarebbero
realmente svolti. Tutto questo è vero, ma cosa impedisce di ritenere che
anche in questo caso non possa essere chiamato in causa chi fosse intenzionato a gettare un’ombra sulla reale intenzione del
regime di dare una versione attendibile della vicenda? Il fatto che
il regime di al-Sisi abbia risposto ai dubbi avanzati su tale
versione con la disponibilità a vagliarne di ulteriori non dovrebbe
far fede sulla possibilità che non sia affatto esclusa un’azione
di depistaggio ad opera di elementi interni agli organi di sicurezza
dello stato? Parrebbe di no, perché chi non tollera che la verità
sia diversa da quella che si vuole essere la sola possibile non
ammette altra conclusione della vicenda. A me pare che questo atteggiamento non possa
dare i risultati voluti, né che questi, poi, sarebbero necessariamente i soli ad essere validi per il solo fatto di essere considerati tali.
Per
quanto mi riguarda, e per il poco che conta, continuo a ritenere poco probabile che Giulio
Regeni sia stato vittima del regime di al-Sisi, perché in tal caso
non avremmo mai ritrovato il suo corpo. Continuo a ritenere che sia
stato usato per creare il caso, e che per crearlo fosse necessario si affermasse da subito, come in effetti è stato, l’indisponibilità a ritenere incolpevole la macchina della dittatura egiziana. E questo penso sia dovuto all’errata convinzione che una dittatura sia impermeabile a interferenze esterne, mentre invece la storia insegna esattamente il contrario.
domenica 27 marzo 2016
Sono d’accordo con Ernesto Galli della Loggia
Sono d’accordo con Ernesto Galli della Loggia quando afferma che, «se ci sono aspetti della religione islamica o del costume da essa influenzati che sono in contrasto con i valori della nostra Costituzione, tali aspetti devono essere inevitabilmente abbondati o cambiati, pena l’essere combattuti anche con la durezza della legge»; assai meno d’accordo quando afferma che «non si tratterebbe in alcun modo di un trattamento discriminatorio verso l’islam», perché è vero che «a partire dal 1850», «in armonia con quanto stava facendo tutto il liberalismo europeo», «il Piemonte liberale adottò [lo stesso atteggiamento nei confronti della Chiesa cattolica] lasciandolo poi in eredità al Regno d’Italia», ma fu eredità che andò a farsi friggere col Concordato e i Patti Lateranensi, nel 1929, e con l’art. 7 della Costituzione repubblicana, nel 1946; sicché occorre intenderci: per evitare «un trattamento discriminatorio verso l’islam», che pure a Ernesto Galli della Loggia parrebbe indelicato, con la Chiesa cattolica torniamo al regime preconcordatario?
Io sarei pienamente d’accordo, limitandomi a osservare che, per risolvere quella che di fatto è l’irrisolta questione cattolica, abbiamo dovuto attendere che se ne sollevasse una musulmana. Per meglio dire: che Ernesto Galli della Loggia sollevasse la questione musulmana per indicarci come miglior soluzione quella adottata per la questione cattolica dai Siccardi e dai Rattazzi, ma poi ritenuta inadeguata dai Mussolini e dai Craxi.
La «durezza della legge» che oggi Ernesto Galli della Loggia pone a scudo di ogni eventuale violazione da parte musulmana dei princìpi sui quali fonda uno Stato, che almeno a chiacchiere si dichiara liberaldemocratico, portava in carcere, nel 1850, e in esilio, nel 1862, monsignor Luigi Fransoni, arcivescovo di Torino, reo d’istigazione alla disobbedienza delle leggi dello Stato. D’accordo, dunque, con lo schiaffare in galera l’imam che si azzardi a mettere in discussione i princìpi di piena eguaglianza di diritti tra uomini e donne, etero e gay, credenti e non credenti, ma poi siamo sicuri che, a parità di azzardo, lo segua pure il presidente della Cei? È così bello, una volta tanto, poter essere d’accordo con Ernesto Galli della Loggia, ma a lasciare dubbi su questo punto c’è il rischio che il piacere si guasti.
sabato 26 marzo 2016
[...]
Non
più di un mese fa, à
la station Schuman du métro de Bruxelles,
si teneva un’exercise
catastrophe:
proprio in quella stazione, e solo in quella. Offro lo spunto a chi per questo 3/22 non voglia farsi mancare la consueta teoria del complotto, ormai un must
in
occasioni del genere.
A
chi non piaccia scervellarsi in costruzioni paranoiche, invece,
propongo una sessione di free
insulting
all’immancabile
violoncellista del day
after,
stavolta così cane che pure Bach si è ritrovato tra le vittime che
quelli della morgue
hanno faticato a identificare.
Se al cazzeggio, invece, preferite il
calo degli zuccheri, niente di
meglio
che cantare Imagine
con
una candelina in mano. Sì, però senza storpiare testo.
Troppo da
mammoletta, forse. Preferite un tonico? Vi offro un infuso di radici giudaico-cristiane, vi sentirete come un Meotti.
Nemmeno questo? E allora consentitemi un’ultima offerta:
Kevin
Dutton, Dominic Abrams - What Research Says about Defeating Terrorism
Alexander
Haslam, Stephen Reicher - Fueling Terror: How Extremists Are Made
mercoledì 23 marzo 2016
[...]
Fosse
pure stato il nano che non era, le sue disposizioni testamentarie
basterebbero a dargli statura di gigante: Umberto Eco lascia scritto
che per almeno dieci anni vorrebbe non si tenesse incontro, convegno,
giornata di studi sulla sua persona e sulle sue opere, sul suo
pensiero e sulla sua vita. Sarà stata pure una
furbata, ma è divina.
È possibile tenere a freno le passioni?
Dinanzi
a un atto terroristico è disumano non provare pena, dolore, paura e
rabbia. D’altra parte sono proprio queste le emozioni che i
terroristi intendono suscitare, perché le vittime dei loro attentati
sono solo un mezzo, mentre il fine immediato è quello di influenzare
le opinioni pubbliche, che a sua volta mira a condizionare le
politiche governative, per pressione che dunque è indiretta, ma che
invariabilmente si fa diretta, perché l’istanza
di sicurezza non ha bisogno di essere rinnovata per essere assunta
dallo stato come obbligo primario.
Come acutamente è stato scritto
da chi a lungo ne ha studiato la logica che lo muove, gli strumenti
di cui si serve, le modalità che gli sono proprie, «il terrorismo è
teatro» (Salustiano Del Campo), tanto più efficace, quanto maggiore è l’onda emotiva
che le sue azioni sollevano in platea. Fosse possibile restare
indifferenti, freddi, insensibili allo spettacolo che mette in scena,
il terrorismo non avrebbe ragione di esistere, ma ovviamente questa è
ipotesi impensabile, perché presupporrebbe un’impassibilità
alla sofferenza e alla morte dei propri simili che non sarebbe poi
troppo diversa da quella di chi progetta e realizza atti
terroristici.
Sta di fatto che è proprio l’insopprimibile
pathos che la rappresentazione scatena a procurare vantaggio a chi ne
ha scritto il copione, a chi ne ha curato la regia, a chi se n’è
fatto interprete. Per questa ragione, il terrorismo dev’essere
considerato il mero innesco di un ordigno che ha proprio nelle
conseguenze del terrore, in ciò che di irrazionale inevitabilmente
suscita negli animi che intende scuotere, la sua massa esplosiva: può
indubbiamente infondere sgomento, accentuare pena, dolore, paura e
rabbia, infliggere un angoscioso senso di impotenza, ma si deve
prendere atto che solo gli spettatori possono decretare il successo
dell’evento teatrale.
È possibile tenere a freno le passioni che suscita l’azione terroristica per depotenziarla, in vista del neutralizzarla? Cosa può temperare le passioni – senza estinguerle, sia chiaro – al punto da evitare che si mettano a servizio di chi strumentalmente le sollecita per servirsene? La ragione, probabilmente. Probabilmente, il miglior omaggio che possiamo riservare alle vittime di un atto terroristico è cercare di comprendere il meccanismo che le ha rese tali, per disattivarlo. Questo è difficilissimo, ma occorre provare.
È possibile tenere a freno le passioni che suscita l’azione terroristica per depotenziarla, in vista del neutralizzarla? Cosa può temperare le passioni – senza estinguerle, sia chiaro – al punto da evitare che si mettano a servizio di chi strumentalmente le sollecita per servirsene? La ragione, probabilmente. Probabilmente, il miglior omaggio che possiamo riservare alle vittime di un atto terroristico è cercare di comprendere il meccanismo che le ha rese tali, per disattivarlo. Questo è difficilissimo, ma occorre provare.
Occorre,
innanzitutto, sottrarre al terrorismo ogni aggettivo, ogni attributo
che miri a conferirgli una dignità politica, culturale, religiosa.
Che il terrorista se la attribuisca, la rivendichi, ne faccia la
ragione della sua azione, o al contrario ne faccia pretesto o
paravento per altri moventi, deve essere considerato irrilevante.
D’altronde le modalità dell’atto terroristico sono costanti
anche al variare delle ragioni che gli danno movente e dell’ideologia
che le trasfigura in giustificazioni. Solo un errore di analisi può
farci ritenere specifico un suo carattere, com’è nel caso del
terrorista che non esita a sacrificarsi pur di portare a termine il
compito che si è prefisso: è nel calcolo di ogni progetto
terroristico che l’esecutore materiale debba accollarsi il rischio
di morire portando a termine il suo compito, e che tale rischio sia
accettato come prezzo certo costituisce solo un dato di carattere
tecnico, che impone un’adeguata metodologia di approccio al
problema, ma che non cambia i termini della questione posta in sé
dall’atto terroristico.
Da questo punto di vista, occorre
ponderarne esclusivamente il reale potenziale offensivo: che a
compiere una strage sia stato un militante dell’Isis, un Anders
Breivik o lo studente del college americano, il problema è posto
dagli strumenti di cui ha potuto farsi forte, dall’effettiva
capacità di dare ad essi il voluto effetto letale, non già da
quanto egli dichiara averlo motivato. Con ciò non voglio dire che un
profilo criminale manchi di caratteri specifici che lo distinguono da
un altro, fatto sta che questi andrebbero esclusivamente considerati
elementi utili ad approntare soluzioni di natura tecnica, non già a
investire il terrorista del ruolo di officiante di un credo.
In
secondo luogo, occorre trattare il terrorismo al pari di una
qualsiasi altra causa di morte violenta per mettere in evidenza
l’enorme sproporzione tra il numero delle vittime che causa e
l’impatto emotivo che genera. Questo non mira a banalizzare il
problema che solleva, tanto meno a ricondurlo a evento fatale pari a
quello delle morti per incidente stradale o rottura di aneurisma
cerebrale, ma a sottrargli ogni aura che lo inscriva nelle
suggestioni dei miti che aspira a incarnare.
Di
pari passo, occorre decostruire la figura del terrorista, che anche
quando è avvertita come persona spregevole, tende a conservare,
almeno sul piano dell’immaginario meno avvertito, l’ombra del
cieco esecutore di un Male tutto trascendente oppure, il che è
ancora più insidioso, lo spettrale profilo del Barbaro. Occorre
ridurre il terrorista a psicopatico, dichiararlo intrattabile.
La
tendenza ad assecondare le passioni dinanzi all’atto terroristico,
invece, gli conferisce un nefasto potenziale allegorico,
mostrificando il terrorista come agente di un’entità sovrumana, aggravando il senso di insicurezza che il crimine intende infondere.
[segue]
martedì 22 marzo 2016
Madonna, che spasso!
Partiamo
dalla coda: la sentenza è di gennaio, ma se ne ha notizia solo ora.
A darle rilievo mediatico prima, qualcuno avrebbe potuto ricorrere in
appello. Ora i termini sono scaduti, la sentenza è inappellabile,
chi avrebbe potuto metterla in discussione non può farlo più. Già,
ma chi avrebbe potuto, e a che titolo?
La
sentenza ha concesso a
un uomo l’adozione
di un bambino di cui il suo convivente, cui è sentimentalmente
legato fin dall’adolescenza,
è padre biologico. Bambino nato in Canada, grazie alla pratica della
gravidanza surrogata. La madre biologica si è prestata
volontariamente a dare ai due uomini la possibilità di allevare un
figlio donando ad un essi un ovulo, e così la donna che ha
consentito a farsi impiantare in utero quell’ovulo
dopo che questo è stato fecondato dal seme di uno dei due, in più
tutto questo è da tempo legalmente consentito in Canada, come è
legalmente consentito in Italia che un uomo o una donna possano
adottare un bambino che sia figlio del proprio convivente: chi
avrebbe avuto titolo ad appellarsi?
A
ritroso: il Parlamento italiano ha partorito una leggina sulle unioni
civili che solo in considerazione del suo bassissimo livello
culturale può essere considerata una rivoluzione. Dopo estenuanti e
risibili polemiche, si è arrivata a partorirla stralciandole il
capitolo relativo alla stepchild adoption, rimandandone la
discussione a uno dei prossimi 31 febbraio, lasciando che a decidere
sui casi vivi, rimessi al giudizio dei tribunali, fosse la
legislazione vigente in materia, che non ha bisogno di alcuna
interpretazione creativa per consentire l’adozione,
proprio come è accaduto nel caso di questa sentenza. Come si può
gridare allo scandalo per una magistratura che scavalcherebbe il
dettato del legislatore? Non è forse sulla base di una legge che già
esiste al riguardo che è stata scritta questa sentenza? E chi l’ha
scritta, questa legge?
Ancora
un passo indietro: la legge che in questo caso ha consentito al
giudice di dichiarare ammissibile l’adozione
è più o meno costituzionale di quella ancora da scrivere e che invece
non l’avrebbe consentita? Per meglio dire: sarebbe
costituzionalmente valida una legge che vietasse l’adozione a un
individuo adottando un criterio discriminatorio legato al sesso, ma
solo in relazione al sesso del suo convivente, sicché ne risultasse
che l’adozione sia possibile solo a chi non sia omosessuale? No,
eh? E allora di che si ciancia? Una legge del genere starebbe in
piedi solo qualche anno, solo il necessario per infliggere qualche
dispettuccio omofobo a una o due dozzine di famiglie omogenitoriali,
poi farebbe la fine della legge 40.
Ancora
un passo indietro: si è deciso di stralciare la stepchild adoption
dal ddl Cirinnà perché altrimenti si sarebbe dato il via alla corsa
di uteri da affittare all’estero, si è addirittura vaneggiato di
poter dichiarare illegale la pratica della gravidanza surrogata su
tutto l’orbe terracqueo. Deliri di cui si può essere capaci solo
quando al posto del cervello si ha una cacca di prete stitico. Come
intervieni nella giurisdizione di un altro paese? No – dice – che
hai capito? Si punisce il cittadino italiano che all’estero abbia
commesso il misfatto. Ok, ma allora è almeno un pochino improprio
parlare di messa al bando universale. E poi come si fa a provare che
vi sia stato misfatto? Chi autorizza il magistrato italiano a
sottoporre al test del Dna la donna che ha partorito per constatare
che non corrisponde a quello del neonato e così aver prova certa che
l’ovulo non fosse suo? Come potrà essere smentita la puerpera che
dichiari di essersi carnalmente congiunta col padre biologico del
bambino, ma che dopo averlo partorito le sia venuto lo sghiribizzo di
non riconoscerlo?
Ancora
un passo indietro? Sia. All’omofobo medio italiano brucia il culo
in modo impressionante all’idea che una famiglia possa non essere
come quella che sta nel suo iperuranio, e pur di non essere costretto
a vederne una seduta al tavolino che al bar sta accanto al suo non sa
a cosa aggrapparsi: a Dio, alla Natura, alla Costituzione, ma niente
gli offre presa valida. Soffre, poveraccio. Cogita ritorsioni. Veste
di autorità i suoi spaventapasseri. Si consuma in biliosi sarcasmi
sul frocio al quale manca l’utero, e con la stessa cattiveria con
la quale all’asilo dava del quattrocchi a quello che portava gli
occhiali. Soffre, poveraccio. Madonna, che spasso vederlo soffrire!
lunedì 21 marzo 2016
«Relazione»
Un termine può essere usato in modo più o meno improprio, e questo può
accadere in modo più o meno intenzionale, ma con ciò non perde quei
caratteri che lo rendono comunque distinguibile dai suoi sinonimi,
dandogli lo specifico che lo fa insostituibile nel contesto in cui è chiamato a esprimerlo. Io ho un modo tutto
personale, e certamente tutto empirico, so bene, per tentare di cavar fuori da una parola
questo specifico che rende improprio, seppur impercettibilmente
improprio, il sostituirla con un sinonimo: su un foglio, in alto, da
sinistra a destra, trascrivo tutti i sinonimi che ne riportano i
dizionari di riconosciuta autorevolezza (a volte cinque, a volte
sei); poi incolonno sotto ciascuno i rispettivi sinonimi riportati
dalle stesse fonti; quindi procedo a cassare con un tratto di penna
tutti i termini che ricorrono immancabilmente in tutte le colonne;
restano così quei termini che della parola presa in oggetto mi danno lo specifico in
ciò che essi le negano, conferendole per lo più un senso figurato che
ne distorce il significante, assegnandole un significato che
riformula il suo etimo in una lettura che talvolta arriva ad essere
grottesca.
Troppo
complicato? Semplifico con un esempio, prendendo il foglio che ho
compilato nel modo sopra descritto per cercare lo specifico di
«relazione», che viene da «relatus», participio passato di
«referre», che letteralmente significa «riportare», il che dà
ragione di come anche «rapporto», come «relazione», rimandi a
«connessione», «collegamento», «nesso», ma pure a «resoconto»,
«comunicato», «esposizione», trovando poi in «corrispondenza»
la coincidenza tra ciò che rende reciproco il «relatus» che è in
una «relazione» e ciò che connette due individui nell’atto
col quale uno dei due usa «referre» qualcosa all’altro.
In
quale colonna il termine «relazione» trova la maggior perdita di
specifico? In quella che s’allunga
sotto il suo sinonimo «legame», dove «connessione»,
«collegamento», «nesso», «rapporto» sono espressione del suo
figurato, mentre per quello letterale troviamo «laccio», «cinghia»,
«corda», «filo», «cappio», che trasformano la «relazione»,
anche laddove non sia perso quanto di reciproco «riporta» l’uno
all’altro, in un «vincolo» che include «obbligo» ed
«impedimento». Direi che nel «legame»
vada persa la libertà che muove alla «relazione» e, soprattutto,
la libertà che muove a romperla: la rete di «relazioni» nel quale
l’uomo
si trova ad essere «sociale» smette di essere, laddove sia mai
stata, prodotto del suo libero «corrispondere» (del suo
responsabile «rapportarsi») per diventare il soffocante sviluppo di
«corde» e «lacci» che «legano» ciascuno a tutti. «Noi siamo
esseri sociali e relazionali», allora, dà a «società» e a
«relazione» significati che conferiscono alla frase il senso di un
richiamo che somiglia allo strattone che si dà al guinzaglio quando
il cane prova a deviare dal cammino deciso dal suo padrone.
Non
avevo intenzione di tirarla così a lungo. Mi ero riproposto di
premettere solo sei o sette righe a commento dell’intervista
concessa dal cardinale Angelo Bagnasco ad Andrea Tornielli per La
Stampa di
domenica 20 marzo (pag. 9), ma tutto sommato va bene anche così:
posso risparmiarmi di scendere nel dettaglio di ciò che Sua Eminenza
afferma riguardo all’eutanasia,
limitandomi a segnalare che quanto gli fa dire che non si abbia pieno
diritto sulla propria vita discende da un’accezione
del «relazionale» assai più vicina alla «corda» che alla
«corrispondenza». Niente di nuovo, dunque, se non la riproposta
dell’uso
improprio – intenzionalmente improprio, non c’è
alcun dubbio – di «relazione».
A
parte, quasi a dare un tocco buffo al mostro organicista, la risposta
a «che cos’è l’“accanimento terapeutico”», cui la Chiesa
si dichiara «non favorevole: «Quando medicine e farmaci sono ormai
“rigettati” dal corpo, si sospendono le cure che risulterebbero
un accanimento». E quand’è
che un corpo li “rigetta”? Mai, quando è incosciente. Può
farlo, come e quando crede, quando è libero e responsabile, oltre
che cosciente. Sta di fatto che per “rigettarli” deve poter
disporre di un’autonomia
che si traduce inevitabilmente sul controllo di una vita, la propria
vita, che l’«essere
sociale e relazionale», al modo in cui lo intende Sua Eminenza, gli
nega. D’altro
canto, a un cadavere è davvero complicato far scendere una flebo:
diremmo la “rigetti”. Però è proprio quando è cadavere che un
uomo si trova nella perfetta condizione di non poter disporre (più)
della propria vita, come dovrebbe accettare anche da vivo. Peccato.
Sarebbe bastato pure un «m’è apparsa la Madonna»
Posseggo
solo una trentina dei 163 volumetti della collana Cultura
dell’anima
che la casa editrice Rocco Carabba di Lanciano pubblicò a partire
dal 1909 affidandone la cura a Giovanni Papini, ma fra quelli non mi manca Polemiche
religiose,
di cui qui sopra è riprodotta la chiusa della prefazione, che
attacca in questo modo: «Non
sembrerà, spero, atto buffo d’orgoglio pubblicare un volume mio in
una collezione da me diretta. Dopo nove anni che scelgo le opere
altrui mi sono accorto di avere scritto anch’io qualcosa che può
entrare senza difficoltà nella Cultura dell’anima».
È da un articolo apparso ieri sul domenicale de Il
Sole-24 Ore (Cesare
De Michelis, Il canone
mobile di Papini
– pag. 28), nel quale si dà notizia della ristampa della collana,
che apprendo quel che ignoravo: a rompere il sodalizio tra Carabba e
Papini fu la ristampa di Polemiche
religiose
che il primo volle contro la volontà del secondo, che intanto si era
convertito al cattolicesimo. Un vero e proprio atto di ripulsa
(ripudio, in questo caso, mi pare suoni debole) per ciò che aveva
scritto appena qualche anno prima.
Avrebbe potuto consentire la
ristampa approfittandone per spiegare in una nuova prefazione le
ragioni della sua conversione, cosa che peraltro fino ad allora non
aveva mai fatto, né fece dopo, se non per vaghi accenni: quale
migliore occasione per dar ragione del nuovo Papini rispetto al
vecchio? «Ho cambiato idea – avrebbe potuto dire – su ciò di
cui scrivevo nelle pagine che qui consegno alla ristampa, e per i
seguenti motivi...»: sarebbe bastato pure un «m’è apparsa la
Madonna», si sarebbe ritagliato silhouette più decorosa.
Non scelse
a questo modo, sicché per sempre rimarrà mistero in quale categoria
di cattolici avrebbe preferito esser sistemato. Ne elencava sette
(pagg. 107-112): pinzocheri, per modo di dire, machiavellici,
affaristi, modernisti, misticizzanti, belve. Premettendo che «cattolici puri e perfetti» non esistono («Esistono i cattolici? Dicon di sì. Io dico no»).
domenica 20 marzo 2016
[...]
Dopo
un colpo al cerchio, uno alla botte: dopo aver deliziato i
lettori di Avvenire
spalancando ai loro avidi occhi tutta la sua perplessità riguardo la stepchild adoption, ecco una
scosciata in minigonna che pareggia il conto sull’opposto fronte. Veramente brava, la Virginia.
Conformismo è ancor dir poco / 1
L’applauso
che nel talk show arriva in coda a ogni intervento, senza eccezioni,
può avere molte spiegazioni, che però dipendono dalla composizione
del pubblico presente. Nel caso in cui a ogni partecipante sia
consentito di portarsi appresso una claque, la spiegazione non
solleva problema. Né lo solleva il caso in cui la claque sia in
dotazione al talk show, con la consegna di applaudire a tutto, in
modo equanime. Anche escludendo queste evenienze, tuttavia, non è
strano che in un talk show ogni intervento sia seguito da un
applauso, perché è nella natura di un uditorio dividersi in
sostenitori di un’opinione e di
quella opposta. Il problema, invece, è posto da quei casi in cui si
può essere ragionevolmente certi che il pubblico non sia assoldato:
com’è possibile che quel tizio
in terza fila applauda al politico che predica la caritatevole
accoglienza dei migranti e appena tre minuti dopo a quello che
propone di affondare il gommone che ne è stracarico?
La
domanda sorge nel corso di una ricerca che mi ha tenuto per parecchie
ore su Youtube a guardare spezzoni di tv, dalle antidiluviane
edizioni del Maurizio Costanzo Show alle ultime puntate di
Ballarò, ma non ho intenzione di parlare di talk show, né di
migranti, né di quello che era oggetto della
ricerca, che troverà spazio in altra occasione: qui mi interessa il
tizio in terza fila, cui voglio concedere di essere in buona fede,
ora pienamente convinto dalle ragioni che sostengono una tesi, poi
altrettanto convinto delle ragioni che ne sostengono una opposta, poi
ancora in favore della prima tesi, e poi dell’altra,
dando l’impressione di cambiare
idea di continuo. È evidente non ne avesse alcuna prima, è
probabile non se ne sia fatta una dopo, ma indubbiamente le due
opposte tesi l’hanno entrambe persuaso,
sia pure per il breve lasso di tempo in cui ciascuna veniva
argomentata.
Quello che mi interessa, insomma, è quella piena
adesione a una tesi – voglio dare per scontato che un applauso ne
sia il segno – che si ha esclusivamente nel ristretto spazio datole
per essere argomentata: mi interessa quel settore dell’opinione
pubblica che è permanentemente ondivago tra ben distinti e perfino
opposti richiami (se-duzioni, etimologicamente intese). È evidente
che il consenso stabilizzato in fidelizzazione costituisca solo il
fondo del letto in cui scorre il fiume di questa massa.
[...]
sabato 19 marzo 2016
[...]
Non
sempre un buon argomento è comunque spendibile, non sempre due
argomenti sono meglio di uno. Si prenda il caso dell’invito
all’astensione
che il Pd di Matteo Renzi sembra aver scelto come posizione ufficiale
sul referendum del 17 aprile.
Per la validità dell’esito
referendario la Costituzione prevede un quorum, dunque ogni
iniziativa tesa a evitare che questo sia raggiunto è pienamente
legittima, sostanzialmente equiparabile a quella del sostegno al
«no»:
ottimo argomento, ma poco spendibile da un partito che si dice
«democratico»,
e che dunque nel voto dovrebbe vedere il più alto momento di
partecipazione popolare alla vita pubblica e alle decisioni di
interesse nazionale, perché l’astensione
rende indistinguibile il rigetto della proposta referendaria dal mero
disinteresse per il problema posto dal quesito, che per un partito
che si dice pure «di
sinistra»
darebbe somma inammissibile di due categorie, quella dei «partigiani»
e quella degli «indifferenti», politicamente e moralmente
irriducibili.
Secondo argomento in favore dell’astensione
prodotto dal Pd
di Matteo Renzi, anzi, da Matteo Renzi in persona: sarebbe un modo
per dichiarare insofferenza allo spreco del denaro pubblico
necessario per tenere la consultazione referendaria. Argomento
spendibile dopo aver scorporato il referendum da un possibile
election day con le amministrative di giugno? Si è detto che lo
scorporo aveva come scopo quello di evitare che le Comunali avessero
un effetto di trascinamento sul voto referendario, che era più
giusto chiamasse alle urne solo chi davvero interessato alla
questione che solleva. Bene, ma questo come si concilia con l’invito
all’astensione?
giovedì 17 marzo 2016
Geniale
Ma è vero quel che si dice? Possibile che chi sostiene Giorgia Meloni nella sua corsa al Campidoglio ha pensato bene di intestarle il titolo di Mamma Roma? Pensando all’omonimo film di Pier Paolo Pasolini? Quello in cui Anna Magnani interpreta una puttana cui alla fine della storia muore il figlio? Geniale.
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