Jonathan
Littell ha scritto un libro straordinario, Three
Studies after Francis Bacon, raccolti sotto il titolo di Triptych, di cui la traduzione a cura di
Luca Bianco, licenziata da Einaudi nel gennaio di quest’anno, si premura di restituirci
fin dal titolo e dal sottotitolo il tratto che l’autore ha voluto dare al suo
lavoro: Tre studi (non già su, ma) da Francis Bacon, che
insieme fanno un Trittico, a
riproporre anche nel taglio del saggio la caratteristica tripartizione dello
spazio scenico cui l’artista inglese ricorse in più occasioni (stanza come strofa, settore come tagliente, scansione come dissecamento,
ecc.). Al confronto, quello di Gilles Deleuze (La logica della sensazione – Quodlibet, 1999) si appalesa per quel girare
a vuoto di cui avevamo avuto sensazione e anche l’onesto sforzo di Saverio
Falcone (L’Edipo capovolto – La
biblioteca di Vivarium, 1998) si rileva non andato a buon esito, ma quello che
è davvero strabiliante sta nel fatto che il Bacon di Littell è più convincente
del Bacon offertosi nelle tante interviste concesse a Jean Clair, Jacques
Michel, Michael Peppiatt, Maïten Bouisset, Henri-François Debailleux (raccolte
in Intorno la pittura – Graphos,
2000), Michel Archimbaud (Conversazioni
– Le Mani, 1993), David Sylvester (La
brutalità delle cose – Quaderni Pier Paolo Pasolini, 1991): risulta evidente
per piena argomentazione che «Bacon
mentiva di continuo […] perché non voleva che la gente arrivasse troppo
velocemente a scoprire ciò che in realtà era ovvio: vale a dire che i suoi dipinti
raccontavano storie, storie diabolicamente intelligenti ed enigmatiche, storie
talmente intime che spesso forse nemmeno lui sarebbe stato disposto ad
ammettere con se stesso che la nuda verità del proprio essere era stata
improvvisamente proiettata lì sulla tela […] Le ostinate bugie servivano a questo
scopo: avvertivano gli spettatori di non contare su Bacon per una spiegazione» (pag.
28). Da questo assunto parte l’affascinante analisi formale del testo pittorico
e – qui è la novità – rinunciando a voler fare dell’artista il controllore dell’effetto,
ma finalmente ridandogli la dimensione di coagonista del caso che traduce in
espressione il tentativo di impressione, giacché «lo sguardo non è mai innocente» (pag. 54) e l’errore più grave che
si possa commettere con un artista tanto istintivo come Bacon è il non voler
capire che «la figura è l’oggetto del
dipinto [mentre] il soggetto […] è la
pittura in sé. È la pittura a parlarci di ciò di cui essa stessa tratta»
(pag. 45). L’azzardo, la violenza, il collasso della materia, l’ombra che si
prolunga in carne (e non viceversa): Bacon – scrive Littell – è la più felice
contraddizione del tanto scontato, quanto miope, e forse addirittura ottuso,
convincimento che il capolavoro sia la perfetta realizzazione di un’idea. È che
l’idea viene a realizzarsi con la pittura, attraverso essa.
giovedì 20 marzo 2014
mercoledì 19 marzo 2014
L’argomento più forte
L’argomento
più forte in favore di Matteo Renzi, e questo dà il senso di come siamo messi
male, è quell’anticipo di fiducia che alcuni ritengono necessario concedere a
chi sta al timone della barca, non importa come ci sia arrivato, e ancora non è
andato a sbattere contro uno scoglio, non importa se al timone stia da troppo
poco tempo perché la cosa possa aver maturato un qualche credito. Si tratta
della fiducia che serve a esorcizzare la paura di andare a sbattervi, e che si
spera sia tanto più efficace quanto più cieca: a sollevare dubbi sulle capacità
del timoniere, allora, ci si guadagna la fama di chi porta iella, e a segnalare
gli indizi della sua inettitudine, poi, può addirittura scattare l’imputazione
di disfattismo. L’amore per la barca si dimostrerebbe facendogli i migliori
auguri o almeno stando zitti per non distrarlo: c’è burrasca, ma il tizio
ostenta sicurezza, e in ogni caso sembra animato da buona volontà ed
entusiasmo, perché rompere il cazzo con presagi di sventura? Lasciatelo fare, è
la parola d’ordine, proviamo, chissà non sia quello giusto. In buona evidenza, l’anticipo di fiducia
che si concede a Matteo Renzi è l’altro volto della disperazione, quella che spera
contro se stessa, e che per farlo deve sospendere ogni ragione, salvo il pentirsene
quando la barca va a sbattere contro lo scoglio. Anche allora, tuttavia, per potersi
assolvere, quanti sono stati in solido i corresponsabili del disastro devono compiere un altro esorcismo: convincersi che la fiducia concessa
con tanta leggerezza sia la prova della loro innocenza. Non riusciranno mai a
capire che i responsabili del naufragio sono loro, non possono. Legati al remo
con una catena o con un cocktail in mano sul ponte di prima classe, hanno in comune la stessa idea di barca: quel legno è di tutti, ma non di ciascuno.
lunedì 17 marzo 2014
Teoria generale della critica
Quest’anno
ricorre il 40° della pubblicazione di Teoria generale della critica (Einaudi, 1974), un libro che conserva intatte la densità e la profondità di riflessione
che alla sua uscita ne fecero un caso. Non è esagerato affermare, infatti, che il sistema cui dà vita Cesare Brandi spazza via i cascami della già fatiscente estetica crociana. Dalla letteratura al teatro, dall’architettura al
cinema, dalla pittura alla musica, lo studio mantiene la costanza di un rigore più
unico che raro. Un libro da leggere o da rileggere.
domenica 16 marzo 2014
Infortuni della memoria
Su la Repubblica di domenica 16 marzo, in
anticipo di qualche mese, Eugenio Scalfari commemora Enrico Berlinguer nel
trentennale della morte e, al netto di qualche cedimento all’assurdo («la sua somiglianza al ruolo di papa
Francesco»), al desueto («ploro» in
luogo di «compianto») e all’oleografico
(«era timido, era riservato, era
prudente, era moralmente intransigente»), dimostra di non aver capito un
cazzo del triennio 1979-1981, uno dei momenti chiave della storia politica italiana,
sennò di aver capito fin troppo bene, ma di aver rimosso, peraltro in modo
assai maldestro, una delle tante cantonate prese da giornalista con la fissa d’essere
demiurgo. Quella, infatti, è la stagione in cui el Fundador si illude che
Bettino Craxi voglia farsi levatrice di un polo laico che raccolga socialisti,
repubblicani, socialdemocratici e radicali, per coalizzarsi col Pci in un’intesa
paritaria e farsi alternativa alla lunga e incontrastata egemonia
democristiana. Propendo per la seconda ipotesi, perché ritengo assai
improbabile non abbia letto le note e gli appunti riservati che Antonio Tatò
scrisse in quegli anni al segretario del Pci e che Einaudi ha raccolto una
decina d’anni fa in un volume curato da Francesco Barbagallo (Caro Berlinguer, 2003): in quelle pagine
c’è prova irrefutabile del fatto che Enrico Berlinguer non ci credesse affatto
e che in buona sostanza lo illudesse, come Bettino Craxi illudeva Marco Pannella,
in ciò chiudendo il paradigma che vuole sempre cornuto e mazziato il «laico»
che pretende di dialogare con l’elettorato di sinistra interloquendo col
capobastone che è riuscito a fidelizzarlo.
[...]
«La
magia richiede una tacita cooperazione del pubblico col mago,
un
abbandono dello scetticismo o quella che è descritta a volte
come
una sospensione volontaria del dubbio.
Ne
segue immediatamente che, per capire i meccanismi della magia,
per
svelarne i trucchi, dobbiamo cessare di collaborare»
Carl
Sagan, Il mondo infestato dai demoni, Baldini & Castoldi 1997
L’altra sera, a Bersaglio mobile (La7, 14.3.2014),
c’era un Freccero che mi pareva un Machiavelli sputato – naturalmente un Machiavelli al passo coi tempi – che di Renzi mi faceva un elogio appena un
po’ più ruffiano di quanto Machiavelli me l’avrebbe fatto del Valentino tra una partita a trich-trach e un bicchiere di Brunello, ma tutto sommato tollerabile, come lo è il cedimento
all’entusiasmo nell’entomologo che illustra l’epica dello stercorario. Voglio dire: era tutto un «così si fa», «dio, quanto è bravo»,
«ma bel figlio di puttana», detto però da uomo di scienza, che s’incanta dinanzi alla congruità del mezzo al fine, dove il fine è la conquista di quell’elettore che ha «l’intelligenza di un ragazzino di 12 anni, e nemmeno dei primi banchi», come lo definì Berlusconi, e il mezzo è quel saper bucare il video che cinque secoli fa, all’osteria, avremmo detto «laudalibilissima cosa in uno principe trovarsi». Insomma, Freccero mi ha sollevato il velo. E non è che sotto ci fosse un Renzi diverso da quello che intravvedevo, ma la nudità ha tolto malizia al velo, come il sottrarre categoria morale alla politica toglie fetore alla merda. Che resta merda, ma è prodotto finale di una funzione espletata da un apparato, come il consenso lo è dell’autodigestione della capacità critica.
venerdì 14 marzo 2014
giovedì 13 marzo 2014
[...]
Parliamoci
chiaramente: io cercherò di non essere aggressivo o sprezzante, tu cerca di
rispondere alle domande senza svicolare, e soprattutto rispondi senza sorridere, ché hai un sorriso che mi sta sul cazzo. Vieni sulla pubblica piazza a vendere
il tuo set di pentole: sedici tra pentole, pentoloni e pentolini, padelle
grandi, medie e piccoline, e relativi coperchi, cui aggiungi un mestolo, un
forchettone e un batticarne, otto coltelli, un tagliere, in più offri in omaggio un
frullatore, un televisore da 17 pollici e un simpatico zerbino che a poggiarci
i piedi sopra sbrilluccica di lucette e una vocina esclama: «Welcome!», e vendi il tutto a
centonovantanove euro, dilazionabili in trentatré comode rate, senza anticipi e
senza interessi, col diritto di partecipare all’estrazione di un premio, una
crociera ai Caraibi per due persone della durata di dodici giorni. Ora, col
massimo rispetto, dov’è la copertura economica? O vendi robaccia, e allora si
tratta di truffa, o è refurtiva di qualche rapina a un tir, e allora è
ricettazione. Tutto questo sbracciarti, poi, questo tuo scilinguagnolo da seduttore
di vecchine rimbambite, questo strafare che qualche adolescente brufoloso e
balbuziente potrebbe anche scambiare per disinvoltura da ganzo, avrà un prezzo? Voglio
sforzarmi a crederti: vivi per strappare sorrisi coi tuoi affaroni che in
realtà sono regali, ma chi te li passa, Babbo Natale?
martedì 11 marzo 2014
Poi, eventualmente
Seguo
la diretta parlamentare sulla legge elettorale e devo prendere atto che
centrodestra e centrosinistra sono due facce della stessa immonda cricca. Ora, chi ha qualche consuetudine di queste pagine sa
bene cosa io pensi del M5S. Bene, rimango dell’idea più volte espressa – si tratta
di un movimento fascistoide in mano a due loschi avventurieri – ma quest’Italia
– l’Italia di Renzi e Berlusconi – merita che il M5S le dia una purga. Non è la
prima volta, non sarà l’ultima, che il tanto peggio sia di fatto il tanto
meglio, e oggi penso che ci siamo proprio. Poi, eventualmente, domani cambierò idea e
mi pentirò di averlo scritto, ma oggi questo paese mi sembra meritare un M5S al 37%, e al
primo turno.
[...]
Fin dal suo farsi la nuova
legge elettorale promette che sarà una vera merda, ma per fortuna abbiamo una Consulta che
sorveglia attenta e prontamente, tra una dozzina d’anni, la straccerà perché incostituzionale.
Pretendere che se ne accorga il Quirinale, le neghi la vidima e la rispedisca
alle Camere sarebbe chieder troppo, perché si sa che Napolitano è uno che non esorbita
di un angstrom dal suo ruolo e non interferisce nella fisiologica dialettica tra due associazioni a delinquere che tentano un accordo.
Contro le cosiddette «quote rosa»
Una
maggior presenza delle donne nella politica e nelle istituzioni è cosa auspicabile,
ma pensare di rimuovere gli ostacoli di natura culturale che vi si oppongono con
le cosiddette «quote rosa» è da folli, tanto più con un sistema elettorale che
preveda «liste bloccate», perché un maggior numero di donne ad essere candidate,
prima, ed elette, poi, si otterrebbe in patente contraddizione al dichiarato proposito
di dar loro pari opportunità di competizione affinché ne siano premiati gli eventuali
meriti, e non capisco perché a insistere nel pretendere che ai partiti sia
imposto per legge di mettere in lista un numero di femmine pari a quello dei
maschi siano proprio le donne arrivate in Parlamento solo per il buon posto che
erano riuscite ad ottenere nelle «liste bloccate» in cui erano candidate, e non
in forza alle preferenze degli aventi diritto al voto: se nell’ordine di lista
hanno ottenuto un posto che le ha favorite rispetto a un candidato maschio,
sarà stato senza dubbio per meriti che non hanno bisogno, dunque, di essere
altrimenti garantiti. Voglio dire: non sono proprio loro la più evidente prova
che si può arrivare in Parlamento, anche se donne, in virtù delle proprie
qualità? Dando per scontato che queste qualità abbiano avuto congruo
riconoscimento nella loro elezione, e che si tratti di qualità che possono
essere apprezzate di là da ogni differenza di genere, perché tanto impegno in
favore delle «quote rosa» e non contro le «liste bloccate»? Quale resistenza hanno incontrato per riuscire ad arrivare in Parlamento e ora si impegnano a rimuovere in favore delle donne che abbiano intenzione di percorrere la stessa strada? Se si tratta di una resistenza che cede dinanzi al merito, che bisogno c’è di rimuoverla?
lunedì 10 marzo 2014
[...]
Molto
probabilmente è questo il brano cui Luciano Canfora fa cenno nel capitolo
finale de La trappola - Il vero volto del maggioritario (Sellerio, 2013) quando
cita La giornata d’uno scrutatore: scrive che il caso-limite descritto da Italo
Calvino – i portatori di gravi handicap mentali, ospiti del Istituto Cottolengo,
cui le suore riuscivano a strappare il voto per la Dc – oggi «ha assunto nuove
forme, talora deprimenti, comunque pervasive e non facilmente sanabili» e si
chiede se «non rest[i] che accettare la difficile convivenza tra diritto al
suffragio e nuovi “raffinati” analfabetismi, non facili da contrastare o sanare»,
com’è nel caso di quello che affligge il «mondo plasmato dalle tv commerciali e
dall’ininterrotto martellamento seduttivo dei valori, miti e modelli che essere
trasmettono». Con ciò è messa in discussione la prassi democratica col più vecchio degli argomenti usato dai suoi nemici? No,
risponde, però, «anche rispetto a questo ineliminabile inconveniente del
suffragio universale, il sistema elettorale proporzionale può rappresentare il
male minore e, in parte, persino un rimedio. Esso evita, infatti, che una forza
politica capace di convogliare su di sé le simpatie degli elettori meno
preparati possa trovarsi grazie a un “marchingegno” maggioritario, a fare un
indebito “pieno” di eletti assicurandosi così una schiacciante e devastante
maggioranza parlamentare. Il meccanismo proporzionale costringe i partiti ad
essere veramente tali, cioè a guadagnarsi davvero, e quotidianamente […]
costringe[ndoli] […] a ridiventare veicolo di educazione politica di massa».
Bene, è
almeno da tre anni a questa parte che m’intrattengo su temi che sono strettamente correlati alla questione sollevata in questo smilzo ma prezioso libricino di Luciano Canfora. Ho affrontato il problema della leadership di tipo carismatico, delle diverse forme di deriva populista, dell’insidia posta negli strumenti di democrazia diretta (il referendum, innanzitutto), del mito della governabilità e dei suoi perniciosi effetti collaterali, sempre a un passo dal tirare i fili, senza mai farlo. È che a tirarli ne sarebbe uscito un saggio in forma edittale, sennò una sorta di manifesto, roba che di solito regge un noi che la mia perfetta solitudine non mi consente.
Potevo solo permettermi un anch’io e Luciano Canfora mi dà questa occasione.
L’analfabetismo civico della gran parte degli italiani, il pauroso deficit di sensibilità democratica della nostra classe politica, la costante tentazione all’irresponsabilità che rende così frequente il cedimento al servaggio familistico, clientelare e corporativo,
l’impossibilità di sperare che tutto questo possa aver fine in tempi brevi mi fanno convinto proporzionalista.
domenica 9 marzo 2014
[...]
Il
giorno che un bambino delle elementari, nella cui aula sia andato in visita Matteo
Renzi, dovesse alzarsi dal suo banco e dire: «Parla, ma non dice niente!»,
saremmo alla parafrasi de I vestiti nuovi dell’imperatore, ma ho i miei dubbi
sul fatto che la maestra possa dire: «Cazzo, è vero!», tanto meno che le cose
mettano come nella fiaba di Hans Christian Andersen. Nel caso capitasse, valga
il presente promemoria: Fabio Fazio reggeva lo strascico a uno che era nudo, e che
per giunta ce l’aveva pure piccolo.
San Girolamo che estrae la spina dalla zampa del leone
Il San Girolamo che estrae la spina dalla
zampa del leone che più mi piace tra quelli che conosco è di
Defendente Ferrari, un piemontese che visse tra Quattrocento e Cinquecento e
del quale ci sono rimaste solo due dozzine di dipinti di certa attribuzione
e scarsissime informazioni biografiche. Pittura non eccelsa, in realtà, tanto
meno nel caso di questo San Girolamo,
che è forse fra le sue cose peggiori, a cominciare dalla scarsa padronanza nel
trattare la prospettiva, per non parlare dell’incongrua ombreggiatura. E tuttavia il dipinto ha un elemento che lo rende notevole anche al confronto con quelli sullo stesso tema per mano di due giganti come il van der Wayden e il Pinturicchio: il leone del Ferrari, che pure ha
posa innaturale,
anatomia da stemma
araldico, improbabile criniera, ha espressione umana. Quegli occhi volti al cielo sono una trovata di grande effetto, antromorfizzano il bestione fino al tratteggio psicologico: si riesce a stare nella sua pelle, si sente quanto soffra, poverino, quanto gli costi star lì a farsi specillare la zampa, al punto che par quasi di sentirne il suo sordo mugolio a fauci serrate. Un piccolo miracolo di pathos, direi. Tanto più sorprendente, forse, proprio perché tutto intorno è crosta.
Così leggendo Il Foglio di sabato 8 marzo: il solito quadretto da due soldi, ma al centro un bel bestione sofferente, e che spina. Non proprio un sordo mugolio a fauci serrate, ma insomma...
Così leggendo Il Foglio di sabato 8 marzo: il solito quadretto da due soldi, ma al centro un bel bestione sofferente, e che spina. Non proprio un sordo mugolio a fauci serrate, ma insomma...
«È difficile parlare della realtà umana, di noi, della mezza o intera verità che
esprimiamo nella nostra vita, nella scrittura, nella letteratura, nel pensiero di
Dio e nelle sue eventuali conseguenze morali. La struttura del peccato è obsoleta.
Nessuno bada più alle faccende che implicano questioni come la generazione, il
futuro, la stabilità e il senso del mondo. Non fanno parte dell’agenda
digitale, non entrano nei programmi dei governi e delle opposizioni… I figli
senza babbo né mamma, o con uno dei due se va bene, sono un non-problema, che
tra l’altro adesso si potrà risolvere con le adozioni in famiglia di babbo e
babbo, di mamma e mamma… Fino a ieri era cosa da combattere in Zapatero, nella
movida europea, nelle intemerate dell’Onu, in qualche facoltà decostruzionista
di gender studies, in legislazioni eutanasiche o eugenetiche demenziali, ma pur
sempre prodotte da stracci di parlamenti, buone per chiedere il consenso a un
bambino per la sua uccisione con la stessa disinvoltura con cui si chiede a
Elton John il consenso per un’adozione sua e del suo compagno-marito. Ora è
diverso. Ora c’entra il papa in persona, nella sua penitudo potestatis, non so se
mi spiego, lui che è vestito di bianco per ragioni serie, non solo liturgiche.
Che rappresenta o dovrebbe rappresentare l’innocenza o l’aspirazione
all’innocenza del desiderio. Ora in tutte le sue forme la colpa è diventata
interpretazione. Voglio dunque posso. Faccio liberamente. Vade retro chi è sul
mio cammino. Lapidate i lapidatori. Il nostro superomismo ginnasiale e nichilista
ha ormai dalla sua un atteggiamento di benevolenza, di tenerezza, che proviene
dalla cattedra più alta dello spirito, roba che si può finalmente santificare in
quaresima... La pillola
abortiva è già arrivata nell’emporio della democrazia riproduttiva, i futuri penitenti
la possono ordinare per eBay o ti viene porta (venduta) in una regione
meravigliosa, la Toscana, dove abolirono un tempo la pena di morte. Tutto si può
fare quel che si può fare. E la facoltà etica di farlo non è più in
discussione. Questo è il fatto, Ratzinger dixit e previde. Ora ai fatti bisogna
conformarsi. Un papa ha dovuto abdicare, e lo ha fatto con entusiasmo profetico
nonostante la sua stanchezza, e anche noi dobbiamo su queste cose abdicare…».
E manco un San Girolamo a levargli la spina dalla zampa, poverino. Un papista senza papa, ahi.
venerdì 7 marzo 2014
Sui valori, negoziabili e no
Farete
fatica a trovare «valor» nello sterminato archivio dei Documenta Catholica Omnia,
che raccoglie gli scritti «omnium Paparum, Conciliorum, Ss. Patrum, Doctorum
Scriptorumque Ecclesiae», migliaia di autori lungo i venti secoli di storia
cristiana, ad occhio e croce oltre un chilometro di scaffali: per meglio dire, il termine comincia
a farvi capolino non più di un secolo e mezzo fa, per diventare di lì ad oggi
sempre più frequente, fino all’inflazione cui è andato incontro degli ultimi
due o tre decenni, soprattutto sotto il papato di Wojtyla e quello di Ratzinger. Anche fuori da quest’ambito, in realtà, farete fatica a
trovare «valor» prima della seconda metà dell’Ottocento e, quando lo troverete,
non avrà mai il significato che ha oggi, ma quasi esclusivamente quello allegato a «pretium» o a «aestimatio», sennò a «valetudo». Né c’è da stupirsene, perché «valeo» non può
che far riferimento a una valuta, cioè a
un sistema in cui un dato «valor» designa un livello di scala quotativa, che assume corrispettivo di misura ad essa correlata. Perché «valor» cominci ad acquisire il
significato che oggi lo inscrive nella sfera morale come incommensurabile virtù di un principio
– perché, in altri termini,
«valor» perda il senso del relativo che etimologicamente implica e assuma quello dell’assoluto che è fuori scala in quanto inestimabile e fuori mercato in quanto senza prezzo – bisogna aspettare la cosiddetta
«crisi nichilista»
del XIX secolo e la nascita di quella
«filosofia dei valori» che cerca di porvi argine. Degno di nota è il fatto che questa mutazione di «valor» da quantità relativa e particolare a qualità assoluta e universale arrivi alla teologia dalla filosofia, e non viceversa. In sostanza, si tratta di un rimedio tutto secolare
al «Gott ist tot»: il chierico lo fa suo non trovando altra soluzione efficace.
È in un passo di Holzwege (1950) che Martin Heidegger ci dà ottima sintesi di ciò che accade in quel periodo: «Parlare di valori diventa abituale e pensare per valori diventa normale. [...] Si comincia a parlare di valori vitali, di valori culturali, di valori eterni, di valori spirituali, di qualità valoriali, arrivando a pretendere di trovare quei valori anche presso gli autori classici. [...] Nasce la filosofia dei valori, si costruiscono sistemi di valori, l’etica indaga sulle stratificazioni dei valori, e anche la teologia cristiana prende a definire Dio, quello che fin lì è stato il summum ens qua summum bonum, come valore supremo. Si dichiara la scienza estranea al valore e si collegano i valori alle visioni del mondo. Il valore, ciò che ha valore, diviene un surrogato positivistico del metafisico». In chiosa Carl Schmitt vi appunta: «Una scienza basata sulla legge di causalità, quindi avalutativa, minacciava la libertà dell’uomo e la sua responsabilità religiosa, etica e giuridica. A questa sfida la filosofia dei valori ha risposto contrapponendo al regno di un essere determinato in modo esclusivamente causale un regno dei valori come regno della validità ideale» (Die Tyrannei der Werte, 1960). Fin lì il «valor» aveva dato misura del «factus», ora il primo sta al secondo come il «dover essere» all’«essere».
[Circa un secolo dopo, avremo un esemplare caso di «surrogazione positivistica del metafisico» col prendere ad identificare la «persona» nel suo dna: parafrasando Schmitt, la scienza andava dimostrando che non si dà «persona» se non nel suo farsi, e cioè che non può darsi «persona» in uno stadio embriologico del sistema nervoso centrale comunque posteriore al momento dell’animazione, e allora l’anima si vide costretta a sloggiare dal cervello, dove aveva trovato rifugio dopo essere stata sloggiata dal cuore, trovandone uno nuovo nel corredo cromosomico. Nel tentativo di conservare alla «persona» il suo statuto trascendente, lo spirito andò a trovare ipostasi nell’acido desossiribonucleico, e in pratica l’anima si fece meme: a chi sosteneva che la «persona» nasce con la fusione dei gameti rimaneva solo il rompicapo di due gemelli omozigoti che devono spartirsi una sola anima e l’imbarazzo di trovarsi insieme a Richard Dawkins a ritenere la vita un semplice vettore di senso. Infortuni di un Dio con la smania di incarnarsi e a cui la scienza si è ostinata a fare dispetti.]
Ciò premesso, possiamo sgnignazzare ferocemente alla tautologica affermazione che Bergoglio consegna a De Bortoli (Corriere della Sera, 5.3.2014): «i valori sono valori e basta», dice Cicciobello, e dunque non avrebbe senso dirne alcuni «negoziabili» ed altri no. Come non esser solidali con quei cattolici che in questo papa vedono il liquidatore della baracca? Apre bocca solo per dimostrare quanto sia disperata la missione che si è posta e quanto ne sarà alto il costo. A chi ha cuore che la Chiesa sprofondi, un Bergoglio che segue a un Ratzinger suona come scricchiolio dopo scricchiolio, e non si fa fatica a immaginare la fifa a star lì dentro: è come vedere mamma che ogni sera si prepara per scendere in strada a battere sennò non si mangia, col rischio di non vederla più tornare a casa la mattina dopo, e non mangiare più lo stesso, in più dovendo piangere una madre morta da baldracca. È che non è facile correre dietro alle pecorelle scappate dall’ovile e intanto tener pure buone quelle vi sono rimaste dentro: più ti allontani, e non è detto che riuscirai a portarne indietro tante, più quelle che lasci incustodite te lo rinfacciano, perché sarà pur vero che lassù «ci sarà più gioia per un peccatore convertito che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (Lc 15, 7), ma quaggiù la cosa solleva più di un problema, che in sostanza è psicologico, ma ci mette niente a diventare ecclesiologico.
L’inversione è stata troppo brusca, d’altronde era indispensabile. Di fatto, da una Chiesa tutta introvertita nella difesa della tradizione sembra si sia passati ad una estroversione che molti considerano una resa alla modernità, e per molti versi non si può dare loro torto. Insomma, ne volano di pesanti, e fischiano di brutto. Il papa è il papa, è vero, e bisogna farselo piacere, al punto che più doloroso è lo sforzo e più Dio ne darà merito, d’altronde questo qui è gesuita, quindi se lecca il culo al secolo sarà per incularselo meglio, ma est modus in rebus, cazzarola, non vorrà mica toccare la dottrina? Lì dentro ci sono i cosiddetti «valori non negoziabili». Non vorrà mica che la misericordia faccia tabula rasa di ciò che è verità e giustizia?
Ecco in questione, appunto, quei «valori» che dicono di un «dover essere», al venir meno del quale non si è neppure più cattolici, neppure più cristiani. In quanto tali, è vero, non v’è traccia nei Vangeli, né in Agostino, né in Tommaso, ma sono diventati «valori» in quanto beni trasmessi di generazione in generazione, ed è stato un «negotium» ad aver dato loro una quotazione: dirli «non negoziabili» significa dichiararli «non ri-negoziabili», a differenza degli altri, e dunque tentare di metterli in cima alla scala dei «valori» correnti. Bene, arriva il fessacchiotto e dice che nessun «valore» è «negoziabile», e ti saluto il tentativo di far distinzione tra i tuoi, quelli assoluti, e gli altri, quelli relativizzabili. Tutti i «valori» sono «valori», nel senso che sono tutti inestimabili: nessuno ha intenzione di farne «negotium» per la semplice ragione che non è possibile, e allora ciascuno si tiene i suoi. È come dire al mondo: Cristo si offre in eucaristia come specchio mandato in frantumi e in ciascuno puoi specchiarti per come puoi, se vuoi, via, prova. Potremo biasimare chi gli metterà il cianuro nel mate, a ’sto sciagurato?
È in un passo di Holzwege (1950) che Martin Heidegger ci dà ottima sintesi di ciò che accade in quel periodo: «Parlare di valori diventa abituale e pensare per valori diventa normale. [...] Si comincia a parlare di valori vitali, di valori culturali, di valori eterni, di valori spirituali, di qualità valoriali, arrivando a pretendere di trovare quei valori anche presso gli autori classici. [...] Nasce la filosofia dei valori, si costruiscono sistemi di valori, l’etica indaga sulle stratificazioni dei valori, e anche la teologia cristiana prende a definire Dio, quello che fin lì è stato il summum ens qua summum bonum, come valore supremo. Si dichiara la scienza estranea al valore e si collegano i valori alle visioni del mondo. Il valore, ciò che ha valore, diviene un surrogato positivistico del metafisico». In chiosa Carl Schmitt vi appunta: «Una scienza basata sulla legge di causalità, quindi avalutativa, minacciava la libertà dell’uomo e la sua responsabilità religiosa, etica e giuridica. A questa sfida la filosofia dei valori ha risposto contrapponendo al regno di un essere determinato in modo esclusivamente causale un regno dei valori come regno della validità ideale» (Die Tyrannei der Werte, 1960). Fin lì il «valor» aveva dato misura del «factus», ora il primo sta al secondo come il «dover essere» all’«essere».
[Circa un secolo dopo, avremo un esemplare caso di «surrogazione positivistica del metafisico» col prendere ad identificare la «persona» nel suo dna: parafrasando Schmitt, la scienza andava dimostrando che non si dà «persona» se non nel suo farsi, e cioè che non può darsi «persona» in uno stadio embriologico del sistema nervoso centrale comunque posteriore al momento dell’animazione, e allora l’anima si vide costretta a sloggiare dal cervello, dove aveva trovato rifugio dopo essere stata sloggiata dal cuore, trovandone uno nuovo nel corredo cromosomico. Nel tentativo di conservare alla «persona» il suo statuto trascendente, lo spirito andò a trovare ipostasi nell’acido desossiribonucleico, e in pratica l’anima si fece meme: a chi sosteneva che la «persona» nasce con la fusione dei gameti rimaneva solo il rompicapo di due gemelli omozigoti che devono spartirsi una sola anima e l’imbarazzo di trovarsi insieme a Richard Dawkins a ritenere la vita un semplice vettore di senso. Infortuni di un Dio con la smania di incarnarsi e a cui la scienza si è ostinata a fare dispetti.]
Ciò premesso, possiamo sgnignazzare ferocemente alla tautologica affermazione che Bergoglio consegna a De Bortoli (Corriere della Sera, 5.3.2014): «i valori sono valori e basta», dice Cicciobello, e dunque non avrebbe senso dirne alcuni «negoziabili» ed altri no. Come non esser solidali con quei cattolici che in questo papa vedono il liquidatore della baracca? Apre bocca solo per dimostrare quanto sia disperata la missione che si è posta e quanto ne sarà alto il costo. A chi ha cuore che la Chiesa sprofondi, un Bergoglio che segue a un Ratzinger suona come scricchiolio dopo scricchiolio, e non si fa fatica a immaginare la fifa a star lì dentro: è come vedere mamma che ogni sera si prepara per scendere in strada a battere sennò non si mangia, col rischio di non vederla più tornare a casa la mattina dopo, e non mangiare più lo stesso, in più dovendo piangere una madre morta da baldracca. È che non è facile correre dietro alle pecorelle scappate dall’ovile e intanto tener pure buone quelle vi sono rimaste dentro: più ti allontani, e non è detto che riuscirai a portarne indietro tante, più quelle che lasci incustodite te lo rinfacciano, perché sarà pur vero che lassù «ci sarà più gioia per un peccatore convertito che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (Lc 15, 7), ma quaggiù la cosa solleva più di un problema, che in sostanza è psicologico, ma ci mette niente a diventare ecclesiologico.
L’inversione è stata troppo brusca, d’altronde era indispensabile. Di fatto, da una Chiesa tutta introvertita nella difesa della tradizione sembra si sia passati ad una estroversione che molti considerano una resa alla modernità, e per molti versi non si può dare loro torto. Insomma, ne volano di pesanti, e fischiano di brutto. Il papa è il papa, è vero, e bisogna farselo piacere, al punto che più doloroso è lo sforzo e più Dio ne darà merito, d’altronde questo qui è gesuita, quindi se lecca il culo al secolo sarà per incularselo meglio, ma est modus in rebus, cazzarola, non vorrà mica toccare la dottrina? Lì dentro ci sono i cosiddetti «valori non negoziabili». Non vorrà mica che la misericordia faccia tabula rasa di ciò che è verità e giustizia?
Ecco in questione, appunto, quei «valori» che dicono di un «dover essere», al venir meno del quale non si è neppure più cattolici, neppure più cristiani. In quanto tali, è vero, non v’è traccia nei Vangeli, né in Agostino, né in Tommaso, ma sono diventati «valori» in quanto beni trasmessi di generazione in generazione, ed è stato un «negotium» ad aver dato loro una quotazione: dirli «non negoziabili» significa dichiararli «non ri-negoziabili», a differenza degli altri, e dunque tentare di metterli in cima alla scala dei «valori» correnti. Bene, arriva il fessacchiotto e dice che nessun «valore» è «negoziabile», e ti saluto il tentativo di far distinzione tra i tuoi, quelli assoluti, e gli altri, quelli relativizzabili. Tutti i «valori» sono «valori», nel senso che sono tutti inestimabili: nessuno ha intenzione di farne «negotium» per la semplice ragione che non è possibile, e allora ciascuno si tiene i suoi. È come dire al mondo: Cristo si offre in eucaristia come specchio mandato in frantumi e in ciascuno puoi specchiarti per come puoi, se vuoi, via, prova. Potremo biasimare chi gli metterà il cianuro nel mate, a ’sto sciagurato?
mercoledì 5 marzo 2014
Tra «lassismo» e «rigorismo»
Mi pare
di aver già illustrato su queste pagine – due o tre anni fa, se non erro – uno
dei trucchi più ingegnosi cui ricorre il sofista per far forte la sua tesi sulla
vostra: parlo di quello che consiste nel tirarne in ballo una terza, che non è affatto
in discussione, e che per giunta non ha alcun sostenitore nel foro in cui lui e
voi siete convenuti, una tesi che estremizza la sua fino a renderla francamente
insostenibile, di modo che la tesi da lui sostenuta conquisti posizione
equidistante da questa e dalla vostra, andandosi a piazzare «in [quel] medio [dove
si dà per certo] stat virtus».
Esempio: mettiamo si stia discutendo di Concordato,
che voi sosteniate sia opportuno abolirlo e lui sia di parere contrario: il
sofista dirà che il Concordato è la migliore soluzione nei rapporti tra Stato e
Chiesa, contro le tentazioni laiciste, da un lato, e quelle teocratiche,
dall’altro. Voilà, la vostra tesi diventa estremista, dunque implica un pericolo,
inutile star lì a pensar troppo quale (dev’essere di segno opposto a quello di un
regime teocratico, ma come dubitare che sia altrettanto grave?), mentre la sua,
al contrario, è equilibrata, dunque rassicurante, e qui basta che l’uditorio
abbia la fessaggine media che eleva i sofisti al grado di custodi del buonsenso
per guadagnarci pessima fama, oltre a perdere la partita.
Prevedo un’obiezione:
mi si dirà che, se si discute di Concordato, la tesi teocratica è virtualmente
in discussione anche in assenza di chi la sostenga, e che dunque il trucco ha
sostanza di argomento. Siete in errore, perché nel discutere di un patto tra
Stato e Chiesa che in premessa, almeno formalmente, dà per scontato che
entrambi siano sovrani in ambiti distinti, la teocrazia è esclusa a priori:
evocarla è strumentale, e abbiamo visto a qual fine.
Anche se ha precursori di vecchia
data, il trucco di cui stiamo parlando trova i suoi fasti nella retorica da
seminario a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, quando il revival del tomismo
dà al cattolicesimo il vestitino della precettistica e la «virtus» che «stat in
medio» ne taglia il drop: la morale cattolica si dà reputazione di campione di moderatismo. Finisce addirittura, qualche decennio dopo, col
diventare cifra della cosiddetta «strategia della tensione», che trova la sua
filosofia nella dottrina degli «opposti estremismi». Poi, decade a utensile
della polemica da gazzettino, punteruolo retorico di vecchie pantegane come il
Caffarra e il Ruini.
Torno su questo trucco, oggi, perché ne trovo esempio nella relazione che Walter Kasper ha buttato giù a margine del prossimo sinodo, quello che metterà mano alla pastorale sulla famiglia (Il Foglio, 1.3.2014), e nella versione clericus contra clericum è uno spasso: Sua Eminenza si dà posizione moderata tra
«lassismo»
e
«rigorismo», dove il primo sarebbe quello che non vuole e il secondo quello che non può. Archiviata la questione se la Dc fosse o no partito cattolico, e in qual senso, si pone quella assai più intrigante se questo papato sia democristiano o no, e quanto.
lunedì 3 marzo 2014
Un film da esportazione
Parlare
del film di Paolo Sorrentino dopo che ha vinto l’Oscar è assai più difficile di
quanto lo fosse prima. Anche prima, d’altronde, non era facile, perché sembrava
fatto apposta per essere candidato a vincerlo. Non saprei dire se già nel
momento in cui veniva scritto, ma certamente nel momento in cui veniva girato, era
un film che rincorreva il giudizio favorevole che avrebbe dovuto darne il
pubblico di cui l’Oscar esprime sensibilità e gusto. Premio meritatissimo,
dunque, perché il film dimostra di aver pienamente corrisposto al fine per cui
era stato concepito, con encomiabile controllo del mezzo artistico.
Di fatto, quando questo accade, il portato artistico, se c’è, diventa invisibile. Difficile afferrarlo, impossibile dire di averlo afferrato. Si resta impigliati in una battuta, in una immagine, le si dà il valore di una chiave, la si infila nella toppa, ma non si apre niente. Così, dovessi dire dove volesse andare a parare, il film, manco per niente. Affresco allegorico? Apologo morale? Elegia? Può darsi, e no. In più, non appartengo al pubblico di cui l’Oscar esprime sensibilità e gusto. Per dire, non uno dei film che mi sono più piaciuti – e parlo di Alfred Hitchcock, di Ingmar Bergman, di Orson Welles – ha mai vinto la statuetta placcata d’oro.
Non vorrei essere frainteso, però. Non dico che La grande bellezza sia stato pensato e realizzato al solo scopo di ottenere l’Oscar e ciò che il premio rappresenta in termini di profitto per l’autore e il produttore: anche per questo, ovviamente, ma in primo luogo per andare incontro al particolare genere di consenso che produce questo particolare genere di profitto. In altri termini, il film di Paolo Sorrentino non aveva alcuna aspirazione di parlare a tutti, come di solito è nelle ambizioni di un artista, ancorché velleitarie o forse, proprio per ciò, e così spesso, velleitarie: si rivolgeva a un pubblico ben preciso, anche se assai vasto, e cercava di ottenerne il consenso secondandone l’immaginario. Ancora più esplicitamente: era un film da esportazione destinato al pubblico che della città di Roma ha proprio l’idea cui la pellicola ha dato corpo in immagini.
Un film per turisti, potremmo dire, ma sarebbe ancora troppo generico. Direi fosse un film per turisti intenzionati a tornare a casa con l’idea che li aveva accompagnati alla partenza, però arricchita da un gran numero di evocazioni e rimandi, frattali della loro idea di Roma, non solo come straordinario magazzino di vestigia del passato, ma come sintesi emblematica di quell’italianità che è cifra distintiva dei più datati depliant. Non solo turisti stranieri, dunque.
Non che questa italianità sia mero prodotto letterario, tutt’altro. Prende i tratti letterari di quello che solitamente è detto carattere, ma trova rispondenza in quei luoghi comuni che gli italiani si sforzano di incarnare, anche se sempre più pigramente, per una crescente fatica che arrischia il micidiale. Le numerose citazioni felliniane in cui Paolo Sorrentino ha manifestamente cercato e trovato compiacimento avevano il solo fine di dissimulare questa fatica in una connaturata accidia. Perciò potremmo dire che l’Oscar a La grande bellezza è un premio non solo a Paolo Sorrentino e alla sua indubbia bravura, ma anche a quegli italiani che con eroicomica determinazione sgomitano per entrare nell’inquadratura. Del tutto naturale che gioiscano del premio.
Di fatto, quando questo accade, il portato artistico, se c’è, diventa invisibile. Difficile afferrarlo, impossibile dire di averlo afferrato. Si resta impigliati in una battuta, in una immagine, le si dà il valore di una chiave, la si infila nella toppa, ma non si apre niente. Così, dovessi dire dove volesse andare a parare, il film, manco per niente. Affresco allegorico? Apologo morale? Elegia? Può darsi, e no. In più, non appartengo al pubblico di cui l’Oscar esprime sensibilità e gusto. Per dire, non uno dei film che mi sono più piaciuti – e parlo di Alfred Hitchcock, di Ingmar Bergman, di Orson Welles – ha mai vinto la statuetta placcata d’oro.
Non vorrei essere frainteso, però. Non dico che La grande bellezza sia stato pensato e realizzato al solo scopo di ottenere l’Oscar e ciò che il premio rappresenta in termini di profitto per l’autore e il produttore: anche per questo, ovviamente, ma in primo luogo per andare incontro al particolare genere di consenso che produce questo particolare genere di profitto. In altri termini, il film di Paolo Sorrentino non aveva alcuna aspirazione di parlare a tutti, come di solito è nelle ambizioni di un artista, ancorché velleitarie o forse, proprio per ciò, e così spesso, velleitarie: si rivolgeva a un pubblico ben preciso, anche se assai vasto, e cercava di ottenerne il consenso secondandone l’immaginario. Ancora più esplicitamente: era un film da esportazione destinato al pubblico che della città di Roma ha proprio l’idea cui la pellicola ha dato corpo in immagini.
Un film per turisti, potremmo dire, ma sarebbe ancora troppo generico. Direi fosse un film per turisti intenzionati a tornare a casa con l’idea che li aveva accompagnati alla partenza, però arricchita da un gran numero di evocazioni e rimandi, frattali della loro idea di Roma, non solo come straordinario magazzino di vestigia del passato, ma come sintesi emblematica di quell’italianità che è cifra distintiva dei più datati depliant. Non solo turisti stranieri, dunque.
Non che questa italianità sia mero prodotto letterario, tutt’altro. Prende i tratti letterari di quello che solitamente è detto carattere, ma trova rispondenza in quei luoghi comuni che gli italiani si sforzano di incarnare, anche se sempre più pigramente, per una crescente fatica che arrischia il micidiale. Le numerose citazioni felliniane in cui Paolo Sorrentino ha manifestamente cercato e trovato compiacimento avevano il solo fine di dissimulare questa fatica in una connaturata accidia. Perciò potremmo dire che l’Oscar a La grande bellezza è un premio non solo a Paolo Sorrentino e alla sua indubbia bravura, ma anche a quegli italiani che con eroicomica determinazione sgomitano per entrare nell’inquadratura. Del tutto naturale che gioiscano del premio.
Il risvegliatore della Pietà di Michelangelo
Peggio
dell’insensibilità dinanzi all’opera d’arte c’è solo lo stravolgerne il
significato calcando a forza nelle intenzioni dell’artista le proprie
impressioni, spesso balzane, non di rado a dispetto di ciò che attestano le
fonti storiche, e senza lasciare adito a dubbio, o addirittura a offesa della più piana
evidenza e a oltraggio del più solido buonsenso: vizio ridicolo, che tuttavia
diventa francamente insopportabile quando a sostegno di quella che è immancabilmente presentata come straordinaria scoperta, strabiliante rilevazione che dovrebbe far
luce sulla più intima natura dell’artista, l’eccentrico di turno non ha da produrre
altro argomento che il suo intuito. Con l’articolo di Luc Templier per Donne,
Chiesa, Mondo, l’inserto domenicale de L’Osservatore Romano curato da Lucetta
Scaraffia, ci risiamo. E a farne le spese è la Pietà di Michelangelo Buonarroti
conservata nella Basilica di San Pietro in Vaticano: «Un giorno mi è apparso un
dettaglio che ha cambiato la mia visione dell’opera. […] Maria è giovane,
troppo giovane, addirittura più giovane di Cristo. […] Cristo è abbandonato, […]
non mostra alcun segno di rigidità. Al contrario, a forma di S, è flessuoso, sensuale,
languido. […] Di fatto non vediamo più solo la Vergine e Cristo morto, ma una
giovane donna e un giovane uomo volontariamente offerto alle sue braccia. Una coppia
insomma. […] Capiamo ciò che Michelangelo ha suggerito in questa sublime
parabola: la capitolazione consenziente del maschile al principio femminile.
Giusta esaltazione dei valori femminili a lungo calpestati, eppur vicini anche
ai valori dei Vangeli. […] Ma perché, mi direte, questa allegoria non era mai
stata commentata? Perché le rivelazioni importanti, sacre, non possono mai
essere fatte subito. Esse sono sempre velate: nella poesia, nelle favole, nelle
parabole. Nel marmo. Là aspettano, a volte per lungo tempo, che qualche traghettatore
(o passante) o qualche risvegliatore le colga». Chiaro, no? In quel pezzo di
marmo dormiva un Gesù morto in grembo a una Maria addolorata, ma Luc Templier è
passato di lì, ha buttato l’occhio e il suo formidabile intuito ha risvegliato dall’algida materia il
giovanotto spossato da una formidabile scopata cui la sua ganza volge lo
sguardo come a dire: «T’ho succhiato l’anima, ammettilo». Grandioso, è
comprensibile che la Lucetta si sia subito precipitata a mettere in pagina lo
scoop.
Dinanzi
a una rivelazione di tale portata i nostri pregiudizi si volatilizzano. Dalla
biografia di Ascanio Condivi, che del Buonarroti era amico, avevamo letto che,
a chi gli aveva sollevato l’obiezione della giovane età di Maria, Michelangelo
aveva risposto: «La castità, la santità e l’incorruzione preservano la
giovinezza». Mentiva, è ovvio. Riuscendo a ingannare perfino il Vasari, che di
lì a poco avrebbe scritto: «Se bene alcuni, anzi goffi che no, dicono che egli
abbia fatto la Nostra Donna troppo giovane, non s’accorgono e non sanno eglino
che le persone vergini senza essere contaminate si mantengono e conservano l’aria
de ’l viso loro gran tempo, senza alcuna macchia, e che gli afflitti come fu
Cristo fanno il contrario?». L’usanza di ritrarre Maria con le fattezze di
quando aveva messo al mondo Gesù per significare che fosse «Figlia del suo
stesso Figlio»? Cazzate. Guardate bene la Pietà, è proprio come dice Luc
Templier. Anzi, se osservate bene la mano che Gesù lascia cadere sul panneggio
della veste di Maria, riuscirete anche a vedere tra le dita la sigaretta che dopo una scopata è cosa santa.
sabato 1 marzo 2014
[...]
Dopo
aver sentito un gesuita dire che «dietro il pensiero casistico sempre c’è una
trappola», manca solo Vattimo che dà del frocio a Socrate, e poi non resta che
l’Apocalisse.
Fare per fare / 4
[«Prima
di tirare le somme della nostra riflessione – dicevo – occorre ancora un altro
paragrafo: quello che ci chiarisca il precipitato storico della
personalizzazione della politica, dalle forme del culto della persona
dell’autocrate al successo mediatico dell’impostore, nel ventaglio delle sue
più comuni tipologie». Sarà il caso di rimandare per soffermarci in un inciso.]
L’ambiguità
del termine Beruf, che è professione, ma pure vocazione, è carica, ma pure
occupazione, potrebbe rendere un po’ scivolosa la lettura di Politik als Beruf (1918), ma Max Weber chiarisce subito: «lo stato è quella comunità umana che nei limiti di un determinato territorio esige per sé, e con successo, il monopolio della forza fisica legittima» e «chi fa azione politica [altri non è che chi] aspira alla partecipazione di [questo] potere o all’influenza sulla sua ripartizione». Né Arbeit, né Werk, dunque, ma risposta a una chiamata (Ruf), che possiamo immaginare cogente come quella al sacerdozio o alle armi.
In tal senso, giacché
«lo stato consiste in un rapporto di dominazione di alcuni uomini su altri uomini, il quale poggia sul mezzo della forza legittima (vale a dire: considerata legittima)», la risposta alla chiamata inscrive nella logica che fonda una linea gerarchica di tipo religioso e/o militare e detta le regole della missione e della conquista. D’altro canto, e sempre in stretta analogia ai compiti che sono della milizia e/o dell’ordine religioso, c’è un nesso tra mezzo e fine che
dà ragione della «legittimità della dominazione» in forma di «giustificazioni intrinseche»:
«anzitutto, l’autorità dell’“eterno ieri”, ossia del costume, la cui stabilità è consacrata da una validità di antichissima data, fondata sulla consuetudine»; «in secondo luogo,
l’autorità del dono di grazia personale di natura straordinaria (carisma), la dedizione assolutamente personale e la fiducia personale nelle rivelazioni, nel carattere eroico o in altre qualità di capo di un individuo»; e, «infine, la dominazione in forza della
“legalità”, [...] e cioè in forza dell’obbedienza fondata sull’adempimento di doveri stabiliti da norme: una dominazione qual è quella esercitata dal moderno “funzionario statale”».
Weber non si serve dell’analogia che qui abbiamo proposto col servizio sacerdotale e con quello militare (ma potremmo anche prendere in considerazione quello che li unisce nell’ordine di tipo religioso-cavalleresco), dunque dovremo provare a saggiarne la validità in relazione alle
«giustificazioni intrinseche». Possibile? Senza alcun dubbio. Nella Politik als Beruf, infatti, ne abbiamo i corrispondenti, sia al vertice, sia alla base della piramide gerarchica. E nell’immagine che apre questo post offro cinque esempi che, al netto delle enormi differenze, declinano lo stesso paradigma.
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