«Dopo
aver accompagnato moglie e figlio alla stazione ferroviaria
mandandoli in vacanza nel Maine per farli sfuggire all’afa
estiva metropolitana di Manhattan, Richard Sherman rincasa»,
così recita l’incipit
della
trama di The
Seven Year Itch
(Billy Wilder, 1955), che in Italia arrivò sugli schermi col titolo
Quando
la moglie è in vacanza.
Canovaccio in tutto simile a quello dello scorso venerdì, eccezion
fatta per il rincasare: certo che Marilyn Monroe non potesse aver
preso in affitto l’appartamento
sopra il mio, non mi sono affrettato e, bighellonando in auto per la
città, mi son trovato nei pressi del Palazzo Serra di Cassano, sede
dell’Istituto
Italiano per gli Studi Filosofici, dove ho appresso si stesse tenendo
la presentazione di un libro, Storia
dell’Italia
corrotta di
Isaia Sales e Simona Melorio, edito da Rubbettino.
Niente di
comparabile allo spettacolo di una biondona che dà il fresco alle
sue grazie su una grata d’aerazione,
certo, ma la cosa si è rivelata d’un
certo interesse, sicché ho comprato il volume, un bel librone di 322
pagine che illustra tutti gli episodi di corruzione noti succedutisi in
Italia dall’Unità
all’altrieri:
doviziosa documentazione, ineccepibile trattamento delle fonti,
insomma, un onesto lavoro di scavo, tanto più encomiabile per la
cura riservata ai casi poco noti ai più, incontestabili sul piano
degli elementi addotti a prova ed emblematici della diffusione del fenomeno proprio perché sottratti all’effetto mitopoietico della dimensione dello
scandalo pubblico di più grande portata. Citarne qui qualcuno, se questa fosse una
recensione di Storia
dell’Italia
corrotta,
potrebbe tornar utile a consigliarvene l’acquisto,
ma il titolo del post non lo concede: questa vuol essere la
recensione di una recensione, quella che trovate a pag. 2 de Il
Foglio
di venerdì 21 giugno, a firma di Massimo Adinolfi (“La
storia dell’Italia
corrotta” che non spiega niente della nostra storia).
Recensione oltremodo malevola, il che di per se stesso non sarebbe
biasimevole, perché la stroncatura è quasi sempre un genere più interessante
della marchetta, oltre ad essere assai più nobile. Il problema sta nel fatto che una stroncatura
dev’essere
argomentata in modo stringente, senza lasciare il ben che minimo
appiglio al sospetto che la critica sia preconcetta o, peggio, sia
piegata a un fine diverso da quello di dimostrare che il libro in
questione non valga la pena di essere acquistato, mentre quella che
Massimo Adinolfi riserva a Storia
dell’Italia
corrotta è
argomentata in modo così sgangherato da offrire innumerevoli appigli
ad altrettanti sospetti. E non è tutto, perché questa
sgangheratezza s’addobba
della
sciagurata spocchia che pretende considerazione in cambio della
ruminazione di qualche garzantina.
Quello che pare aver maldisposto
Massimo Adinolfi nei confronti del libro, non sappiamo se
impedendogli di andar oltre le prime quattro pagine, le uniche che
prende in considerazione, è l’«accumulazione»,
figura retorica che si presenta in forma di elenco, e qui l’elenco
è quello di «re,
capi di governo, ministri, parlamentari, presidenti di Provincia,
presidenti di Regione, presidenti della Repubblica, sindaci,
assessori comunali, assessori provinciali, assessori regionali,
consiglieri regionali, consiglieri comunali, consiglieri di
circoscrizione, consiglieri di quartieri, consiglieri provinciali,
membri delle Comunità montane» coinvolti
in episodi di corruzione.
Non dovrebbe irritare il fatto che di
questi episodi siano stati protagonisti uomini che, a vario titolo,
erano tenuti alla tutela del bene comune, venendo poi meno a
quest’obbligo
istituzionale per perseguire, a discapito dell’interesse
pubblico, quello privato, senza avere in alcun conto le leggi dello
stato e quelle morali? No, quello che irrita Massimo Adinolfi è il
fatto che la lista «viene
giù fitta e insistente come una pioggia monsonica», anzi, come un «diluvio». Ma questa non è la sola «accumulazione»
che
lo irrita, perché c’è pure quella fastidiosa sequenza di «se»,
che apre ben 25 protasi («se
le società, pubbliche e private... se i manager, pubblici e
privati... se i grandi gruppi... se le grandi opere... se i
concorsi... se i partiti... se le professioni... se le banche... se
la magistratura...»),
ma che gli pare «chied[a]
di
essere letto come un “se è vero, come è vero, che”»,
per arrivare ad insinuare in forma di domanda retorica un assunto che
in realtà sarebbe fallace («come
si può pensare allora che la corruzione non sia un dato capillare,
un elemento di lunga durata della storia italiana, un problema del
nostro stato nazione?»).
Neanche sarebbe un’«accumulazione», quest’ultima, perché in realtà è un’anafora, ma Massimo Adinolfi ne è comunque tanto disturbato da non riuscire a produrre neppure la schifezza
della schifezza della schifezza di un’obiezione che sia degna di
dirsi obiezione a quell’assunto, se non quella che, a fronte delle
322 pagine zeppe di fatti circostanziati e documentati, obiezione non
è: tutta roba percepita, questa corruzione, e «Sales
e Melorio non fanno nulla per diminuire la distanza fra realtà e
rappresentazione».
Cosa avrebbero dovuto fare per diminuirla? Probabilmente sfoltire,
sfoltire, e su quello che restava essere più indulgenti, come
solitamente sulla corruzione è Il
Foglio,
il cui fondatore ha sempre sostenuto che la corruzione è un
ingrediente ineliminabile dalle forma di vita associata, concedendo
possa essere combattuta, ma senza metterci troppa indignazione,
arrivando addirittura a teorizzare che «in
politica non si tratta affatto di avere la capacità di “ricattare”
gli altri, di condizionarli ed eventualmente ricattarli, dove il
termine va inteso in senso politico, paralegale. Il punto
fondamentale non è che tu devi essere capace di ricattare, è che tu
devi essere ricattabile»; in senso «paralegale»,
ovviamente, dove il «para-»
sembra
essere proprio il margine di indulgenza da concedere a una rete di
rapporti che senza l’ineliminabile ingrediente della corruzione può
addirittura correre il rischio di lacerarsi.
Prendete Micromega
1/2002 e andate a pag. 139-140, è il punto in cui, conversando con
Piercamillo Davigo, Giuliano Ferrara illustra magistralmente questa sua
teoria del «paralegale»
come
statuto della politica:
«La
politica è senza dubbio il regno dell’ambiguità. Si distingue
dalla dimensione etica privata, personale, individuale, di coscienza.
E si distingue anche da una concezione lineare e non ambigua della
legalità. In altri termini: la politica, che è rapporto di forze,
ricerca del consenso, una delle manifestazioni del modo di
organizzarsi e convivere degli uomini, forse la più rilevante, è
un’altra cosa rispetto alla concezione lineare e autoreferenziale
della legalità».
Riesponendoci alla «pioggia
monsonica»,
diremmo che «re,
capi di governo, ministri, parlamentari, presidenti di Provincia,
presidenti di Regione, presidenti della Repubblica, sindaci,
assessori comunali, assessori provinciali, assessori regionali,
consiglieri regionali, consiglieri comunali, consiglieri di
circoscrizione, consiglieri di quartieri, consiglieri provinciali,
membri delle Comunità montane» sono
in qualche modo a
legibus soluti:
sembra corruzione, quella in cui vengono sorpresi, quando accade che
vengano sorpresi, ma la percezione è fallace, perché la rappresentazione è
ben distante dalla realtà, e la realtà è che non è corretto calcare a forza sugli episodi di corruzione di cui si macchiano i parametri adottati per quelli di cui si macchiano i comuni cittadini. In questo, allora, sì, «Sales
e Melorio non fanno nulla per diminuire la distanza fra realtà e
rappresentazione».
Ecco perché non è ricevibile la controbiezione che Simona Melorio
anticipava venerdì scorso, quando teneva a far presente che nello scrivere Storia
dell’Italia
corrotta si era deciso di rinunciare ad ogni approccio di tipo statistico, inevitabilmente
soggetto alle inferenze di tipo percettivo: non è ricevibile perché
è il semplice parlare di corruzione, ancorché documentata e
relativa a casi reali, a mettere in discussione lo statuto che rende
a
legibus soluti chi
è chiamato dalla politica a rivestire un ruolo istituzionale.
In tal
senso, forse, andrebbe rivisto il senso della recensione di Massimo
Adinolfi: più che una stroncatura di Storia
dell’Italia
corrotta,
è una marchetta alla teoria di Giuliano Ferrara, ovviamente col ritardo dovuto al fatto che fino a uno o due anni fa era consulente del Ministero della Giustizia. Questo consente, da
un lato, di trovare appiglio a ogni sospetto e, dall’altro,
di spiegare l’altrimenti
inspiegabile chiusa della recensione: «Rimane
il fatto –
scrive – che
con la corruzione e il suo carattere endemico non si spiega quasi
nulla della storia italiana: non si spiega né il fascismo né la
democrazia, né la scelta atlantica né il terrorismo, non il
miracolo economico e neppure le mafie. E allora a cosa serve questa
percussiva “Storia dell’Italia corrotta”?».
In quale punto del volume è dichiarata l’intenzione
di spiegare la storia italiana con la corruzione e il suo carattere
endemico? Gli autori non si azzardano a farlo neppure in modo
implicito, si limitano a considerare che i casi di corruzione
trattati coprano un arco temporale coincidente a quello che va
dall’Unità d’Italia ai nostri giorni, senza lasciare buchi, quasi sempre con ampie aree di sovrapposizione ed intersecazione. Quando poi scrivono che la
corruzione è da ritenersi «un
elemento connaturato al senso prevalente dello stato che si è
affermato lungo tutta la storia della costruzione della nazione»,
dove si legge, come crede di poter fare Massimo Adinolfi, che la corruzione ne sarebbe «costitutiva»?
Costitutivo
è ciò che concorre in modo essenziale alla formazione di qualcosa; connaturato
è al più ciò che vi radicato dentro ab
initio; insito ad essa, certo, ma donde se ne dovrebbe trarre che ne informa ratio e sviluppo?
Qui non possiamo glissare come abbiamo fatto sulla confusione tra
accumulazione e anafora, qui di «percussivo» ci par essere solo la malafede di Massimo Adinolfi. Perché questa Storia
dell’Italia corrotta ci
racconta episodi di corruzione verificatisi negli ultimi 150 anni,
ma in quale passaggio del libro si afferma che fu la corruzione a
dare forma e/o sostanza a fascismo, democrazia, scelta atlantica,
boom economico, mafia e terrorismo? E sì che in più di un caso alla tentazione si potrebbe anche cedere. L’assassinio di Giacomo Matteotti, che per consenso unanime degli storici segna una svolta dei tratti offerti dal fascismo, non si ebbe per impedirgli di rendere pubblica la tangente intascata dal fratello del Duce? Rompere l’alleanza di governo con comunisti e socialisti, in cambio di qualche milionata di dollari gentilmente offerti ad Alcide De Gasperi, non configura un atto corruttivo? Il denaro dato a brigatisti e camorristi perché fosse salvato il culo a Ciro Cirillo, e a meno di tre anni di distanza da quando con Aldo Moro era prevalsa la linea della fermezza, lo rubrichiamo a investimento pubblico?