Farete
fatica a trovare «valor» nello sterminato archivio dei Documenta Catholica Omnia,
che raccoglie gli scritti «omnium Paparum, Conciliorum, Ss. Patrum, Doctorum
Scriptorumque Ecclesiae», migliaia di autori lungo i venti secoli di storia
cristiana, ad occhio e croce oltre un chilometro di scaffali: per meglio dire, il termine comincia
a farvi capolino non più di un secolo e mezzo fa, per diventare di lì ad oggi
sempre più frequente, fino all’inflazione cui è andato incontro degli ultimi
due o tre decenni, soprattutto sotto il papato di Wojtyla e quello di Ratzinger. Anche fuori da quest’ambito, in realtà, farete fatica a
trovare «valor» prima della seconda metà dell’Ottocento e, quando lo troverete,
non avrà mai il significato che ha oggi, ma quasi esclusivamente quello allegato a «pretium» o a «aestimatio», sennò a «valetudo». Né c’è da stupirsene, perché «valeo» non può
che far riferimento a una valuta, cioè a
un sistema in cui un dato «valor» designa un livello di scala quotativa, che assume corrispettivo di misura ad essa correlata. Perché «valor» cominci ad acquisire il
significato che oggi lo inscrive nella sfera morale come incommensurabile virtù di un principio
– perché, in altri termini,
«valor» perda il senso del relativo che etimologicamente implica e assuma quello dell’assoluto che è fuori scala in quanto inestimabile e fuori mercato in quanto senza prezzo – bisogna aspettare la cosiddetta
«crisi nichilista»
del XIX secolo e la nascita di quella
«filosofia dei valori» che cerca di porvi argine. Degno di nota è il fatto che questa mutazione di «valor» da quantità relativa e particolare a qualità assoluta e universale arrivi alla teologia dalla filosofia, e non viceversa. In sostanza, si tratta di un rimedio tutto secolare
al «Gott ist tot»: il chierico lo fa suo non trovando altra soluzione efficace.
È in un passo di Holzwege (1950) che Martin Heidegger ci dà ottima sintesi di ciò che accade in quel periodo:
«Parlare di valori diventa abituale e pensare per valori diventa normale. [...] Si comincia a parlare di valori vitali, di valori culturali, di valori eterni, di valori spirituali, di qualità valoriali, arrivando a pretendere di trovare quei valori anche presso gli autori classici. [...] Nasce la filosofia dei valori, si costruiscono sistemi di valori,
l’etica indaga sulle stratificazioni dei valori, e anche la teologia cristiana prende a definire Dio, quello che fin lì è stato il summum ens qua summum bonum, come valore supremo. Si dichiara la scienza estranea al valore e si collegano i valori alle visioni del mondo. Il valore, ciò che ha valore, diviene un surrogato positivistico del metafisico». In chiosa Carl Schmitt vi appunta: «Una scienza basata sulla legge di causalità, quindi avalutativa, minacciava la libertà dell’uomo e la sua responsabilità religiosa, etica e giuridica. A questa sfida la filosofia dei valori ha risposto contrapponendo al regno di un essere determinato in modo esclusivamente causale un regno dei valori come regno della validità ideale» (Die Tyrannei der Werte, 1960). Fin lì il «valor»
aveva dato misura del «factus», ora il primo sta al secondo come il
«dover essere» all’«essere».
[Circa un secolo dopo, avremo un esemplare caso di «surrogazione positivistica del metafisico»
col prendere ad identificare la «persona»
nel suo dna: parafrasando
Schmitt, la scienza andava dimostrando che non si dà «persona» se non nel suo farsi, e cioè che non può darsi «persona» in uno stadio embriologico del sistema nervoso centrale comunque posteriore al momento dell’animazione, e allora l’anima si vide costretta a sloggiare dal cervello, dove aveva trovato rifugio dopo essere stata sloggiata dal cuore, trovandone uno nuovo nel corredo cromosomico. Nel tentativo di conservare alla
«persona» il suo statuto trascendente, lo spirito andò a trovare ipostasi nell’acido desossiribonucleico, e in pratica
l’anima si fece meme: a chi sosteneva
che la «persona»
nasce con la fusione dei gameti rimaneva solo il rompicapo di due gemelli omozigoti che devono spartirsi una sola anima e
l’imbarazzo di trovarsi insieme a Richard Dawkins a ritenere la vita un semplice vettore di senso. Infortuni di un Dio con la smania di incarnarsi e a cui la scienza si è ostinata a fare dispetti.]
Ciò premesso, possiamo sgnignazzare ferocemente alla tautologica affermazione che Bergoglio consegna a De Bortoli (Corriere della Sera, 5.3.2014): «i valori sono valori e basta», dice Cicciobello, e dunque non avrebbe senso dirne alcuni «negoziabili»
ed altri no. Come non esser solidali con quei cattolici che in questo papa vedono il liquidatore della baracca? Apre bocca solo per dimostrare quanto sia disperata la missione che si è posta e quanto ne sarà alto il costo. A chi ha cuore che la Chiesa sprofondi, un Bergoglio che segue a un Ratzinger suona come scricchiolio dopo scricchiolio, e non si fa fatica a immaginare la fifa a star lì dentro: è come vedere mamma che ogni sera si prepara per scendere in strada a battere sennò non si mangia, col rischio di non vederla più tornare a casa la mattina dopo, e non mangiare più lo stesso, in più dovendo piangere una madre morta da baldracca. È che non è facile correre dietro alle pecorelle scappate dall’ovile e intanto tener pure buone quelle vi sono rimaste dentro: più ti allontani, e non è detto che riuscirai a portarne indietro tante, più quelle che lasci incustodite te lo rinfacciano, perché sarà pur vero che lassù «ci
sarà più gioia per un peccatore convertito che per novantanove giusti
che non hanno bisogno di conversione»
(Lc 15, 7), ma quaggiù la cosa solleva più di un problema, che in sostanza è psicologico, ma ci mette niente a diventare ecclesiologico.
L’inversione è stata troppo brusca, d’altronde era indispensabile. Di fatto, da una Chiesa tutta introvertita nella difesa della tradizione sembra si sia passati ad una estroversione che molti considerano una resa alla modernità, e per molti versi non si può dare loro torto. Insomma, ne volano di pesanti, e fischiano di brutto. Il papa è il papa, è vero, e bisogna farselo piacere, al punto che più doloroso è lo sforzo e più Dio ne darà merito,
d’altronde questo qui è gesuita, quindi se lecca il culo al secolo sarà per incularselo meglio, ma est modus in rebus, cazzarola, non vorrà mica toccare la dottrina? Lì dentro ci sono i cosiddetti
«valori non negoziabili». Non vorrà mica che la misericordia faccia tabula rasa di ciò che è verità e giustizia?
Ecco in questione, appunto, quei «valori»
che dicono di un «dover essere», al venir meno del quale non si è neppure più cattolici, neppure più cristiani. In quanto tali, è vero, non v’è traccia nei Vangeli, né in Agostino, né in Tommaso, ma sono diventati «valori» in quanto beni trasmessi di generazione in generazione, ed è stato un «negotium»
ad aver dato loro una quotazione: dirli «non negoziabili» significa dichiararli «non ri-negoziabili», a differenza degli altri, e dunque tentare di metterli in cima alla scala dei «valori» correnti. Bene, arriva il fessacchiotto e dice che nessun «valore» è «negoziabile», e ti saluto il tentativo di far distinzione tra i tuoi, quelli assoluti, e gli altri, quelli relativizzabili.
Tutti i «valori»
sono «valori», nel senso che sono tutti inestimabili: nessuno ha intenzione di farne «negotium» per la semplice ragione che non è possibile, e allora ciascuno si tiene i suoi.
È come dire al mondo: Cristo si offre in eucaristia come specchio mandato in frantumi e in ciascuno puoi specchiarti per come puoi, se vuoi, via, prova. Potremo biasimare chi gli metterà il cianuro nel mate, a ’sto sciagurato?