martedì 15 marzo 2016

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Fra i tanti guasti che il cristianesimo ha arrecato alla nostra salute cè quellinfliggerci da soli una pena pari a quella che merita un assassino per il solo aver desiderato la morte altrui, che pure gli studenti al primo anno di Psicologia sanno essere cosa innocente, del tutto fisiologica, e poi di grande compagnia. Malfamato dappertutto, condannato in mille modi, crudelmente perseguitato, perciò costretto a nascondersi, travestirsi, rinnegarsi, fino a ingaglioffirsi e farsi vile, l’odio è così diventato un sentimento irriconoscibile, perfino un po’ ridicolo a dispetto della sua lirica grandezza, corrotta in egual modo quando va ad estinguersi in violenza, dove trova la caduta per calo di tensione, o in perdono, dove si consuma tutta per sublimazione. Non sappiamo più odiare in modo nobile, ecco. Non sappiamo star seduti in riva al fiume concentrando cuore e mente in quella delicata e laboriosa pazienza che può impegnare anni e anni per darci quel che desideriamo: o smaniamo, e finiamo per scivolare in acqua, per lo più affogando, o ci stanchiamo, e leviamo le tende, e per andare dove, poi? A costruirci un mondo parallelo dove chi odiamo non ne turba l’armonia. Questo è brutto, molto brutto. Anche per questo, maledetto il cristianesimo.

[11.6.1984]

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Ogni tanto torna il refrain di Luigi Petroselli miglior sindaco di Roma di ogni tempo (variante: insieme a Ernesto Nathan). Tenuto conto degli altri, può esser vero, ma giacché a Roma lo sfascio è ormai sistema, e ha radici nello sperpero di risorse pubbliche per nutrire clientele dogni risma, torni utile la testimonianza di Franco Ferrarotti, che allofferta di un assessorato fattagli da Luigi Petroselli pose «come condizione la rescissione dei contratti che legano il Comune di Roma a duemila piccole ditte che fanno buchi e poi li riempiono, e non si capisce cosa fanno», riavendone in risposta un «ah, no, non possiamo, quella è la nostra base elettorale». Placcare doro il passato è inevitabile, ma poi basta ununghiata.

lunedì 14 marzo 2016

La signora ne ha bisogno

Un mio amico ritiene che l’articolo sia delirante, dice sia un esempio di quella pornografia informativa che dell’attacco alla privacy altrui fa lo strumento per lucrare attenzione. Parlo l’articolo che apre il numero de la Lettura da ieri in edicola, quello nel quale Marco Santagata raccoglie indizi sparsi nei romanzi della scrittrice che si cela dietro lo pseudonimo di Elena Ferrante per arrivare a formulare un’ipotesi sulla sua reale identità. Io non condivido: l’ho trovato interessante, ben costruito, ben scritto, ma soprattutto penso sia decisamente fuori luogo apparentarlo, come fa il mio amico, ai blitz di Striscialanotizia.
Decisamente fuori luogo anche il paragone col fotoreporter che viola la privacy di Salinger fotografandolo mentre fa la spesa al supermercato: esagerazione per esagerazione, sarebbe più corretto dire che l’articolo è un saggio di filologia che prova a dare attribuzione certa all’opera di un anonimo. Esagero, ripeto, ma è che ritengo pienamente legittimo che si indaghi sulla reale identità di chi pubblichi i suoi libri usando uno pseudonimo: direi che faccia parte del gioco cui è l’autore stesso ad aver dato il via.
Altra cosa che molestare chi pubblichi col proprio nome, ma intenda lasciare tutto il resto nel privato: qui è corretto denunciare l’intrusione, non nel caso di chi proprio sull’anonimato conta - può sembrare un paradosso, ma in tutta evidenza non lo è nel caso di Elena Ferrante - per dar enfasi alla qualità del prodotto, avvolgendolo nella fascinosa nube del mistero.
Qui però sarà il caso che confessi che a me i romanzi di Elena Ferrante fanno cagare, e che l’unico interesse che in me sollevano - peraltro assai blando - è proprio quello relativo alla reale identità di chi si nasconde dietro lo pseudonimo, sicché mi azzardo a dire che ho trovato più interessante l’articolo di Marco Santagata che le ultime pagine de L’amore molesto.
Non sono in grado di stabilire quanto il suo gioco al rimpiattino contribuisca ad esaltare il piacere della lettura in chi trova belli suoi mattoni, ma ritengo naturale che neanche lei abbia interesse a scoprirlo. Smettiamola dunque di immaginarcela importunata da insopportabili ficcanaso: la signora ne ha bisogno.

sabato 12 marzo 2016

Zompapérete

Contrariamente a quel sembra suggerire limmagine evocata dal termine, zompapérete (più frequentemente usato al femminile: zompapéreta) è solo in senso figurato chi procede sobbalzando (zompando) sulle proprie scoregge (pérete), perché invece è il risultato della crasi di onna (donna, qui inteso al pari del don preposto a un nome proprio maschile, come attributo di persona autorevole o rappresentativa, secondo il largo uso che ancora residua in gran parte dellItalia meridionale) e di Péreta (con attribuzione al termine dellantonomastico per la donnetta sciocca e supponente, incarnata dal personaggio che la tombola napoletana allega al numero 43 con limmagine di Onna Péreta for o balcone, la popolana che dispensa le sue presunte perle di saggezza al vicinato e a chiunque le passi sotto casa).
Appena qualche settimana fa, su queste pagine, abbiamo dedicato un fuggevole commento a un tizio che dal suo balcone sentenziava che «i fautori delle nozze gay e delle unioni civili sono animati dagli stessi principi cardine che avevano spinto all’azione più o meno sanguinaria i loro precursori [i giacobini] che al posto della bandiera arcobaleno sfoggiavano la coccarda tricolore» (Il Foglio, 28.1.2016). Pensavamo si trattasse di zompapérete occasionale, ma già due giorni dopo, quando labbiamo sentito dire che Lévi-Strauss ci avesse lasciato una «formidabile arringa in favore della “famiglia naturale”» (Il Foglio, 30.1.2016), a dispetto dellesatto contrario come siamo stati costretti a documentare, abbiamo avuto il sospetto che si trattasse di zompapérete professionale. Oggi, la conferma.
Recensendo un «pamphlet» (in realtà un sermone) di Jonathan Swift che le Edizioni Dehoniane hanno da poco mandato in libreria, Antonio Gurrado dice che il libriccino sarebbe il non plus ultra per «per smontare chi fa sarcasmo su chiesa e cristianesimo» (Il Foglio, 11.3.2016). Inutile correre a comprarlo, in lingua originale è online già da diversi anni: si tratta di On sleeping in church, lo trovate su gutenberg.org, che ospita lopera omnia di Swift (Vol. IV).
«Finalmente un pamphlet – scrive Gurrado – in cui vengono sbertucciati coloro che “con grande impegno e molto sarcasmo si fanno una scorta di battute umoristiche” per esercitare il disprezzo della fede e proclamare la propria superiorità cerebrale a un mondo che altrimenti li ignorerebbe; finalmente lo smascheramento di individui che “parlano in modo scortese e irriverente” per celare di essere “così ottusi da non darci altro che noiose ripetizioni e meschini, volgari luoghi comuni, così triti, così logori, così banali”. Di costoro viene denunciata “la rozza, evidente, inescusabile ignoranza degli stessi principii fondamentali della religione”, curiosa a trovarsi “in persone che attribuiscono tanto valore alla propria cultura” ma che in realtà “imparano meccanicamente una serie di buffonate che possono essere usate in tutte le occasioni”, “hanno un assortimento fisso di sarcasmi e riescono a essere estremamente spiritosi servendosi sempre degli stessi pretesti” per colpire il cristianesimo. Questi sarcastici che si ritengono eccezionali e illuminati dovrebbero apprendere che “chiunque è capace di immaginare un berretto da buffone sulla testa dell’uomo più saggio, per poi ridere della propria stessa trovata”.
In realtà, non è chiaro quali sarebbero gli argomenti coi quali Swift annichilirebbe la «sbruffoneria degli atei», anche perché afferma che, «of all misbehaviour, none is comparable to that of those who come here to sleep», a conferma del fatto che anche per lui, come per ogni pastore, il più temibile nemico della fede non è lateismo militante, ma lindifferenza che già ai suoi tempi serpeggiava nel gregge.
A parte occorrerebbe dire che un capolavoro come Gulliver’s travels e un gioiellino come A modest proposal sono di qualità molto al di sopra della media del corpo swiftiano, che per gran parte è grigio ciarpame nel quale non si trova molta traccia della straordinaria forza letteraria che la critica ha giustamente riconosciuto in quelle due opere dalla cifra estremamente originale, dalla scrittura eccezionalmente brillante, dalla vena sapidissima e arguta, dalla mirabile misura di paradosso e iperbole che ne è il tratto distintivo. Diremmo che di swiftiano Swift ha scritto solo Gulliver’s travels e A modest proposal, e che On sleeping in church può sembrare swiftiano solo a chi sappia che l’ha scritto Swift.
In definitiva, sembrerebbe che anche con Swift, come già con Lévi-Strauss, Gurrado abbia il vizietto di attribuire ad un autore quanto presume di poter leggere in quello che in questo caso definisce «livello esoterico», e che in realtà sarebbe il piano sul quale gli sembra legittimo conferirgli intenzioni né dichiarate né in altro modo rese esplicite, fino a distorcerne, come abbiamo visto nel caso di Lévi-Strauss, addirittura il contenuto: pérete, diremmo, che gli fanno correre il rischio di zompare giù dal balcone. 

giovedì 10 marzo 2016

Er Porchetta

Come ai craxiani preferivo Craxi, e i craxiani più fanatici, mossi da un craxismo quasi mistico, agli scaltri opportunisti dalla fredda e calcolata fedeltà a scadenza, sotto la quale costruivano una reputazione di craxiani per necessità storica, così preferisco Renzi ai renziani, e i renziani più ottusi, quelli che gli hanno venduto tutto il sangue e i due etti di cervello che si ritrovavano, a un tizio come Giachetti. Niente di personale, è una scelta - scusate la parola grossa - esistenziale: al furbetto bravo a cucirsi addosso la pelle del simpatico a tutti, che salta da una fedeltà all’altra lasciandosi dietro una tiepida scia di sorrisi, preferisco l’uomo di merda fiero di esserlo, il fetente buono per una sola stagione, capace di bruciarsi per poi rinascere dalle sue ceneri. Preferisco l’arrosto andato in fumo al paziente uomo di mondo che sa procurarsi quella deliziosa crosticina da porchetta rosolata a puntino, con le spezie giuste aggiunte al momento giusto.

mercoledì 9 marzo 2016

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Solo chi è in malafede può negare la gravità di quanto è stato ampiamente e incontestabilmente documentato da Fanpage, ma per affermare che il risultato delle Primarie tenutesi a Napoli debba comunque ritenersi fuori discussione non basta la malafede: occorre una robusta faccia tosta per negare levidenza e un fiero disprezzo per le più elementari regole democratiche, doti che non difettano agli sgherri di Matteo Renzi, nelle cui dichiarazioni a commento del ricorso presentato da Antonio Bassolino riverbera larroganza di chi si sente padrone del Pd e non tollera che si sollevino obiezioni sullesito di un voto che era proprio quello desiderato: a Valeria Valente saranno andati i voti di cosentiniani, di cuffariani, di poveracci che non ne conoscevano neppure il nome prima che li si portasse ai seggi mettendogli un euro in mano, ma quel che importa è che abbia vinto, non importa come, perché era la candidata gradita a Matteo Renzi. Lo scarto di voti che le ha dato la vittoria su Antonio Bassolino è così esiguo da porre seri dubbi sulla validità del risultato? Non importa, dice Matteo Orfini. Fa niente, gli fa eco Lorenzo Guerini. E in due non fanno un grammo di pudore. 

martedì 8 marzo 2016

Non c’è teoria, non c’è modello


La psicologia sociale piscia come un colabrodo, però, detto così, il concetto suona male. Diciamo, allora, che per la natura stessa del sociale, prodotto di fattori molto spesso assai difficilmente quantificabili e quasi sempre solo assai approssimativamente qualificabili, sembrerebbe ampiamente giustificato lo scetticismo sullefficacia del metodo scientifico applicato allo studio dei suoi svariati ambiti, e in primo luogo di quelli in cui il sociale si offre come oggetto di ricerca psicologica, dove i risultati, quandanche consentano la costruzione di modelli spesso assai suggestivi, di regola non rispondono ai requisiti di oggettività, affidabilità, verificabilità, condivisibilità e predittività, sui quali comunemente si misura il metodo scientifico, tuttal più rispondendo a quello di inficiabilità (termine che ritengo sia da preferire a quello di falsicabilità, la popperiana Fälschungsmöglichkeit, che di sovente ingenera pericolosi fraintendimenti), se non fosse che è questione ancora aperta se sia scienza solo ciò che permanentemente inficiabile (Karl Popper, Logik der Forschung, 1934) o ciò che di un modello riesce a fare un solido paradigma (Thomas Kuhn, The structure of scientific revolutions, 1962).
Così, forse, suona meglio, resta di fatto che, nonostante Gustave Le Bon (Psychologie des foules, 1895), Gabriel Tarde (Lopinion et la foule, 1901), Floyd Allport (Social psychology, 1924), Theodore Newcomb (Personality and social change, 1943), Solomon Asch (Social psychology, 1952) e Stanley Milgram (Obedience to authority, 1974), sul conformismo la psicologia sociale piscia come un colabrodo: ne sappiamo tutto, tranne come si realizza. Sappiamo cosa ne causa la propensione, cosa ne regge la tensione, cosa ne induce la precipitazione, cosa ne favorisce la diffusione, cosa ne rende possibile la cristallizzazione, tanto per riprendere lo schema proposto da Neil Smelser (Theory of collective behavior, 1963), ma non abbiamo alcun modello scientificamente valido per rappresentarcene il divenire, solo profili che potremmo dire letterari (in fondo pure il caso clinico e la storiografia sono generi letterari), che per lo più ricalcano il ritratto dellindividuo o la descrizione della massa affetti da pulsione gregaria (Sigmund Freud, Psicologia delle masse e analisi dellIo, 1921). È così che del conformismo sappiamo cause ed effetti, forme e modi, ma poco più di niente sappiamo sul come si realizza. Per meglio dire, ci manca una teoria del suo sviluppo: a fronte di innumerevoli esperienze individuali e collettive che per emblematicità ci illudono di poterne ricavare una, ci manca.
Così, guardando Barbara DUrso che intervista Matteo Renzi, si ha limpressione di poterne costruire un idealtipo – «il conformismo – ci si azzarda a dire – si realizza come resa per sfinimento della capacità critica» – ma subito si è costretti a una rettifica – «il conformismo – ci si corregge – si realizza come voluttà di resa» – ma pure così non si va più in là dellempirico: ad ogni applauso il mostro cresce, ma su ciò che accade sotto le file di scaglie che scivolano luna sullaltra distendendosi a ventaglio – su ciò che ingrossa questa ributtante bestia che ciclicamente esce dalla preistoria per esigere il tributo che ciclicamente la storia gli elargisce – non cè teoria, non cè modello.

lunedì 7 marzo 2016

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Da oltre un secolo sappiamo che solo in un ambito relativamente ristretto possiamo permetterci di continuare a fare un uso della rappresentazione del tempo come quella classica, valida in assoluto, in ogni punto dell’universo e lungo tutto il suo divenire: basta provare a uscire da quest’ambito, conservando del tempo l’idea che continua a funzionare alla perfezione quando vi si è dentro, per constatare quanto sia inappropriato ritenere, ad esempio, che la sua continuità sia omogenea: il tempo smette di essere un’entità autonoma, si dilata o si contrae in relazione agli stati della materia, per la quale, fuori dall’ambito relativamente ristretto dal quale tuttavia non ci è indispensabile esorbitare, vale quanto abbiamo detto per il tempo: la materia non è quello che ci appare: come provano a spiegarci i divulgatori scientifici nel loro eroico tentativo di aprirci al contro-intuitivo, «è fatta di onde».
Perché possiamo permetterci di non aggiornare i concetti di tempo e di materia? Perché la nostra vita può tranquillamente eludere la realtà sub-atomica e quella extra-galattica, restando nellambito relativamente ristretto in cui le leggi della fisica classica continuano a funzionare come sempre. In generale: per evitare la fatica di aggiornare un concetto, dobbiamo accontentarci di limitarne luso ad un ambito che però la conoscenza tende a restringere sempre di più. Volendo, potremmo tranquillamente riadottare il sistema tolemaico, ma a patto di non tentare viaggi interplanetari, necessariamente destinati al fallimento rinunciando a programmarne le rotte sulla base di quanto è implicito nel sistema copernicano. In definitiva, possiamo concludere in questo modo: solo lignoranza può rendere inscalfibile un concetto.

venerdì 4 marzo 2016

1989

«... ci sono topi tutti intorno,
topi in Via Frattina,
traversavano la strada tranquillamente
alle undici di mattina...»

Francesco De Gregori, 300 milioni di topi (1989)

La natura non esiste

«All’inizio di ogni discussione – ho scritto qualche settimana fa – andrebbe preliminarmente trovato, fra quanti vi partecipano, un solido accordo sul significato dei termini cui prevedibilmente si ricorrerà più di frequente, cominciando dal trovare una definizione pienamente condivisa dell’oggetto sul quale ci si appresta a discutere». È per questo che, nel rispondere alle obiezioni che mi sono state rivolte per lessermi dichiarato favorevole alla gravidanza surrogata, ritengo indispensabile chiarire il significato che annetto a termini come «natura» e «diritto», rammentando che il «surrogare» implica fin dalletimo la possibilità di un’opzione alternativa a quella considerata «naturale».
Due, infatti, sono i capi dimputazione che pendono su quanto ho scritto: non avrei preso in adeguata considerazione il fatto che la pratica è contro «natura», né che vi si ricorra per dare ristoro alla rivendicazione di un falso «diritto». In tal senso, non mi aspetto di poter trovare alcun accordo con quanti siano affezionati alla vetusta idea della natura come realtà autonoma dalla visione che su di essa è costruita da unautorità culturalmente egemone. Chi ha qualche consuetudine con queste pagine saprà che spesso ho stretto questo assunto nellaffermazione che «nulla è più culturale del concetto di natura», denunciando il vizio che le assegna dimensione creaturale. Qui, col preciso scopo di dichiarare impossibile ogni discussione con chi intenda mantenere il punto sulla natura come ipostasi di un assoluto, sarei tentato di tagliar corto dicendo che «la natura non esiste». Mi limiterò a dire, invece, che la natura intesa come ratio che informa la dimensione del reale, come codice di leggi anteriori e superiori alluomo, oppure – e peggio ancora – come regno in cui luomo è chiamato a farsi vicario di chi l’ha fondato, è invenzione assai simile a quella delletere luminifero, che tornò utile anche a sommi intelletti per dare spiegazione della propagazione delle onde elettromagnetiche prima che la teoria della relatività ristretta venisse a sovvertire la visione che si era sempre avuta del tempo e dello spazio.
Se «la natura non esiste», dunque, non esistono neppure «diritti naturali»? Non esistono, infatti. Non esistono, per lo meno, prima che siano dichiarati tali da unautorità culturalmente egemone. Ogni epoca costruisce una sua idea di natura e un suo diritto naturale, ogni epoca si illude di aver trovato la formula in cui si possa ragionevolmente racchiudere quanto sarebbe eternamente «naturale», tenendo fuori quanto non lo è e non potrà mai esserlo. E questo è possibile solo grazie allignoranza e alla superstizione che ogni autorità culturalmente egemone può consentirsi di elevare a sistema di valori. Nessuna discussione è possibile sulla gravidanza surrogata assumendo a legge eterna il sistema di valori attualmente vigente. Quindi mi scuso se lascio cadere le obiezioni che mi sono state rivolte senza affrontarle nel merito: le considero viziate in radice, cioè nella presunzione di farsi interpreti di una liceità morale che troverebbe fondamento in una «natura» immobile, dispensatrice di «diritti» preesistenti alluomo come prodotto della sua storia, e che la storia dovrebbe limitarsi a scoprire piuttosto che a creare.

giovedì 3 marzo 2016

martedì 1 marzo 2016

Riguardo alla gravidanza surrogata

Uno dei post più letti su queste pagine è Nichi Vendola non mi piace (Malvino, 25.10.2010), che ad oggi registra 67.721 accessi e ben 61 commenti (moltissimi tenuto conto che di solito cestino quelli impertinenti e offensivi). In quel post non ero affatto tenero con lallora governatore della Regione Puglia, né lo fui in Nichi Vendola non mi piace e non mi convince (Malvino, 21.12.2010), che seguì di lì a qualche mese. Per il primo dei due post lo spunto mi era dato da una sua frase riportata dal Corriere della Sera del 24.10.2010: «Io voglio parlare delle questioni eticamente sensibili, ne voglio parlare anche con la Chiesa»; per il secondo, invece, da unaltra frase che era riportata da il manifesto del 16.7.2010, ripresa, seppur non testualmente, da un editoriale di Ernesto Galli della Loggia (Lorecchino populista – Corriere della Sera, 21.10.2010): «Il capitalismo ormai non è solo incompatibile con la democrazia: è incompatibile con la vita».
Oggi, nel trattare della sua vicenda personale, mi sarebbe gioco facile tagliar corto con due grammi di sarcasmo. La vita del figlio che ha tanto desiderato non è stata resa possibile proprio grazie a quegli strumenti tecnici di cui il capitalismo si è appropriato per produrre plusvalore? In quanto al dialogo sulle questioni eticamente sensibili, provi adesso a discutere di gravidanza surrogata con la Chiesa: vediamo cosa ne ricava di costruttivo.
Comè evidente si tratterebbe di argumenta ad hominem tu quoque, dunque del tutto inservibili a qualificare unopinione sulla questione della gravidanza surrogata, che è quanto cui sono sollecitato da alcuni lettori, e che sarebbero tuttal più spendibili in chiave polemica, ancorché fallaci, contro il ricorso alla pratica. Io invece – e qui mi dichiaro – sono a favore, e credo che, tolto quanto strumentalmente le si oppone, le ragioni che portano a respingerla come pratica moralmente inaccettabile siano segnate esclusivamente dal pregiudizio, figlio dell’ignoranza.
Si è soliti dire, ad esempio, che il bambino sarebbe strappato alla madre. Falso: la madre biologica del bambino è la donatrice dellovulo, di regola diversa da quella che consente allimpiego del suo utero per la gestazione. Lutero, in questo caso, assume lo stesso ruolo che fino a qualche decennio fa hanno avuto le mammelle messe a disposizione dalla balia, figura che non era affatto concepita come quella di un soggetto sfruttato. Era pagata per il servizio che offriva, spesso indispensabile alla sopravvivenza di un neonato, ma nessuno si sarebbe mai sognato di considerarla una schiava. Il bambino che per mesi accoglieva in seno per dargli nutrimento non era suo e doversene separare quando iniziava lo svezzamento non era concepito come distacco tra madre e figlio. In più, nessuno si sarebbe mai sognato di parlare di «mammelle in affitto»: offriva un servizio sociale in cambio di una ricompensa, niente di più, niente di meno.
In quanto alla donazione dellovulo, non si capisce perché debba sollevare questioni eticamente più sensibili di quelle sollevate dalla donazione di uno spermatozoo, dunque davvero è incomprensibile comè che fra quanti si dichiarano contrari alla gravidanza surrogata – anche drasticamente contrari ad essa – vi sia chi non solleva alcuna obiezione avverso alla fecondazione eterologa.
Risibile, per finire, la questione relativa alla mercificazione del corpo femminile che sarebbe indotta dalla pratica della gravidanza surrogata, tanto più perché solitamente sollevata da chi non ha alcuna difficoltà a considerare legittimo disporre del proprio corpo al fine di procurarsi un utile, in tutto lampio spettro dellofferta delle sue parti e delle rispettive funzioni.
La mia impressione è che il giudizio negativo ampiamente riscosso dalla gravidanza surrogata dipenda per lo più dalla novità che introduce in una condizione – quella gravidica – che per sua natura è inscritta in una sfera simbolica nel quale il peso della retorica svolge ancora un ruolo preponderante. Probabilmente ci vorrà ancora molto tempo perché sia accettata come pratica legittima sul piano morale, la sua sorte seguirà di pari passo la rimozione dei pregiudizi che ancora avvolgono il momento del concepimento e della riproduzione. Intanto, auguri a Nichi Vendola e a Eddy Testa. Ne hanno bisogno perché una cosa è desiderare un figlio e unaltra è saperlo allevare: compito che esige forze sovrumane, non importa se la coppia sia omo- o eterogenitoriale. 

«Un patto tra scienza e fede»

L’articolo a firma di Giuseppe Remuzzi col quale s’apre l’ultimo numero de la Lettura ci offre un elenco delle più comuni balordaggini in favore di Un patto tra scienza e fede, dandoci modo di passarle in rassegna, a patto di non irritarci troppo per il fatto che anche in tale occasione avanzino pretesa di argomento.
«Fede e libertà a rigor di logica dovrebbero andare insieme». Scempiaggine che solo sull’ambiguità di un termine come «libertà» può azzardarsi a invocare il «rigor di logica» per millantare buonsenso. Si è liberi di aver fede, questo sì. Una volta avuta questa libertà, tuttavia, è nella natura di ogni fede l’insopprimibile esigenza di comprimere, in nome della propria, l’altrui libertà. Abbiamo frainteso cosa intendeva dire Remuzzi? Vediamo se dal modo in cui prosegue possiamo ricrederci. Scrive: «Oggi, come per molti versi in passato, il rapporto tra fede e libertà sembra venir meno. C’è chi viene ucciso a causa della sua fede e tanti che in nome di Dio giustificano barbarie e atti terroristici; come se dopo millenni di civilizzazione fossero ancora gli istinti più primordiali a prevalere sulla ragione». Non è sempre stato così? Quando la fede si è presa tutta la libertà che voleva, non ha regolarmente cercato di imporre quanto più poteva l’obbedienza ai suoi dettami? Quando trovava resistenza in un’altra fede, la regola non è stata quella di combatterla, quasi sempre senza disdegnare l’uso della violenza? La civilizzazione che ha messo un freno a questo andazzo non è riuscita a farlo solo fiaccando le pretese della fede fino a ridurne la rilevanza in ambito sociale con la secolarizzazione? E la violenza della fede non è tornata regolarmente a farsi viva proprio quando questo processo subiva una battuta d’arresto?
«Come uscirne?», chiede Remuzzi. Probabilmente sottraendo rilevanza sociale alla fede, consentendole di aver spazio solo nella vita privata degli individui. Per far questo, ovviamente, occorre che ogni tentativo di dare alla fede una dimensione comunitaria sia opportunamente sterilizzato con un progressivo indebolimento delle prerogative tradizionalmente concesse alle organizzazioni confessionali come soggetti di intermediazione tra fedeli e società. Né semplice da farsi, né consigliabile che lo si faccia in modo troppo rapido. L’occidente ha imboccato la via giusta con la rinuncia al «cuius regio eius religio» e il ripudio dell’istituto della «religione di Stato», che hanno accelerato il processo che ha condotto, almeno sul piano dei principi, all’equivalenza di ogni credo dinanzi alla legge. Negando alla fede il diritto di interpretare il vero come promanazione di una rivelazione non soggetta all’onere della dimostrazione, si è inceppato il meccanismo che produceva giurisprudenza in ossequio alla visione creaturale che la fede assegnava all’uomo, e questo era inevitabile accadesse con quanto la filosofia del diritto andava necessariamente recependo dal progredire della ricerca scientifica. In altri termini, è accaduto che la scienza ha fatto implodere la costruzione dell’umano da sempre funzionale alla riaffermazione della fede come irrinunciabile sostegno alla conoscenza e all’azione.
Per Remuzzi, invece? Cosa può assicurare all’umanità quel futuro che, a suo dire, sarebbe degno di essere vissuto solo conciliando fede e libertà? Con cosa si può salvare il cavolo di cui la capra ha sempre dimostrato di essere particolarmente vorace? «Con la scienza forse». Con la scienza? Sì – concede Remuzzi – «i rapporti fra scienza e fede sono stati sempre difficili e oggi per certi versi lo sono anche di più», ma perché disperare che la scienza non possa andare a braccetto coi dogmi di cui ogni fede non può fare a meno? Si potrebbe riprendere il tentativo di «conciliare scienza e fede» portato avanti dall’Aquinate: «Se filosofia naturale, che è poi scienza, e teologia sono in disaccordo, scriveva, ci sono tre spiegazioni possibili: forse la scienza non ha ancora tutte le evidenze che si potrebbero avere, oppure la religione non ha saputo interpretare in modo abbastanza accurato i testi sacri, ma potrebbe essere che né scienza né religione abbiano saputo arrivare abbastanza vicino alla verità. Non fa una piega e a pensarci bene è strano che partendo da presupposti così solidi (che venivano poi dalla filosofia greca, quella di Aristotele soprattutto, fatta di logica, matematica e fisica) scienza e fede non abbiano trovato il modo di superare la “doppia verità” e arrivare a una visione comune del mondo e del destino dell’uomo». Chissà, può darsi che tutto si sia arenato dinanzi allo scoglio di dimostrare scientificamente la resurrezione di Cristo, il suo essere presente in carne e sangue in una cialda di frumento e, prim’ancora, nella possibilità che fosse concepito senza che la madre avesse un rapporto sessuale. Sarà che «forse la scienza non ha ancora tutte le evidenze che si potrebbero avere» al riguardo, certo. Probabilmente sarebbe opportuno che la scienza sospendesse il giudizio, tanto più perché sarebbe scostumato pretendere dalla fede di non aver «saputo interpretare in modo abbastanza accurato i testi sacri». «Potrebbe essere che né scienza né religione abbiano saputo arrivare abbastanza vicino alla verità»? Chissà, può darsi che un domani si scopra che per partenogenesi una donna possa mettere alla luce anche un maschio o che la resurrezione della carne sia di fatto possibile grazie a qualche magica polverina. A una scienza ancella della fede non dovrebbe costare troppa fatica, via.
Tutto qui? Magari, d’altronde abbiamo detto che in questo articolo Remuzzi è particolarmente prodigo di corbellerie. E allora proseguiamo, perché, se fin qui ha bacchettato la scienza, ora viene la tiratina d’orecchio alla fede. Tutto poteva filar liscio con la scienza ancella della fede, poi la fede ha commesso uno sgarbo imperdonabile «con la condanna di Galileo». (Anche Remuzzi preferisce citarlo col nome di battesimo invece che col cognome, che è Galilei. Chissà perché, poi, scrive della condanna che la Chiesa comminò alle opere di Darwin rinunciando a citarlo semplicemente come Charles. Minuzie, passiamo al sodo.) «Le teorie e gli scritti di Galileo – scrive Remuzzi – non contraddicono del tutto l’idea di una teologia naturale (e non era nemmeno nelle sue intenzioni farlo), i fenomeni fisici si sarebbero comunque potuti spiegare come “cammino della creazione, secondo il disegno della infinita bontà, sapienza e potenza di Dio”. Insomma, si apriva un nuovo spiraglio, scienza e fede avrebbero potuto trovare un punto d’incontro più challenging come dicono gli anglosassoni, ma non meno stimolante». Di fatto la Chiesa non gradì lo stimolo. Possiamo rimproverarglielo? Sì, ma solo fino a un certo punto, perché la scienza, si sa, è serva che non sa essere arrendevole come sembra che auspichi Remuzzi, e cosa mi combina? Mi scodella un Darwin che «con la sua teoria dell’evoluzione rovina tutto». Un guaio, e sì che s’era detto che la Chiesa avrebbe potuto ammettere di non aver «saputo interpretare in modo abbastanza accurato i testi sacri». Niente, tutto va a puttane: «Un creatore adesso non serve più, da Darwin in poi si dovrà riconoscere che siamo frutto di un processo evolutivo governato sostanzialmente dal caso» e, quel che è peggio, «le evidenze a favore dell’evoluzione con il passare del tempo diventarono schiaccianti, specie da quando siamo stati capaci di decifrare il codice della vita». Un vero peccato, via, anche perché «in fondo basterebbe trovare un’interpretazione teologica della teoria dell’evoluzione; se fosse convincente e si basasse su argomenti logici e inoppugnabili potrebbe mettere d’accordo tutti». Già, chissà perché non la si trova.
Un guaio, un vero guaio: «Sarebbe un peccato se le discussioni mai sopite attorno a Galileo e a Darwin facessero perdere di vista tutto quello che in tutti questi anni la scienza ha avuto dalla Chiesa». E qui, prima di proseguire, occorre stropicciarci gli occhi per verificare se abbiamo letto bene. Sì, abbiamo letto bene, la scienza deve molto alla Chiesa: «Il supporto economico tanto per cominciare, che è servito alla scienza per crescere e affermarsi. Chi pagava nel Medioevo, un periodo fertile di scoperte scientifiche, perché preti e monaci potessero accedere a una formazione universitaria?». C’è da ritenere che qui Remuzzi, per alleggerire il pezzo, abbia voluto inserire una spiritosaggine. Onestamente, tuttavia, si tratta di roba che non fa ridere affatto. La Chiesa ha detenuto strettamente il monopolio dello studio e dell’educazione come strumento di egemonia culturale per secoli e secoli, al punto che chiunque volesse accostarsi al sapere era obbligato a incardinarsi nel corpo clericale: davvero vogliamo infinocchiare i gonzi spacciando loro l’immagine di una Chiesa che favorisce gli studi scientifici da un lato, come le arti dall’altro, per mero spirito liberale? Remuzzi sa che meno di un secolo e mezzo fa un papa scriveva a un re implorandolo di non favorire l’istruzione di massa, avvertita come una grave minaccia alla fede? No, c’è da supporre non lo sappia. «La genetica moderna, guarda caso, nasce nel giardino di un convento», scrive. E dove poteva nascere, visto che a consentire al clero di essere sollevato dalle incombenze del restante genere umano erano i poveracci costretti a sudare notte e giorno per poter pagare la decima? «Chi se non i gesuiti diffuse la scienza in tutta Europa?». Certo, furono loro: giacché «todo modo es bueno para hallar y buscar la voluntad divina», c’era chi doveva presidiare un campo nel quale cominciavano a metter mano pure i laici.
La tentazione di abbandonare la Lettura diventa a questo punto irresistibile, ma un poco di curiosità ancora ci trattiene. Di cos’altro potrà essere capace ancora, Remuzzi? Qui occorre aver pazienza e lasciargli scorrere di molto la penna: «Gli scienziati sono convinti che gli embrioni, quelli che se no si butterebbero via, possano, anzi debbano essere utilizzati per la ricerca con l’obiettivo che questo un giorno possa servire a curare tante malattie dell’uomo. Gli uomini di Chiesa sono decisamente contro; il loro argomento e che un embrione, per quanto fatto di poche cellule, sia già una creatura di Dio e l’uomo non ha nessun diritto di sopprimere una vita. Ma quando comincia davvero la vita? Su questo non c’è accordo nemmeno fra chi crede. Buddhisti, induisti e cattolici ritengono che la vita abbia inizio al momento del concepimento. Per i protestanti la questione è piu complessa e non c’è un’interpretazione univoca (forse al momento del concepimento o dell’impianto del prodotto del concepimento nell’utero e anche dopo). Per gli ebrei l’inizio della vita e un processo continuo, inizia 40 giorni dopo il concepimento e si completa nelle settimane successive. Per l’islam lo spirito entra nel feto dal quarto mese di gravidanza: e in quel momento che comincia la vita. “Dispute teologiche”? Mica tanto, queste teorie hanno una ricaduta sulla pianificazione delle nascite, un tema cruciale per il futuro del nostro pianeta, e sulla pratica della medicina. Al di la di utilizzare o meno le cellule embrionali c’è la questione della contraccezione. I buddhisti si oppongono a metodi contraccettivi che ostacolino l’impianto del prodotto del concepimento. I cattolici sono per i metodi naturali che prevedono l’astensione dai rapporti nei periodi fertili. I protestanti accettano farmaci contraccettivi e preservativi ma non la spirale e la contraccezione d’emergenza. La religione ebraica accetta sia contraccettivi orali che spirale ma proibisce il preservativo. I musulmani sono divisi su questo come su molti altri punti. Come si vede e tutto relativo e questi sono solo due esempi». Appunto, ma questo non lascia intuire che l’invocato patto tra scienza e fede sia destinato ad essere impossibile?
Macché, a fronte di ogni evidenza, che peraltro non fa fatica ad ammettere, Remuzzi non demorde: «L’intervento medico che ha contribuito più di ogni altro a proteggere la vita dell’uomo sono i vaccini. Ma cristiani ed ebrei hanno eretto barriere contro le vaccinazioni: “Chiunque procede alla vaccinazione cessa di essere figlio di Dio: il vaiolo e un castigo voluto da Dio, la vaccinazione e una sfida contro il Cielo”, diceva papa Leone XII alla fine del Settecento. La forza dell’evidenza scientifica poi ha prevalso e oggi non c’è più nessuno che metta in dubbio il valore delle vaccinazioni, nemmeno tra gli uomini di fede». Bene, ma è evidente, allora, che la questione si è appianata non in virtù di un patto, ma di uno scontro, e di uno scontro dal quale la Chiesa è uscita sconfitta. Su quali basi si sarebbe potuto stringere un patto tra chi era a favore dei vaccini e chi era contro? Così col trapianto e la donazione d’organi. Remuzzi riconosce che «sul trapianto, un altro dei miracoli della medicina, c’erano grandi perplessità all’inizio fra gli uomini di Chiesa e quello che ha suscitato maggiore emotività è stato il trapianto di cuore. “Noi riteniamo opportuno richiamare l’attenzione dei cattolici più riflessivi di non applaudire all’esperimento del chirurgo sudafricano perché ardito e nuovo, prima di aver valutato anche i fondamentali problemi umani e morali che esso implica”, scriveva Vittorio Marcozzi su Civilta Cattolica qualche settimana dopo il primo trapianto di cuore. E la Chiesa rimane fortemente critica nei confronti della donazione degli organi anche molto recentemente. “Quelli che la malattia o un incidente faranno cadere in coma irreversibile, saranno spesso messi a morte per rispondere alle domande di trapianto d’organo”. Sono parole del cardinale Joseph Ratzinger del 1991 riprese da L’Osservatore Romano. Poi le cose cambiano. Giovanni Paolo II definisce la donazione degli organi per il trapianto come “un autentico atto d’amore”; intanto però di trapianti ne erano già stati fatti più di un milione». Appunto, era impossibile continuare a osteggiarli, dunque era indispensabile cedere sul punto. Non si fosse proseguito nella pratica dei trapianti, il che di fatto escludeva ogni patto tra scienza e fede, quale risultato si sarebbe ottenuto? Ma come tira le somme, Remuzzi? Scrivendo che, «per questo e per tanto d’altro, noi medici non possiamo disinteressarci della fede». E certo che non possono disinteressarsene, ma per combatterne l’azione che immancabilmente si traduce in un freno ad ogni innovazione. Freno che quasi sempre è posto dall’osservanza a principi che hanno come fine primario quello di trattenere l’uomo in quella dimensione creaturale nella quale gli indispensabile la guida di un’autorità religiosa che di quella dimensione si dichiara interprete e custode, a fronte delle minacce che osano metterla in discussione. Prima fra tutte? La scienza, appunto.
Niente, Remuzzi si dice convinto sia «venuto il momento che scienziati, leader delle organizzazioni religiose e chi governa la sanità escano dai rispettivi ambiti e lavorino insieme per migliorare l’accesso alle cure di milioni di persone e poi per ridurre la povertà, che porta a malattie e morte». Al «rigor di logica» invocato nell’incipit, questo potrebbe aver luogo solo se scienza e politica accettassero i veti posti dalla fede alle pratiche che essa dichiara moralmente inammissibili. Su quali basi è possibile, allora, un patto che inevitabilmente impone limiti a ricerche e interventi che, solo dopo essere stati condotti contro la volontà degli uomini di fede, riescono a strappare il loro consenso, non di rado a fatica e con perduranti resistenze e riserve? Remuzzi non lo dice, ma insiste nel tentativo di far quadrare il cerchio: «Al di la delle discussioni di fine vita, sulle quali possiamo anche non essere d’accordo, sono ancora oggi donne e uomini di Chiesa che forniscono cure intensive e assistenza spirituale a chi sta per morire». Certo, ma proprio nel tentativo di continuare a negargli il diritto di autodeterminazione che dovrebbe legittimamente potersi sostanziare nella scelta eutanasica. Come per il resto, il soccorso portato all’uomo sofferente soddisfa i suoi bisogni solo se riconosciuti tali alla luce di ciò che detta la fede, e questo a voler trascurare quanto frutta il no-profit in termini di sovvenzioni pubbliche e di rientro sul piano proselitario. E allora da dove trae le sue speranze, Remuzzi? «Con l’Enciclica Laudato si’ pubblicata da papa Francesco l’anno scorso – scrive – il clima è cambiato e molti cominciano a pensare che ci siano le condizioni per un dialogo più favorevole fra scienza (medicina specialmente) e fede. Papa Francesco scrive: “La Chiesa non pretende di definire le questioni scientifiche, né di sostituirsi alla politica, ma invita a un dibattito onesto e trasparente, perché le necessità particolari o le ideologie non ledano il bene comune”, indicando che una discussione aperta su questioni scientifiche è ora possibile». Certo, ma ancora una volta si cerca di insinuare che il «bene comune» non sia il bene di ciascuno, così come liberamente e responsabilmente affermabile da ciascuno, ma il bene unico, quello valido per tutti, contro il quale il bene di ciascuno può costituire offesa.
Cerchi il dialogo, se vuole, il buon Remuzzi, può darsi gliene venga pure qualche utile – la Chiesa sa essere generosa con chi si presta ai suoi giochi – ma, col pretendere con ciò di aver sottoscritto a nome della scienza (tutta intera?) una tregua con la Chiesa, ci consenta una grassa risata. Sarà pure un buon nefrologo, come si dice, ma della Chiesa non ha capito un cazzo. 

lunedì 29 febbraio 2016

Conformismi


Quando si riesce a mettere al sicuro le fortune accumulate sgozzando e depredando, viene il momento di far dimenticare come si è riusciti ad accumularle, nel tentativo di lasciar credere che siano cadute dal cielo a premiare un eccezionale incrocio di virtù. È il momento in cui il nomignolo del delinquente diventa nome del casato, mentre i suoi misfatti vengono trasfigurati nei simboli del blasone, dove ben presto diventeranno leggenda di imprese eroiche. I modi diventano sempre più fini, il sangue diventa blu, il bottino dei saccheggi diventa possedimento, e dove prima i nemici pendevano ai ganci di macelleria si fa spazio alla pinacoteca, ben presto ricca di dipinti di rara bellezza, immancabili le ninfe al bagno, le scene tratte dalle sacre scritture, i ritratti del padrone di casa cui il pennello abbia saputo dare la patina duomo giusto, perfino pio. Guai al ladruncolo che allora penetri a palazzo per rubare un candelabro: ha sovvertito lordine del creato, ha violato la proprietà privata...
Ernesto Galli della Loggia lamenta l’arcigna arroganza di un certo conformismo «per il quale il passato è sempre sinonimo di sorpassato» e che «predica sempre un vibrante rifiuto morale per tutto quanto sappia di disciplina e di autorità, mentre è pronto all’approvazione incondizionata per ciò che appare “autentico” e soprattutto “libero”: meglio se all’insegna dell’“amore”» (Corriere della Sera, 29.2.2016). Savvede che sta lamentando il furto di un candelabro in casa di un malfattore di antica schiatta? Un conformismo lascia spazio a un altro, è così da sempre, ma siamo certi che quello vecchio, messo in discussione da quello nuovo, abbia le carte in regola per lamentare il modo in cui gli è fatta violenza e, primancora, il fatto stesso che gliene venga fatta?
Varrebbe la pena di affrontare una volta per tutte questa faccenda del nuovo conformismo lamentato dai difensori del vecchio conformismo, ma oggi mi sento fiacco. Se ne riparla. 


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domenica 28 febbraio 2016

Schadenfreude per tutti, e non se ne parli più

Chi voleva la stepchild adoption, e non l’ha avuta, si consoli buttando un occhio in campo avverso: quelli del Family Day sono incazzati neri, soffrono come bestie ferite a morte. Certo, il diritto di piena genitorialità concesso a entrambi i partner di una coppia omosessuale avrebbe dato dignità di vero e proprio matrimonio allistituto dellunione civile, ma di fatto adesso due lesbiche e due gay sono famiglie, poi al resto penserà la giurisprudenza, sentenza dopo sentenza. E certo, potrà irritare che in Italia ladeguamento delle leggi ai mutamenti della società proceda con ritardi che favoriscono la persistenza di grosse sacche di dissenso ad ogni mutamento, sarà frustrante, senza dubbio, ma la pazienza è la virtù dei forti, può darsi sia addirittura meglio che le cose si prendano il tempo necessario per farle digerire piano piano a chi ha stomaco delicatuccio. Chi voleva la stepchild adoption, e non l’ha avuta, rifletta a quanto è accaduto per la fecondazione assistita. Anche chi volentieri lavrebbe dichiarata fuorilegge, perché il Catechismo la vieta, dapprima è stato costretto a concederla, accontentandosi di renderla un faticosissimo percorso a ostacoli. Poi, uno dopo laltro, gli ostacoli sono venuti a cadere, e il cardinal Ruini è rimasto con un pugno di mosche in mano. L’esperienza insegna: non farsi trascinare nella chiacchiera sui Grandi Sistemi, strappare pezzo a pezzo quello che si può strappare e poi produrre casi emblematici da portare in Cassazione, alla Consulta, a Strasburgo.
Ma si consoli pure chi voleva che tutto rimanesse comera, che il ddl Cirinnà fosse ritirato in blocco, che fosse in questo modo proclamato linsuperabile primato della famiglia tradizionale: l’Italia è omofoba da sempre, e per molto tempo ancora un ricchione resterà un ricchione, per molto tempo ancora qualche dispettuccio glielo si potrà infliggere per fargli capire che quel boa di struzzo fucsia è contronatura. Lo stralcio della stepchild adoption è un bel premio di consolazione, via, e poi non è stata una bella soddisfazione poter ripetere per settimane, col sorrisetto obliquo sulle labbra, cui in sincrono il sopracciglio andava perfettamente parallelo, che al gay lutero manca? Certo, sarà uno schifo vedere due maschi tenersi per mano, sentirli dire che sono famiglia in forza di una legge che sovverte la Legge, ma in fondo sarà unoccasione per soffrire, e questo al cattolico-come-si-deve piace da morire. Massima goduria, poi, soffrire in compagnia di chi ti fa soffrire, perché non deve essere carino vederti scippata la stepchild adoption e trovare a consolarti lo stesso Scalfarotto che fino a due minuti prima giurava che si sarebbe fatto spellare vivo piuttosto che rinunciarci.

Insomma, via, Schadenfreude per tutti, e non se ne parli più. Tanto più che di quanto era in questione col ddl Cirinnà non sè parlato troppo neppure quando si è fatto finta di discuterne, anzi, di tutto si è discusso per non parlar di quello. E daltronde sarebbe stato inopportuno perché le unioni civili erano solo unoccasione per vedere in campo lalta politica di cui noi italiani siamo maestri insuperabili. Via, è stata una gran bella partita, ottime regie, splendide triangolazioni, fallacci micidiali, ma arbitro e guardalinee, comè giusto, hanno lasciato correre per non mortificare il gioco. E dunque finte e controfinte, dribbling e contropiedi, meline e deviazioni in calcio dangolo, entrate a gamba tesa e simulazioni di fallo, goal di tacco e traversoni a perdersi sul fondo, spogliatoi nervosissimi e autogoal in mezza rovesciata, perché sia chiaro che non è la politica italiana a vivere di metafora calcistica, è il calcio che cerca di imitarla, quasi sempre offrendo uno spettacolo assai più piatto.

venerdì 26 febbraio 2016

«Petaloso»

In linea di principio può essere considerato «ben formato» ogni aggettivo che intenda rappresentare un’abbondanza di quantità o una pienezza di condizione di quanto è espresso dal sostantivo da cui deriva e cui a tal fine sia stato apposto il suffisso «-oso». Non è un caso, tuttavia, se la lingua italiana non conti più di 750 aggettivi di questo tipo, a fronte di un numero di sostantivi che è almeno sessanta volte maggiore (a voler considerare solo quelli d’uso più comune, che secondo i vari Autori sarebbero tra i 42.000 e i 47.000): a una parola non basta l’essere «ben formata» per trovare ragione di quella frequenza, di quella estensione e di quella persistenza d’uso che la portano ad essere inclusa in un dizionario. Perché «la usino tante persone e tante persone la capiscano» occorre che la sua struttura semantica risponda a ben precise esigenze, prima fra tutte una solida relazione tra il significante e il significato.
Questo è il motivo per cui in ogni dizionario della lingua italiana troviamo «peloso» per indicare qualcuno o qualcosa «con tanti peli», ma in nessuno troviamo – chiedo scusa per il solo porgerlo ad esempio – «pianetoso» per dire di un sistema solare in cui orbitino molti pianeti. In questo caso, che poi è sostanzialmente analogo a quello di «petaloso», per dire di un fiore che abbia tanti petali, a rendere estremamente debole la relazione tra significante e significato è la neutralizzazione dell’effetto che si ritiene attivo nel suffisso «-oso»: neutralizzazione che procede dalla natura stessa dell’oggetto al quale si intende attribuire l’aggettivo, perché dove, se non su un fiore, è lecito attendersi dei petali? Dove, se non in un sistema solare, ci aspettiamo di trovare dei pianeti? Di più: è proprio di un fiore avere dei petali, è proprio di un sistema solare avere dei pianeti. Certo, su un fiore potremo avere pochi o molti petali, in un sistema solare potremo trovare pochi o molti pianeti, ma in entrambi i casi ci troviamo dinanzi ad aggettivi che non sono spendibili fuori dal contesto nel quale hanno preteso di aver ragione di nascere, e non è necessario un grande sforzo di intelletto per capire che perfino l’uso metaforico risulta fortemente inibito: è questo che li condanna irreparabilmente alloblio o li confina nell’idioletto di natura specialistica dal quale non hanno mai avuto la pretesa di uscire.
Non così per tutti gli aggettivi che sfruttano il suffisso «-oso» che fin qui hanno trovato accoglienza nei vocabolari della lingua italiana: in chiunque potremmo trovare la pienezza del «coraggio» che lo rende «coraggioso», e «peloso» potrà essere un uomo, un animale, uno stomaco, un tappeto, un frutto, perfino quel particolare genere di carità che impedisce di dire a una maestrina quanto sia cretina, spiegandole che anche dietro l’apparente follia che porta certi neologismi sulle pagine del Treccani, del Devoto-Oli o dello Zingarelli c’è una ratio che ne spiega la fortuna nel nodo tra struttura e funzione. Nodo così stringente da consentire di trarne regola: più fortunato è un neologismo, meno si è in grado di risalire con certezza a chi labbia coniato.
Questo, sul cuore della questione. Su tutto quanto in questi giorni ha fatto bozzolo attorno la vicenda che lha sollevata, cè Parsifal che ha scritto un post nel quale leggo così nitidamente le mie stesse impressioni che riportarne qui i passi salienti mi risparmia altra fatica: «Un bambino si inventa la parola “petaloso”, per indicare un fiore che ha molti petali. È normale: i bambini, mentre imparano l’italiano (ammesso che lo facciano ancora), si inventano delle parole. La norma vorrebbe che gli insegnanti, con dolcezza, correggano questa tendenza e insegnino a riconoscere le parole “vere” da quelle inventate. La maestra del bimbo in questione, invece, evidentemente mossa da smania per i venti minuti di fama, nientepopodimeno scrive alla Crusca e sottopone la nuova parola alla sua attenzione. Siccome anche alla Crusca non sono più quelli di una volta, si prendono il tempo di rispondere. La parola è tecnicamente ben formata, dicono, e per entrare nel vocabolario basta che la usino in molti. A questo punto entra in gioco il terzo fesso, quello collettivo: l’utente Twitter, e in “centinaia” (ma presto saranno migliaia) stanno re-twittando “petaloso” per farlo diventare popolare» (*).