Checché
se ne dica, Giuliano Ferrara non è un pensatore, ma solo uno che scrive,
peraltro senza neanche pensar troppo, per dar voce a un disagio personale che
si inscrive a buon diritto nel più generale malessere di una società che ha
perso i cardini sui quali ha retto forse pure troppo o, per meglio dire, che ha
perso i vecchi e fa fatica a trovarne di nuovi. Ogni periodo storico
contraddistinto da questo tipo di inquietudine ha avuto pensatori che l’hanno
fatto, in ciò assumendo l’onere di bilanciare, col freno del richiamo alle
certezze del passato, gli strappi di accelerazione impressi da quanti nel
futuro solitamente vedono solo progresso, e non di rado, per essi, le certezze
del passato hanno trovato radice del deposito di fede e di cultura fin lì residuato,
sennò perfino in ciò che ne era andato perso, con ciò opponendo restaurazione a
rivoluzione. E però si trattava di veri pensatori, cioè di uomini ai quali
genio e studio consentivano di trovare nella tradizione una ratio di autorità
irriducibile alla mera tautologia che vuole autorevole oggi ciò che lo è stato
fino a ieri, e per il solo fatto di esserlo stato.
Non
così Giuliano Ferrara, al quale occorre riconoscere, però, l’indubbio merito di
saper dare un peso alla sua voce, che infatti è un bel vocione, e anche di
saperla renderla incisiva col ricorso a desueti strumenti letterari e a logori
espedienti retorici che proprio perciò hanno ottima presa sul lettore che
voglia recepirli come cifra del solido buonsenso andato a farsi benedire per
l’andazzo dei tempi in cui si senta disgraziatamente immerso. Questi suoi
talenti, tuttavia, non s’assommano nel colmare la distanza che c’è tra un
pensatore della conservazione o della restaurazione, anche se di basso profilo,
e l’anziana signora che in metrò strepita contro la barbarie dei tempi moderni,
anche se talvolta si è costretti ad ammettere che quegli strepiti possano avere
una dignità letteraria, e perfino un commovente tratto lirico. Questo possiamo
e dobbiamo concedere all’ultima fatica di Giuliano Ferrara, sennò saremmo delle
infami carogne.
La
troviamo in apertura di un volume edito da Piemme, e in libreria da poco, dal
titolo Questo papa piace troppo, che chi è lettore abituale de Il Foglio può
risparmiarsi di acquistare, perché è una semplice raccolta degli articoli che
Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro hanno scritto per quel giornale negli ultimi
quattro o cinque mesi e, in appendice, dei commenti che lo stesso Giuliano
Ferrara ha siglato con l’elefantino per lo più a margine di quelli: la fatica è
in una trentina di pagine, anch’esse già pubblicate su Il Foglio, la scorsa
settimana, lì però in inglese, come se la solita anziana signora stavolta fosse
capitata in un vagone pieno di turisti, lo stesso intenzionata a strepitare,
però against the barbarism of the modern times. Niente di nuovo, in sostanza,
ma l’incipit merita due soldi di attenzione.
«A me
questo papa piace. Mi mette in allarme». Trovatemi qualcosa che vi metta in
allarme, ma allo stesso tempo vi piaccia. Difficile, vero? Se per allarme
intendete stato di ansia o di apprensione, senza dubbio. Se però avete indole
guerriera e per allarme intendete segnale che allerta alla difesa o
all’attacco, suppongo sia più facile. In tale contesto, da cosa è dato questo
allarme che procura piacere? Pongo la domanda in altri termini: è questo papa a
dare il segnale che allerta o è egli stesso a esserne causa? Vediamo se il
seguito ci aiuta a chiarire: «Qualche volta penso che l’avventura andrà a
finire male. Ma a mio modo spero». Non dovrebbero esserci dubbi: è lo stesso
Bergoglio a esserne causa, perché la linea che ha dato al suo pontificato
comporta un serio rischio, e tuttavia (o proprio perciò) il rischio va
accettato con fiducia. Non è la speranza di chi si affida alle mani della
Provvidenza, perché «non ho fede, ma considero perduta un’umanità senza fede»:
a guidarla in questo modo temo si possa andare a picco, ma è l’unica barca che
c’è, e io ci sono sopra.
Devo
rimandare a ciò che ho scritto alcuni giorni fa: il senso di come si sia messi
male sta nel trovare l’argomento più forte in favore di chi è al timone della
barca sulla quale si attraversa la tempesta in quell’anticipo di fiducia che si
ritiene necessario concedergli, e che si spera sia tanto più efficace quanto
più cieca. Concludevo che è la tentazione cui gli irresponsabili cedono con
slancio.