lunedì 24 marzo 2014

Checché



Checché se ne dica, Giuliano Ferrara non è un pensatore, ma solo uno che scrive, peraltro senza neanche pensar troppo, per dar voce a un disagio personale che si inscrive a buon diritto nel più generale malessere di una società che ha perso i cardini sui quali ha retto forse pure troppo o, per meglio dire, che ha perso i vecchi e fa fatica a trovarne di nuovi. Ogni periodo storico contraddistinto da questo tipo di inquietudine ha avuto pensatori che l’hanno fatto, in ciò assumendo l’onere di bilanciare, col freno del richiamo alle certezze del passato, gli strappi di accelerazione impressi da quanti nel futuro solitamente vedono solo progresso, e non di rado, per essi, le certezze del passato hanno trovato radice del deposito di fede e di cultura fin lì residuato, sennò perfino in ciò che ne era andato perso, con ciò opponendo restaurazione a rivoluzione. E però si trattava di veri pensatori, cioè di uomini ai quali genio e studio consentivano di trovare nella tradizione una ratio di autorità irriducibile alla mera tautologia che vuole autorevole oggi ciò che lo è stato fino a ieri, e per il solo fatto di esserlo stato.
Non così Giuliano Ferrara, al quale occorre riconoscere, però, l’indubbio merito di saper dare un peso alla sua voce, che infatti è un bel vocione, e anche di saperla renderla incisiva col ricorso a desueti strumenti letterari e a logori espedienti retorici che proprio perciò hanno ottima presa sul lettore che voglia recepirli come cifra del solido buonsenso andato a farsi benedire per l’andazzo dei tempi in cui si senta disgraziatamente immerso. Questi suoi talenti, tuttavia, non s’assommano nel colmare la distanza che c’è tra un pensatore della conservazione o della restaurazione, anche se di basso profilo, e l’anziana signora che in metrò strepita contro la barbarie dei tempi moderni, anche se talvolta si è costretti ad ammettere che quegli strepiti possano avere una dignità letteraria, e perfino un commovente tratto lirico. Questo possiamo e dobbiamo concedere all’ultima fatica di Giuliano Ferrara, sennò saremmo delle infami carogne.
La troviamo in apertura di un volume edito da Piemme, e in libreria da poco, dal titolo Questo papa piace troppo, che chi è lettore abituale de Il Foglio può risparmiarsi di acquistare, perché è una semplice raccolta degli articoli che Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro hanno scritto per quel giornale negli ultimi quattro o cinque mesi e, in appendice, dei commenti che lo stesso Giuliano Ferrara ha siglato con l’elefantino per lo più a margine di quelli: la fatica è in una trentina di pagine, anch’esse già pubblicate su Il Foglio, la scorsa settimana, lì però in inglese, come se la solita anziana signora stavolta fosse capitata in un vagone pieno di turisti, lo stesso intenzionata a strepitare, però against the barbarism of the modern times. Niente di nuovo, in sostanza, ma l’incipit merita due soldi di attenzione.
«A me questo papa piace. Mi mette in allarme». Trovatemi qualcosa che vi metta in allarme, ma allo stesso tempo vi piaccia. Difficile, vero? Se per allarme intendete stato di ansia o di apprensione, senza dubbio. Se però avete indole guerriera e per allarme intendete segnale che allerta alla difesa o all’attacco, suppongo sia più facile. In tale contesto, da cosa è dato questo allarme che procura piacere? Pongo la domanda in altri termini: è questo papa a dare il segnale che allerta o è egli stesso a esserne causa? Vediamo se il seguito ci aiuta a chiarire: «Qualche volta penso che l’avventura andrà a finire male. Ma a mio modo spero». Non dovrebbero esserci dubbi: è lo stesso Bergoglio a esserne causa, perché la linea che ha dato al suo pontificato comporta un serio rischio, e tuttavia (o proprio perciò) il rischio va accettato con fiducia. Non è la speranza di chi si affida alle mani della Provvidenza, perché «non ho fede, ma considero perduta un’umanità senza fede»: a guidarla in questo modo temo si possa andare a picco, ma è l’unica barca che c’è, e io ci sono sopra.
Devo rimandare a ciò che ho scritto alcuni giorni fa: il senso di come si sia messi male sta nel trovare l’argomento più forte in favore di chi è al timone della barca sulla quale si attraversa la tempesta in quell’anticipo di fiducia che si ritiene necessario concedergli, e che si spera sia tanto più efficace quanto più cieca. Concludevo che è la tentazione cui gli irresponsabili cedono con slancio.

Un lapsus di Mentana


Si è vociferato di un passaggio di Mentana alla conduzione di Servizio pubblico, al posto di Santoro (il Giornale, 23.3.2014),


ma Mentana ha smentito seccamente (https://www.facebook.com/pages/Enrico-Mentana-pagina-ufficiale-bis),


dunque direi si possa mettere una pietra sopra alla faccenda. E tuttavia occorre far presente che in coda all’edizione del TgLa7 delle 20.00 di giovedì 20 marzo, nell’annunciare l’intervista che aveva fatto a Grillo quello stesso giorno e che sarebbe andata in onda l’indomani per Bersaglio mobile, Mentana è incorso in un lapsus che dà da pensare. 

  

Wow!

 
Teologia della perfezione cristiana di Antonio Royo Marín (Edizioni Paoline, 1960) è un libro singolare. Ne ho trovato una prima edizione in ottimo stato su una bancarella (7 euro, forse nemmeno sfogliato, un affarone), ma ho saputo che qualche anno fa è stato ristampato e dunque non avrete alcuna difficoltà a procurarvelo, cosa che consiglio soprattutto a quanti mi hanno scritto in passato perché compilassi liste di volumi per l’approfondimento dei temi salienti della teologia cattolica e della storia della Chiesa: libro da mettere sulla pila di quelli che ho già segnalato loro, ma lettura interessante per chiunque.
Libro singolare, dicevo. Per la sua struttura, innanzitutto, che gli dà l’aspetto di due volumi incastrati l’uno nell’altro. È  che «la nostra prima intenzione – si legge nella Prefazione fu di scrivere un breve manuale di ascetica e mistica [...] Poi, voci amiche, con affettuosa insistenza, ci fecero pressione perché presentassimo uno studio più ampio, che abbracciasse tutto il panorama della vita cristiana» (pag. 5). Evidente il segno lasciato dalla saldatura, perché il risultato è un libro che alterna stili affatto diversi: da un lato, infatti, vè il vademecum di dottrina scritto da un domenicano dalla sensibilità comune a gran parte del clero prima del Vaticano II, robetta senza interesse che ingombra più della metà delle 1216 pagine del volume; dall’altro, invece, vè il «manuale di ascetica e mistica», che ha un taglio – sia consentito il paradosso – scientifico; sicché basta saltare l’Introduzione generale, tutta la Parte I, i primi tre capitoli del Libro I e i primi due del Libro II della Parte II, e la Conclusione, per avere a disposizione quanto era nella «prima intenzione», che è davvero notevole.
Tutto sui fenomeni di ordine conoscitivo (visioni, locuzioni, rivelazioni, discrezione di spiriti, ierognosi, scienza infusa, ecc.) e quelli di ordine affettivo (stimmate, sudorazioni e lacrimazioni ematiche, bilocazione, levitazione, cambio di cuori, ecc.), ma anche sulle tappe ascetiche e su quelle mistiche, sulla lotta attiva contro il peccato, contro il mondo, contro il demonio e contro la propria carne. Un universo psicopatologico più affascinante di quello del caso Schreber. Anche se del cattolicesimo non vi interessa una beneamata cippa, insommasi fa leggere come un libro di avventure psichedeliche. Ogni pagina è un «wow!». 

domenica 23 marzo 2014

Il Berlinguer di Veltroni


Detesto ripetermi, ma ancor più rimandare a ciò che ho scritto con un link. Tuttavia talvolta sento necessario ribadire ciò che ho scritto con troppo anticipo. In questo caso si tratta del Berlinguer di Veltroni, che tra poco farà scendere i lacrimoni anche ai cuori di pietra. Due anni fa era Civati ad accendergli una candela votiva, e anche lui parlava di un Berlinguer che non è mai esistito. Le cose scritte allora valgono anche oggi, e le riporto qui sotto, così mi risparmio una recensione a un film. 

«Ero piccolo, e non capivo granché di politica». Come se oggi, invece… Civati commemora Berlinguer nel 28° della morte e nel leggerlo trovo conferma che peggio dei rottamandi ci sono solo i rottamatori. Almeno i primi hanno capito, anche se troppo tardi e a fatica, che proprio Berlinguer è il peccato originario che li ha portati regolarmente fuori strada ad ogni svolta, per tornare ogni volta più malconci in carreggiata, ma accumulando sempre più ritardo e perdendo sempre più consensi.
Civati, no. «Ci manca, Berlinguer… Sapete, ci manca davvero». Vorrei vederlo nel Pci di allora, quando il dolce Enrico, in culo a ingraiani, amendoliani e cossuttiani, prima cambiava linea del partito dalla sera alla mattina e poi esigeva che la direzione ratificasse e il congresso applaudisse. Macché, Civati è convinto che «Berlinguer diceva, quando esprimeva un pensiero, “i comunisti pensano” o “sostengono” o “intendono”, che si capiva che voleva dire “noi comunisti”, mentre a noi manca il noi». Neanche la Mafai avrà letto, è evidente, e sì che il libricino era smilzo, poteva trovare due ore tra un film e una partita di calcetto, avrebbe capito che noi significava Berlinguer, Rodano e Tatò.
Il Berlinguer di Civati è un poster, un brivido lungo la schiena, un’emozione: non ha mai letto una sua relazione congressuale o un suo paginone su Rinascita, è evidente. Civati è rimasto al «qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona», senza neppure riuscire a leggerci l’ironia che ci metteva Gaber. Come dire, «Berlinguer, ti voglio bene», facevi tanta tenerezza il braccio a Benigni, sei morto in modo così emozionante, ti ho visto su Youtube, non ho capito cosa dicevi, ma suonava così bene.
Dicevi che eravamo «diversi», e lo dicevi così bene che ci abbiamo creduto. Pensavamo che la macchina del partito girasse grazie alle sottoscrizioni che si raccoglievano alle Feste de l’Unità e che quei tuoi strappetti dalla Casa Madre fossero delicati per non lacerarci il cuoricino. Siamo stati costretti a ricrederci, avremmo tanto bisogno di uno come te che riuscisse a farcelo credere ancora, se solo avessimo l’anima bella di allora e il centralismo democratico.
«Quel volto, quella cultura, quella dimensione, non sono più tornate», piagnucola Civati, faccia da Postalmarket, lirismo alla Veltroni. E vaglielo a spiegare che quel volto, quella cultura, quella dimensione erano quelli di un Togliatti in sedicesimo.

Rassegnarsi al peggio

Ci si concentra, vedo, sulla faccenda dell’invito all’ambasciata inglese, per sottolineare, e comunque non a torto, il vizio paranoico che porta Grillo a interpretare l’episodio come il capitolo di un complotto. Ora, è vero, la dimensione in cui si muove Grillo ha senza dubbio il segno della distorsione percettiva della realtà, com’è d’altronde per buona parte dei leader che danno voce a pulsioni prepolitiche per rappresentarla come trama in cui essi entrerebbero da sovvertitori delle regole che la rendono mostruosa, e tuttavia nell’intervista concessa a Mentana vi è qualcosa di assai più agghiacciante che mi pare sia sfuggita a gran parte dei commentatori: Grillo presume che le regole si possano sovvertire semplicemente rivelandone il fine, cioè condannando in esse la ratio che le predispone a motore di ingiustizia. Può sembrare ingenuità, dunque elemento di debolezza nell’analisi da cui dovrebbe muovere l’alternativa del M5S, ma in realtà si tratta dell’elemento di forza che è nelle mani di chi recluta l’altrui ingenuità al proprio fine, che spesso non è neppure la costruzione di un potentato ma solo un’avventura, per fame di avventura: poco importa se Grillo creda davvero o meno in ciò che dice, di fatto intende dar corpo proprio all’ingenuità che conta sulla possibilità di alternativa nella mera semplificazione della realtà all’ordito che le darebbe un significato inequivoco. In tal senso, dirsi «portavoce» del M5S non è un vezzo: Grillo sarà senza dubbio il proprietario della baracca, ma in sostanza si offre davvero e per intero a quell’enorme massa di irresponsabili che s’illudono di trovare giustizia semplicemente nell’abbattimento di un sistema ingiusto, se possibile.
In altri termini, direi, che la mancanza di un organico disegno di società spesso rinfacciato a Grillo sia la vera forza del suo movimento, oltre a costituirne il vero pericolo. D’altro canto, fatta eccezione per qualche colto rintanato nella sua turris eburnea, che guarda e dispera, di organici disegni di società non se parla, al più di riformucce, toppe, dispositivi dilatori. La cosiddetta «morte delle ideologie» ci avrà pure liberato dal rischio di filtri monocromi e almeno tendenzialmente totalitari, ma ci ha privato della chiave per dare articolazione in un sistema a soluzioni isolate, perfino sagge se avulse dal contesto che le rende irrilevanti o velleitarie. Perciò direi che l’elusione di ogni domanda di Mentana relativa al «dopo» la conquista della maggioranza assoluta da parte del M5S sia cifra più significativa di ciò che ormai anche Grillo non rifiuta più di chiamare grillismo: c’è voglia di distruggere, a fronte di chi si illude che basti rappezzare, ma non c’è un cane che abbia un progetto o, se ce l’ha, esita perfino a dargli un nome, perché dovrebbe giocoforza dirlo sussidiario (socialdemocrazia, dottrina sociale cattolica o liberalismo temperato). Mancano le idee, perciò vincono le urla. E senza dubbio Grillo urla bene, anche quando, com’è stato nell’intervista concessa a Mentana, usa toni morbidi e a tratti suadenti. Allo stato, è il punto più avanzato del post-ideologismo, dunque può permetterselo. E se dall’affogare in questo mare di merda ci si può salvare solo ingurgitandone il tanto che basta a farne scendere un po’ il livello, si potrebbe perfino fare un pensierino a dargli il voto, almeno alle Europee. In fondo, alla crisi dello stato liberale non c’era altro sbocco che il fascismo o, se c’era, non si riuscì a trovarlo. Penso che rassegnarsi al peggio sia infruttuoso, tanto vale assecondarlo per affrettare i tempi.   

venerdì 21 marzo 2014

[...]



Credo di aver già spiegato a sufficienza perché questo pontificato mi ha tolto il gusto di polemizzare coi preti, ma continuo ricevere email che mi chiedono di commentare quella per alcuni è la svolta, per altri addirittura la rivoluzione, cui avrebbe dato avvio Bergoglio. Neanche rispondo, sennò mi limito a due righe per ribadire quello che ho già scritto su queste pagine: non si tratta di una svolta – tanto meno di una rivoluzione, figurarsi – siamo soltanto al tentativo di recuperare un po’ di credito presso quell’opinione pubblica che del cattolicesimo sa poco o nulla (poco di storia, quasi niente di dottrina, men che meno di teologia), ma che inclina a tollerare quanto ne residua dai secoli in cui era incontrastabilmente e onnipresentemente pervasivo, se il papa è simpatico e i vescovi non rompono eccessivamente il cazzo; per tollerarlo meno, ma senza mai andare oltre l’indifferenza, quando a dargli un dito pretende il braccio. Perciò – e l’ho già detto – io condivido in pieno il fastidio che questo papa dà agli ultras della Tradizione, che poi sono i soli veri cattolici (il resto è ereticume), con la sola differenza che a loro Bergoglio fa torcere le budella – e li capisco, poverini – mentre a me dà solo una leggera nausea. All’inizio mi irritava: leggevo i testi delle sue omelie in Santa Marta e mi sembrava di essere passato dal sudoku alla tria, poi mi sono accorto che era un sudoku pure lui, ma con lo stesso difetto che aveva quello del Corriere della Sera di sabato scorso.
Penso anch’io, al pari di chi ritiene che stia lì solo per cercare di risanare la crisi paurosa cui Ratzinger ha portato la baracca (e Allah gliene renda merito), costretto a rischiare grosso per mettere una toppa alla voragine, e che bene o male stia facendo il suo lavoro, sebbene non sia detto vi riesca, né che la soluzione non ponga altri problemi, e ben più grossi. Il fatto è che, al pari del cattolico comme il faut che sarebbe disposto ad un’emorragia di fedeli pur di mantenere intatto il deposito di fede fino all’ultimo iota, anch’io trovo disagio dinanzi alle bestialità che Bergoglio spara a getto continuo. Con una differenza bella grossa, ma tutto sommato irrilevante ai fini pratici: per il cattolico comme il faut è pur sempre il papa, e il papa bisogna farselo piacere, anzi, più il farselo piacere costa sofferenza, e più si gode; per me, al contrario, star lì a dovergli fare le bucce sulle verità più incontestabili di un credo di cui lui dovrebbe essere il più strenuo difensore, per giunta rinfacciandogli di mettersele sotto i piedi per basso opportunismo da gesuita – e giuro che ci ho provato, ma mi sembrava di spiegare il cattolicesimo a un indio precolombiano – è uno strazio.
Si prenda a esempio la ventilata ipotesi di ammettere all’eucaristia chi si è sposato in chiesa, ha divorziato e poi si è risposato in municipio (mi levo il gilet da gentiluomo di campagna, mostro il petto di villico e chiedo): di cosa cazzo discutiamo? Il primo matrimonio era sacramento, il secondo è concubinaggio. Dice: ma il divorzio non l’ha voluto lui, ma la moglie. E chi se ne fotte, ha giurato di esserle fedele comunque: gli tocca la castità e neanche può augurarsi muoia la moglie per convolare a nuove nozze, perché augurarselo non sarebbe carino agli occhi di Dio. Ora, ’sto cattolico-per-modo-di-dire è un divorziato, si è risposato perché non riusciva ad essere continente, e in pratica per i suoi pruriti di nerchia non si è fatto scrupolo di sputare su un sacramento, s’è risposato pure nel modo che il Catechismo gli vietava, e pretende pure l’ostia la domenica mattina? Dice: ma Dio è misericordia. Sì, può darsi, faccio fatica a crederci ma voglio concederlo: Dio è misericordia. Ma ’sta misericordia arriva dopo il pentimento? E come mi si è pentito, ’sto cattolico-a-cazzo-di-cane? Ha capito di aver sbagliato a risposarsi e lascia la seconda moglie? Ci rimane insieme in casta amicalità? Macché, pretende che sull’indissolubilità del matrimonio si metta una pecetta, e vuole l’ostia. Un papa serio lo manda al diavolo in entrambi i sensi, e invece che mi fa, questa bertuccia d’un gesuita? Gli stende il tappetino del percorso di ravvedimento, con concubina a carico.
Ma per piacere, anzi, per carità di Dio, signori cardinali, levate ’sto pagliaccio dal Trono di Pietro (non c’è bisogno vi suggerisca il modo, sapete come si fa) e mettetene uno che si riconosca dalla puzza essere un papa di quelli cui eravamo abituati. 

giovedì 20 marzo 2014

Trittico




Jonathan Littell ha scritto un libro straordinario, Three Studies after Francis Bacon, raccolti sotto il titolo di Triptych, di cui la traduzione a cura di Luca Bianco, licenziata da Einaudi nel gennaio di quest’anno, si premura di restituirci fin dal titolo e dal sottotitolo il tratto che l’autore ha voluto dare al suo lavoro: Tre studi (non già su, ma) da Francis Bacon, che insieme fanno un Trittico, a riproporre anche nel taglio del saggio la caratteristica tripartizione dello spazio scenico cui l’artista inglese ricorse in più occasioni (stanza come strofa, settore come tagliente, scansione come dissecamento, ecc.). Al confronto, quello di Gilles Deleuze (La logica della sensazione – Quodlibet, 1999) si appalesa per quel girare a vuoto di cui avevamo avuto sensazione e anche l’onesto sforzo di Saverio Falcone (L’Edipo capovolto – La biblioteca di Vivarium, 1998) si rileva non andato a buon esito, ma quello che è davvero strabiliante sta nel fatto che il Bacon di Littell è più convincente del Bacon offertosi nelle tante interviste concesse a Jean Clair, Jacques Michel, Michael Peppiatt, Maïten Bouisset, Henri-François Debailleux (raccolte in Intorno la pittura – Graphos, 2000), Michel Archimbaud (Conversazioni – Le Mani, 1993), David Sylvester (La brutalità delle cose – Quaderni Pier Paolo Pasolini, 1991): risulta evidente per piena argomentazione che «Bacon mentiva di continuo […] perché non voleva che la gente arrivasse troppo velocemente a scoprire ciò che in realtà era ovvio: vale a dire che i suoi dipinti raccontavano storie, storie diabolicamente intelligenti ed enigmatiche, storie talmente intime che spesso forse nemmeno lui sarebbe stato disposto ad ammettere con se stesso che la nuda verità del proprio essere era stata improvvisamente proiettata lì sulla tela […] Le ostinate bugie servivano a questo scopo: avvertivano gli spettatori di non contare su Bacon per una spiegazione» (pag. 28). Da questo assunto parte l’affascinante analisi formale del testo pittorico e – qui è la novità – rinunciando a voler fare dell’artista il controllore dell’effetto, ma finalmente ridandogli la dimensione di coagonista del caso che traduce in espressione il tentativo di impressione, giacché «lo sguardo non è mai innocente» (pag. 54) e l’errore più grave che si possa commettere con un artista tanto istintivo come Bacon è il non voler capire che «la figura è l’oggetto del dipinto [mentre] il soggetto […] è la pittura in sé. È la pittura a parlarci di ciò di cui essa stessa tratta» (pag. 45). L’azzardo, la violenza, il collasso della materia, l’ombra che si prolunga in carne (e non viceversa): Bacon – scrive Littell – è la più felice contraddizione del tanto scontato, quanto miope, e forse addirittura ottuso, convincimento che il capolavoro sia la perfetta realizzazione di un’idea. È che l’idea viene a realizzarsi con la pittura, attraverso essa. 

mercoledì 19 marzo 2014

L’argomento più forte


L’argomento più forte in favore di Matteo Renzi, e questo dà il senso di come siamo messi male, è quell’anticipo di fiducia che alcuni ritengono necessario concedere a chi sta al timone della barca, non importa come ci sia arrivato, e ancora non è andato a sbattere contro uno scoglio, non importa se al timone stia da troppo poco tempo perché la cosa possa aver maturato un qualche credito. Si tratta della fiducia che serve a esorcizzare la paura di andare a sbattervi, e che si spera sia tanto più efficace quanto più cieca: a sollevare dubbi sulle capacità del timoniere, allora, ci si guadagna la fama di chi porta iella, e a segnalare gli indizi della sua inettitudine, poi, può addirittura scattare l’imputazione di disfattismo. L’amore per la barca si dimostrerebbe facendogli i migliori auguri o almeno stando zitti per non distrarlo: c’è burrasca, ma il tizio ostenta sicurezza, e in ogni caso sembra animato da buona volontà ed entusiasmo, perché rompere il cazzo con presagi di sventura? Lasciatelo fare, è la parola d’ordine, proviamo, chissà non sia quello  giusto. In buona evidenza, l’anticipo di fiducia che si concede a Matteo Renzi è l’altro volto della disperazione, quella che spera contro se stessa, e che per farlo deve sospendere ogni ragione, salvo il pentirsene quando la barca va a sbattere contro lo scoglio. Anche allora, tuttavia, per potersi assolvere, quanti sono stati in solido i corresponsabili del disastro devono compiere un altro esorcismo: convincersi che la fiducia concessa con tanta leggerezza sia la prova della loro innocenza. Non riusciranno mai a capire che i responsabili del naufragio sono loro, non possono. Legati al remo con una catena o con un cocktail in mano sul ponte di prima classe, hanno in comune la stessa idea di barca: quel legno è di tutti, ma non di ciascuno.  


lunedì 17 marzo 2014

Teoria generale della critica


Quest’anno ricorre il 40° della pubblicazione di Teoria generale della critica (Einaudi, 1974), un libro che conserva intatte la densità e la profondità di riflessione che alla sua uscita ne fecero un caso. Non è esagerato affermare, infatti, che il sistema cui dà vita Cesare Brandi spazza via i cascami della già fatiscente estetica crociana. Dalla letteratura al teatro, dall’architettura al cinema, dalla pittura alla musica, lo studio mantiene la costanza di un rigore più unico che raro. Un libro da leggere o da rileggere.  

domenica 16 marzo 2014

Infortuni della memoria


Su la Repubblica di domenica 16 marzo, in anticipo di qualche mese, Eugenio Scalfari commemora Enrico Berlinguer nel trentennale della morte e, al netto di qualche cedimento all’assurdo («la sua somiglianza al ruolo di papa Francesco»), al desueto («ploro» in luogo di «compianto») e all’oleografico («era timido, era riservato, era prudente, era moralmente intransigente»), dimostra di non aver capito un cazzo del triennio 1979-1981, uno dei momenti chiave della storia politica italiana, sennò di aver capito fin troppo bene, ma di aver rimosso, peraltro in modo assai maldestro, una delle tante cantonate prese da giornalista con la fissa d’essere demiurgo. Quella, infatti, è la stagione in cui el Fundador si illude che Bettino Craxi voglia farsi levatrice di un polo laico che raccolga socialisti, repubblicani, socialdemocratici e radicali, per coalizzarsi col Pci in un’intesa paritaria e farsi alternativa alla lunga e incontrastata egemonia democristiana. Propendo per la seconda ipotesi, perché ritengo assai improbabile non abbia letto le note e gli appunti riservati che Antonio Tatò scrisse in quegli anni al segretario del Pci e che Einaudi ha raccolto una decina d’anni fa in un volume curato da Francesco Barbagallo (Caro Berlinguer, 2003): in quelle pagine c’è prova irrefutabile del fatto che Enrico Berlinguer non ci credesse affatto e che in buona sostanza lo illudesse, come Bettino Craxi illudeva Marco Pannella, in ciò chiudendo il paradigma che vuole sempre cornuto e mazziato il «laico» che pretende di dialogare con l’elettorato di sinistra interloquendo col capobastone che è riuscito a fidelizzarlo. 

[...]


«La magia richiede una tacita cooperazione del pubblico col mago,
un abbandono dello scetticismo o quella che è descritta a volte
come una sospensione volontaria del dubbio.
Ne segue immediatamente che, per capire i meccanismi della magia,
per svelarne i trucchi, dobbiamo cessare di collaborare» 
Carl Sagan, Il mondo infestato dai demoni, Baldini & Castoldi 1997



L’altra sera, a Bersaglio mobile (La7, 14.3.2014), c’era un Freccero che mi pareva un Machiavelli sputato – naturalmente un Machiavelli al passo coi tempi – che di Renzi mi faceva un elogio appena un po’ più ruffiano di quanto Machiavelli me l’avrebbe fatto del Valentino tra una partita a trich-trach e un bicchiere di Brunello, ma tutto sommato tollerabile, come lo è il cedimento all’entusiasmo nell’entomologo che illustra l’epica dello stercorario. Voglio dire: era tutto un «così si fa», «dio, quanto è bravo», «ma bel figlio di puttana», detto però da uomo di scienza, che s’incanta dinanzi alla congruità del mezzo al fine, dove il fine è la conquista di quellelettore che ha «l’intelligenza di un ragazzino di 12 anni, e nemmeno dei primi banchi», come lo definì Berlusconi, e il mezzo è quel saper bucare il video che cinque secoli fa, allosteria, avremmo detto «laudalibilissima cosa in uno principe trovarsi». Insomma, Freccero mi ha sollevato il velo. E non è che sotto ci fosse un Renzi diverso da quello che intravvedevo, ma la nudità ha tolto malizia al velo, come il sottrarre categoria morale alla politica toglie fetore alla merda. Che resta merda, ma è prodotto finale di una funzione espletata da un apparato, come il consenso lo è dellautodigestione della capacità critica.             

giovedì 13 marzo 2014

[...]

Parliamoci chiaramente: io cercherò di non essere aggressivo o sprezzante, tu cerca di rispondere alle domande senza svicolare, e soprattutto rispondi senza sorridere, ché hai un sorriso che mi sta sul cazzo. Vieni sulla pubblica piazza a vendere il tuo set di pentole: sedici tra pentole, pentoloni e pentolini, padelle grandi, medie e piccoline, e relativi coperchi, cui aggiungi un mestolo, un forchettone e un batticarne, otto coltelli, un tagliere, in più offri in omaggio un frullatore, un televisore da 17 pollici e un simpatico zerbino che a poggiarci i piedi sopra sbrilluccica di lucette e una vocina esclama: «Welcome!», e vendi il tutto a centonovantanove euro, dilazionabili in trentatré comode rate, senza anticipi e senza interessi, col diritto di partecipare all’estrazione di un premio, una crociera ai Caraibi per due persone della durata di dodici giorni. Ora, col massimo rispetto, dov’è la copertura economica? O vendi robaccia, e allora si tratta di truffa, o è refurtiva di qualche rapina a un tir, e allora è ricettazione. Tutto questo sbracciarti, poi, questo tuo scilinguagnolo da seduttore di vecchine rimbambite, questo strafare che qualche adolescente brufoloso e balbuziente potrebbe anche scambiare per disinvoltura da ganzo, avrà un prezzo? Voglio sforzarmi a crederti: vivi per strappare sorrisi coi tuoi affaroni che in realtà sono regali, ma chi te li passa, Babbo Natale?    

martedì 11 marzo 2014

Poi, eventualmente




Seguo la diretta parlamentare sulla legge elettorale e devo prendere atto che centrodestra e centrosinistra sono due facce della stessa immonda cricca. Ora, chi ha qualche consuetudine di queste pagine sa bene cosa io pensi del M5S. Bene, rimango dell’idea più volte espressa – si tratta di un movimento fascistoide in mano a due loschi avventurieri – ma quest’Italia – l’Italia di Renzi e Berlusconi – merita che il M5S le dia una purga. Non è la prima volta, non sarà l’ultima, che il tanto peggio sia di fatto il tanto meglio, e oggi penso che ci siamo proprio. Poi, eventualmente, domani cambierò idea e mi pentirò di averlo scritto, ma oggi questo paese mi sembra meritare un M5S al 37%, e al primo turno.  

[...]


Fin dal suo farsi la nuova legge elettorale promette che sarà una vera merda, ma per fortuna abbiamo una Consulta che sorveglia attenta e prontamente, tra una dozzina d’anni, la straccerà perché incostituzionale. Pretendere che se ne accorga il Quirinale, le neghi la vidima e la rispedisca alle Camere sarebbe chieder troppo, perché si sa che Napolitano è uno che non esorbita di un angstrom dal suo ruolo e non interferisce nella fisiologica dialettica tra due associazioni a delinquere che tentano un accordo.

Contro le cosiddette «quote rosa»

Una maggior presenza delle donne nella politica e nelle istituzioni è cosa auspicabile, ma pensare di rimuovere gli ostacoli di natura culturale che vi si oppongono con le cosiddette «quote rosa» è da folli, tanto più con un sistema elettorale che preveda «liste bloccate», perché un maggior numero di donne ad essere candidate, prima, ed elette, poi, si otterrebbe in patente contraddizione al dichiarato proposito di dar loro pari opportunità di competizione affinché ne siano premiati gli eventuali meriti, e non capisco perché a insistere nel pretendere che ai partiti sia imposto per legge di mettere in lista un numero di femmine pari a quello dei maschi siano proprio le donne arrivate in Parlamento solo per il buon posto che erano riuscite ad ottenere nelle «liste bloccate» in cui erano candidate, e non in forza alle preferenze degli aventi diritto al voto: se nell’ordine di lista hanno ottenuto un posto che le ha favorite rispetto a un candidato maschio, sarà stato senza dubbio per meriti che non hanno bisogno, dunque, di essere altrimenti garantiti. Voglio dire: non sono proprio loro la più evidente prova che si può arrivare in Parlamento, anche se donne, in virtù delle proprie qualità? Dando per scontato che queste qualità abbiano avuto congruo riconoscimento nella loro elezione, e che si tratti di qualità che possono essere apprezzate di là da ogni differenza di genere, perché tanto impegno in favore delle «quote rosa» e non contro le «liste bloccate»? Quale resistenza hanno incontrato per riuscire ad arrivare in Parlamento e ora si impegnano a rimuovere in favore delle donne che abbiano intenzione di percorrere la stessa strada? Se si tratta di una resistenza che cede dinanzi al merito, che bisogno c’è di rimuoverla?   

lunedì 10 marzo 2014

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Molto probabilmente è questo il brano cui Luciano Canfora fa cenno nel capitolo finale de La trappola - Il vero volto del maggioritario (Sellerio, 2013) quando cita La giornata d’uno scrutatore: scrive che il caso-limite descritto da Italo Calvino – i portatori di gravi handicap mentali, ospiti del Istituto Cottolengo, cui le suore riuscivano a strappare il voto per la Dc – oggi «ha assunto nuove forme, talora deprimenti, comunque pervasive e non facilmente sanabili» e si chiede se «non rest[i] che accettare la difficile convivenza tra diritto al suffragio e nuovi “raffinati” analfabetismi, non facili da contrastare o sanare», com’è nel caso di quello che affligge il «mondo plasmato dalle tv commerciali e dall’ininterrotto martellamento seduttivo dei valori, miti e modelli che essere trasmettono». Con ciò è messa in discussione la prassi democratica col più vecchio degli argomenti usato dai suoi nemici? No, risponde, però, «anche rispetto a questo ineliminabile inconveniente del suffragio universale, il sistema elettorale proporzionale può rappresentare il male minore e, in parte, persino un rimedio. Esso evita, infatti, che una forza politica capace di convogliare su di sé le simpatie degli elettori meno preparati possa trovarsi grazie a un “marchingegno” maggioritario, a fare un indebito “pieno” di eletti assicurandosi così una schiacciante e devastante maggioranza parlamentare. Il meccanismo proporzionale costringe i partiti ad essere veramente tali, cioè a guadagnarsi davvero, e quotidianamente […] costringe[ndoli] […] a ridiventare veicolo di educazione politica di massa»
Bene, è almeno da tre anni a questa parte che m’intrattengo su temi che sono strettamente correlati alla questione sollevata in questo smilzo ma prezioso libricino di Luciano Canfora. Ho affrontato il problema della leadership di tipo carismatico, delle diverse forme di deriva populista, dell’insidia posta negli strumenti di democrazia diretta (il referendum, innanzitutto), del mito della governabilità e dei suoi perniciosi effetti collaterali, sempre a un passo dal tirare i fili, senza mai farlo. È che a tirarli ne sarebbe uscito un saggio in forma edittale, sennò una sorta di manifesto, roba che di solito regge un noi che la mia perfetta solitudine non mi consente. Potevo solo permettermi un anch’io e Luciano Canfora mi dà questa occasione. L’analfabetismo civico della gran parte degli italiani, il pauroso deficit di sensibilità democratica della nostra classe politica, la costante tentazione allirresponsabilità che rende così frequente il cedimento al servaggio familistico, clientelare e corporativo, l’impossibilità di sperare che tutto questo possa aver fine in tempi brevi mi fanno convinto proporzionalista.    



domenica 9 marzo 2014

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Il giorno che un bambino delle elementari, nella cui aula sia andato in visita Matteo Renzi, dovesse alzarsi dal suo banco e dire: «Parla, ma non dice niente!», saremmo alla parafrasi de I vestiti nuovi dell’imperatore, ma ho i miei dubbi sul fatto che la maestra possa dire: «Cazzo, è vero!», tanto meno che le cose mettano come nella fiaba di Hans Christian Andersen. Nel caso capitasse, valga il presente promemoria: Fabio Fazio reggeva lo strascico a uno che era nudo, e che per giunta ce l’aveva pure piccolo.

San Girolamo che estrae la spina dalla zampa del leone



Il San Girolamo che estrae la spina dalla zampa del leone che più mi piace tra quelli che conosco è di Defendente Ferrari, un piemontese che visse tra Quattrocento e Cinquecento e del quale ci sono rimaste solo due dozzine di dipinti di certa attribuzione e scarsissime informazioni biografiche. Pittura non eccelsa, in realtà, tanto meno nel caso di questo San Girolamo, che è forse fra le sue cose peggiori, a cominciare dalla scarsa padronanza nel trattare la prospettiva, per non parlare dell’incongrua ombreggiatura. E tuttavia il dipinto ha un elemento che lo rende notevole anche al confronto con quelli sullo stesso tema per mano di due giganti come il van der Wayden e il Pinturicchio: il leone del Ferrari, che pure ha posa innaturale, anatomia da stemma araldico,  improbabile criniera, ha espressione umana. Quegli occhi volti al cielo sono una trovata di grande effetto, antromorfizzano il bestione fino al tratteggio psicologico: si riesce a stare nella sua pelle, si sente quanto soffra, poverino, quanto gli costi star lì a farsi specillare la zampa, al punto che par quasi di sentirne il suo sordo mugolio a fauci serrate. Un piccolo miracolo di pathos, direi. Tanto più sorprendente, forse, proprio perché tutto intorno è crosta.
Così leggendo Il Foglio di sabato 8 marzo: il solito quadretto da due soldi, ma al centro un bel bestione sofferente, e che spina. Non proprio un sordo mugolio a fauci serrate, ma insomma... 

«È difficile parlare della realtà umana, di noi, della mezza o intera verità che esprimiamo nella nostra vita, nella scrittura, nella letteratura, nel pensiero di Dio e nelle sue eventuali conseguenze morali. La struttura del peccato è obsoleta. Nessuno bada più alle faccende che implicano questioni come la generazione, il futuro, la stabilità e il senso del mondo. Non fanno parte dell’agenda digitale, non entrano nei programmi dei governi e delle opposizioni… I figli senza babbo né mamma, o con uno dei due se va bene, sono un non-problema, che tra l’altro adesso si potrà risolvere con le adozioni in famiglia di babbo e babbo, di mamma e mamma… Fino a ieri era cosa da combattere in Zapatero, nella movida europea, nelle intemerate dell’Onu, in qualche facoltà decostruzionista di gender studies, in legislazioni eutanasiche o eugenetiche demenziali, ma pur sempre prodotte da stracci di parlamenti, buone per chiedere il consenso a un bambino per la sua uccisione con la stessa disinvoltura con cui si chiede a Elton John il consenso per un’adozione sua e del suo compagno-marito. Ora è diverso. Ora c’entra il papa in persona, nella sua penitudo potestatis, non so se mi spiego, lui che è vestito di bianco per ragioni serie, non solo liturgiche. Che rappresenta o dovrebbe rappresentare l’innocenza o l’aspirazione all’innocenza del desiderio. Ora in tutte le sue forme la colpa è diventata interpretazione. Voglio dunque posso. Faccio liberamente. Vade retro chi è sul mio cammino. Lapidate i lapidatori. Il nostro superomismo ginnasiale e nichilista ha ormai dalla sua un atteggiamento di benevolenza, di tenerezza, che proviene dalla cattedra più alta dello spirito, roba che si può finalmente santificare in quaresima... La pillola abortiva è già arrivata nell’emporio della democrazia riproduttiva, i futuri penitenti la possono ordinare per eBay o ti viene porta (venduta) in una regione meravigliosa, la Toscana, dove abolirono un tempo la pena di morte. Tutto si può fare quel che si può fare. E la facoltà etica di farlo non è più in discussione. Questo è il fatto, Ratzinger dixit e previde. Ora ai fatti bisogna conformarsi. Un papa ha dovuto abdicare, e lo ha fatto con entusiasmo profetico nonostante la sua stanchezza, e anche noi dobbiamo su queste cose abdicare…».

E manco un San Girolamo a levargli la spina dalla zampa, poverino. Un papista senza papa, ahi.