Cinq jeunes Flamands obtiennent un
entretien exclusif avec le pape
(deredactie.be) e uno gli chiede di
cosa abbia paura. La risposta meriterebbe una lunga riflessione sul punto in
cui Bergoglio afferma di aver paura solo di se stesso, ma qui ce la
risparmieremo, perché nel video che riprende alcuni momenti dell’incontro manca
quello relativo alla domanda e non ci è dato sapere se per paura sia stata usata peur
o crainte (nel secondo caso si solleverebbe
la questione posta dal fatto che il timor di Dio, la crainte de Dieu, è tra
i sette doni dello Spirito Santo e sorprenderebbe trovarne sprovvisto un papa
che parla sei lingue, compreso il francese). Sorvoliamo, per considerare il
punto in cui Bergoglio afferma che «nel Vangelo Gesù ripete tante volte: “Non
abbiate paura!”», e per trasecolare, perché è falso. La frase è riportata solo in
Mc 6, 50 e in Mt 14, 27, per giunta in occasione dello stesso evento, narrato
con frasi pressoché simili (uno dei casi che confermerebbero la tesi della
«priorità marciana», sicché nel rammentare di quale episodio si tratti, e in
quale contesto Gesù dica la frase in discussione, qui si preferisce riportare
la versione in Mc 6, 45-50): «Subito dopo
[il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci] Gesù obbligò i suoi discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra
riva, verso Betsaida, mentre egli avrebbe congedato la folla. Preso commiato, se
ne andò sul monte a pregare. Fattosi sera, la barca era in mezzo al mare [in
realtà si tratta di un lago, quello di Tiberiade] ed
egli era solo a terra. Vedendo i discepoli che si affannavano a remare perché
il vento era loro contrario, verso la quarta vigilia della notte, andò incontro
a loro, camminando sul mare, e voleva oltrepassarli, ma essi, vedendolo
camminare sul mare, pensarono che fosse un fantasma e gridarono, perché tutti
lo videro e ne furono sconvolti. Ma subito egli parlò loro e disse: “Coraggio,
sono io; non abbiate paura!”». Come è evidente, si tratta di un “non
abbiate paura!”» che non ha nulla a che vedere con
una sollecitazione a darsi forza
d’animo a fronte di
un’inquietudine o uno smarrimento di natura esistenziale, tanto meno a cercarla nella fede in qualcosa o in qualcuno: è una banale esortazione a non essere fifoni e
– occorre
ribadire – è frase che Gesù profferisce in una sola occasione.
venerdì 4 aprile 2014
giovedì 3 aprile 2014
[...]
I
craxiani, almeno, avevano cultura. E dei berlusconiani potevi dire tutto, poi, non
che non fossero spassosi. I renziani, invece, sono ignoranti e deprimenti. Anche l’avventurismo politico col vizietto del decisionismo mostra i segni del degrado che sfianca il paese: dal progetto di società siamo passati al piano d’azienda, per finire al fare per fare.
Ce n’è una, stasera da Santoro, che è la sintesi perfetta del renzismo: ugola da piazzista e sorrisetto strafottente, parla e non dice niente. Al confronto, per dire, la Taverna che la contraddice sembra un gigante. Cosa spazzerà via questa immondizia, e quando?
Mostruosa, ribadisco
Un
lettore contesta il giudizio negativo che ho espresso sulla riforma del Senato dal
quale Renzi fa dipendere la sua permanenza a Palazzo Chigi fino al 2018,
sebbene non vi sia arrivato con un’investitura elettorale, o l’andarsene a
casa, salvo gli ovvi ripensamenti che sono la costante degli sfacciati che si
giocano la faccia: mi fa presente che «una seconda camera non elettiva e con le
competenze prefigurate dal ddl del governo è legittima sotto il profilo
costituzionale e opportuna dal punto di vista politico», sicché avrei
«clamorosamente» sbagliato col definirla mostruosa. Non devo essermi spiegato
bene e allora torno sulla questione cercando di liberare i miei argomenti dalle
ellissi in cui li avevo compressi.
Innanzitutto,
io contesto il metodo col quale si intende varare questa riforma
costituzionale. Ad approvarla sarebbe la maggioranza semplice di un Parlamento
eletto con un sistema elettorale come il Porcellum, di cui la Corte Costituzionale ci ha spiegato le intrinseche storture: un Parlamento di nominati
in cui la rappresentatività è pesantemente alterata da un premio di maggioranza spropositato, in nome di una governabilità che ormai è ridotta a mero feticcio per la tutela cui siamo soggetti in sede europea. A mio modesto avviso, le riforme costituzionali
toccano il terreno che è comune anche alle più infime minoranze, sicché dovrebbero
essere varate da maggioranze quantitativamente e qualitativamente diverse da
quella che qui si appresta a modificare una struttura portante della
Costituzione com’è il bicameralismo, peraltro sotto l’implicito ricatto di
andarsene a casa insieme a chi propone il ddl, nel caso non approvi. Sulle
regole comuni a tutti, a mio modesto avviso, dovrebbe esprimersi un organo
costituente, espresso con metodo proporzionale. Sarà esagerato, ma su ogni più
minuto dettaglio della Carta destinata ad essere di tutti non ritengo eccessiva
alcuna garanzia.
In
secondo luogo, il Senato a cui si è pensato nello stendere questo ddl non
ha niente a che vedere con la Camera delle Autonomie, di cui abbiamo analogo in
altri paesi: gli si leva voce in capitolo sulla legislazione ordinaria e sulle
norme di bilancio, ma gli si lascia il voto sulle leggi di revisione
costituzionale, sull’elezione del Capo dello Stato e su quella dei membri laici
del Consiglio Superiore della Magistratura, senza specifica investitura popolare?
Quand’anche, poi, si volesse assumere come implicito che il Sindaco di questa
città sì e di quella città no acquisti de facto queste prerogative al varo
della riforma del Senato, come si può pensare che l’incongruità
rappresentativa, che è la più evidente bizzarria nel modo col quale se ne è
immaginata la composizione, possa reggere al vaglio della Consulta?
Infine,
senza con ciò dover forzare troppo la fantasia nel leggere il retropensiero che
muove a questa follia, c’è la questione del perché sia proprio su questo
momento di revisione costituzionale che un pericoloso avventuriero come Renzi
si dica disposto a puntare tutto. Qui mi pare che i fatti parlino da soli. Il
bipolarismo in Italia è morto e tuttavia non ci si rassegna a prenderne atto.
Ci si ostina a tentare di rianimarlo con potenti dosi di maggioritario ad alto
tenore premiale, ma il principio che fin qui regge la definizione dei collegi
da cui i senatori arrivano a Palazzo Madama rende impossibile avere al Senato
la stessa maggioranza dopata che si riesce ad ottenere a Montecitorio. A quale
altra soluzione potevano pensare due tizi disinvolti come Renzi e Berlusconi?
Aboliamo il Senato. O almeno sterilizziamolo. Basta aggiungerci un Italicum che
ribadisca il no alle preferenze e le liste bloccate del Porcellum, e il gioco è
fatto: chi vince si piglia tutto, compreso il diritto di dare al Parlamento il
solo compito di vidimare i decreti dell’esecutivo, e in culo alla democrazia,
vince chi è più figo in favore di telecamera.
Non ogni revisione
costituzionale è un tentativo di golpe, figuriamoci, ma questa, senza dubbio,
sì.
mercoledì 2 aprile 2014
«E qui, siore e siori, mi voglio rovinare»
La
Costituzione non è legge divina, dunque ci si può metter mano per emendarla,
tanto più che fra i suoi articoli ce n’è uno lo consente, indicandone modi e
tempi: recita che «le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi
costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive
deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a
maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione»
(art. 138).
È per questo che ritengo impensabile una riforma del Senato come quella
in discussione in questi giorni. Si pensa, infatti, di farne un organo non
elettivo, togliendogli voce in capitolo sulla fiducia al governo e sulle leggi
di bilancio, ma lasciandogliela su quelle di revisione costituzionale (giocoforza,
direi, sennò dovrebbe essere emendato anche l’art. 138): saremmo, così, all’assurdo
di un organo che non potrà più metter lingua sull’operato dell’esecutivo, ma
potrà continuare a farlo sulla Costituzione, e con potere decisionale pari a
quello della Camera dei Deputati, ma senza aver avuto alcuna investitura dal
voto popolare.
Una mostruosità del genere poteva esser partorita solo da un
analfabeta. Poteva trovare consensi solo in una di quelle congiunture storiche in
cui un analfabeta riesce a costruirsi reputazione di innovatore della
grammatica. Reputazione tanto più alta, quanto più volitiva appare l’intenzione
di stravolgere la logica che regge la costruzione di una lingua. Si può
arrivare, e qui con Renzi ci si arriva, ad apprezzare l’ignoranza come una forza
della natura.
Così, ci tocca sentirci dire che i padri costituenti erano barbosi
scassacazzi che l’hanno messa giù un po’ troppo pesante solo perché traumatizzati
dal fascismo, poverini, mentre il nuovo mago delle televendite ha fegato, e polso, e coglioni, si
vede dalla grinta che mette nell’urlare: «E qui, siore e siori, mi voglio
rovinare: aggiungo alla riforma costituzionale il taglio di un miliardo alla
politica». Sputacchia un poco su quelli in prima fila perché ha una lieve micrognazia, ma mica è detto che
l’Uomo della Provvidenza debba per forza essere un mascelluto, basta sappia galvanizzare i fessi e strizzare
l’occhio ai furbi.
C’è da stupirsene? Non direi. In fondo si tratta di quello che, se
non veniva fatto Presidente del Consiglio, sarebbe rimasto Sindaco di Firenze e quasi certamente avrebbe sfregiato l’orologio a lancetta unica della
Torre d’Arnolfo, aggiungendoci quella dei minuti. «Troveremo
uno sponsor
–
diceva –
la gente deve vedere bene l’ora, mica deve essere un orologio
filosofico». E a chi gli faceva presente che quell’orologio era del Trecento: «Mica voglio metterci un orologio al quarzo –
rassicurava –
è che così ’un
funziona». Piaccia o no,
l’ometto è questo.
lunedì 31 marzo 2014
Non so più in quale film
Non so
più in quale film in costume ho visto la scena di quell’istitutore di corte che,
nell’impartire la lezione di grammatica al piccolo erede al trono, ad ogni strafalcione che
scappava al principino mollava un ceffone a un ragazzino che poteva avere più o
meno la stessa età di quello, specificamente adibito a quel ruolo, cioè beccarsi i
ceffoni che ai quei tempi si reputava fossero pedagogicamente indispensabili, ma si riteneva impensabili sulla
guancia di un futuro re, e la scena mi è tornata in mente alla lettura dell’editoriale
che oggi Ferrara ha dedicato a Renzi indossando gli abiti in cui è convinto di star meglio, quelli del consigliere del Principe: «devi essere più deciso», e giù uno schiaffone
a Craxi, «più spietato, cazzo», e giù un manrovescio a Berlusconi. Analogia
imperfetta, so bene, ma stessa amara riflessione sulle miserie della cortigianeria.
[...]
Al
netto degli annunci di riforma, che anche i soffici eufemismi della Sala Stampa
Vaticana non riescono a negare nasca dalla necessità di bonificare una Curia da
tempo ridotta a intricata rete di avide lobby (e passi per quella massonica e
quella gay, ma corre voce ve ne sia pure una satanista), a un anno dall’elezione
di Bergoglio al Soglio Pontificio la merda venuta a galla durante il
pontificato del suo predecessore sta ancora tutta lì, ma è assai meno
appariscente, come se con gli annunci la riforma fosse già a regime. Si farà
pulizia, si annuncia, ma si fa presente che la Chiesa ha il passo lento e
meditato, che Bergoglio ci pensa e ci ripensa, al momento ci si accontenti del
fatto che si sia preso atto del fatto che se ne senta l’urgenza. Non è affatto poco, in realtà, perché è premura
che in qualche modo incrina quella fiducia di poter durare nonostante tutto fino
alla fine dei tempi, che in altre epoche storiche ha consentito la più ampia strafottenza.
Sarà che negli ultimi tempi gli scandali fanno più rumore o che l’orecchio ovino è
diventato più sensibile, va’ a capire. Continuare a costare ogni anno quanto
una manovra correttiva di bilancio, allora, sia, ma puzzare come una fogna a
cielo aperto impone qualche misura. Si farà pulizia, si annuncia, intanto ci
sia accontenti del fatto che il nuovo papa sia simpatico e pare non abbia intenzione
di rompere troppo il cazzo come Ratzinger. E rispettosamente lo si lasci
condannare la corruzione dei politici.
Tutti
in silenzio, i politici a messa in quel di Santa Marta, al fervorino di
Bergoglio sulla corruzione, chi a far finta di non esserne toccato, chi a
sentirsene bastonato ma a non accennare un lamento per non attirare troppa attenzione. Non uno che si levasse a rammentargli la parabola laica
della vacca che dice al mulo: «Ti puzza il culo». E mentre Sua Santità apriva
le porte dell’inferno a chi intasca una mazzetta, la Cei licenziava le linee
guida sulla pedofilia: non rivestendo la qualifica di pubblico ufficiale – vi poteva
leggere – il vescovo non ha l’obbligo giuridico di denunciare all’autorità
giudiziaria notizie riguardanti casi di abuso sessuale nel confronti di un
minore da parte di un prete, «salvo il dovere morale di contribuire al bene
comune». Contribuirvi come? Comune a chi? Domande impertinenti, soprattutto se
rivolte a un papa riformatore. Tutti zitti, dunque, neanche una testa calda di
Sel o della Lega a chiedergli: «Santità, ci racconti quella della trave e della
pagliuzza».
Un libro più citato che letto
L’assunto
che buono, vero e bello trovino assoluto nel trascendente conferisce un
carattere ieratico al filosofo, allo scienziato e all’artista, sicché il lavoro
intellettuale assume gli attributi di un sacro ufficio. È da questo assunto che
muove l’accusa di Julien Benda agli intellettuali: da qualche tempo – scrive
nel 1927 – «non solo non svolgono più il
ruolo che spetta loro, ma ne svolgono uno contrario», «rompono violentemente la loro tradizione», «esaltano l’attaccamento al particolare e alle cose pratiche e
stigmatizzano il senso dell’universale e l’amore delle cose spirituali»,
fino a scendere nell’agone politico in sostegno di una fazione. Chierici che
hanno tradito, dunque, perché l’intellettuale, quando è fedele alla propria
missione, «non persegue fini pratici, ma,
cercando soddisfazione nell’esercizio dell’arte o della scienza o della
speculazione metafisica, in breve nel possesso di un bene non temporale, dice
in qualche modo: “Il mio regno non è di questo mondo”».
Ammesso
e non concesso che tale modello di intellettuale sia quello ideale, occorre, in
primo luogo, chiarire la natura di una «soddisfazione»
che dovrebbe essere aliena da «fini
pratici». Se si trattasse dell’intimo appagamento che si raggiunge nel
ritenere di aver colto il buono, il vero o il bello a un grado superiore di
quello ordinario, saremmo all’egotismo. Nemmeno Julien Benda sembra pensare che
un intellettuale debba accontentarsi di questo: ritiene, infatti, che tra i
suoi doveri vi sia quello di «invitare i
suoi simili a religioni diverse da quella del temporale». Che giocoforza implica una mira su «questo mondo» e configura un «fine pratico». In secondo luogo, c’è
un modello di chierico fedele cui l’intellettuale possa ispirarsi? Certo. Sarebbe
possibile «rintracciare nel corso della
storia una serie ininterrotta di filosofi, religiosi, letterati, artisti,
scienziati il cui atteggiamento è di formale opposizione al realismo delle
masse», ma gli esempi proposti sono a stento una dozzina, fra i quali
troviamo il Leonardo che progettò macchine militari per Ludovico il Moro e il
Goethe che fu consigliere ministeriale per gli affari militari e la pubblica
amministrazione a Weimar, mentre la passione politica procura a Dante l’inclusione nella lista dei «chierici
da comizio».
Ad
essere indulgenti, diremmo che gli argomenti prodotti da Julien Benda ci sembrano debolucci. Nessuna obiezione al fatto che usi «chierico» in luogo di «intellettuale», perché a lungo, in
occidente, fu il clero a detenere il pressoché esclusivo monopolio della
cultura, difendendolo strenuamente finché gli fu possibile, fino alla netta
opposizione all’istruzione di massa. E tuttavia, proprio perciò, come si può ignorare che anche quel clero serviva «fini
pratici»?
Più in generale, come si può ignorare, dopo Marx e dopo Weber, che
l’intellettuale è un prodotto sociale anche quando assume connotati antisociali? Infine, come si può porre il problema di una trahison des clercs come questione che assume rilevanza solo nel Novecento?
Sul
ruolo dell’intellettuale nella società si è discusso da sempre, perché «il tema – osserva sennatamente Norberto Bobbio – non è altro che un aspetto di uno dei problemi
centrali della filosofia, quello del rapporto fra teoria e prassi (o tra
pensiero e azione), in termini ancora più generali e filosoficamente ancor
più tradizionali, fra ragione e volontà, quando sia trattato dal punto di vista
di coloro che a partire da un determinato periodo storico e in determinate
circostanze di tempo e di luogo sono considerati i soggetti cui si attribuisce
di fatto o di diritto il compito specifico di elaborare e trasmettere
conoscenze, teorie, dottrine, ideologie, concezioni del mondo o semplici
opinioni, che vanno a costituire le idee o i sistemi di idee di una determinata
epoca e di una determinata società […] I vari atteggiamenti che gli
intellettuali possono assumere di fronte al compito loro spettante nella vita
sociale corrispondono esattamente ai vari modi con cui nei secoli le diverse
scuole filosofiche hanno cercato di dare una soluzione al problema del rapporto
fra le opere dell’intelletto o della mente o dello spirito e il mondo delle
azioni […] In forma più specifica, il problema degli intellettuali è il problema
del rapporto fra costoro, con tutto quello che rappresentano di idee, opinioni,
visioni del mondo, programmi di vita, opere dell’arte, dell’ingegno, della
scienza, e il potere politico». Un problema che per Julien Benda, nel 1927, va ponendosi solo «da cinquant’anni a questa parte».
In
forza del titolo che divenne subito un’espressione a effetto, La trahison des clercs è sempre stato un
libro più citato che letto. In realtà basta leggerlo per capire che deve la sua
fortuna unicamente al titolo. A oltre trent’anni dalla sua prima edizione in
italiano (1976), Einaudi l’ha recentemente riproposto nella collana PBE,
consentendoci di fare finalmente i conti col tic di un certo pour parler che spesso è un parler sans savoir de quoi nous parlons.
Capita spesso, infatti, che a far propria la condanna di Julien Benda ai clercs qui ont trahi sia chi in fondo addebita
loro non già l’aver rinunciato a quell’autonomia che dovrebbe esserne virtù
peculiare, e che in ogni epoca storica è sempre stata un’eccezione piuttosto
che la regola, ma di aver preso partito avverso a quello di chi lancia l’accusa
di trahison. In pratica, il chierico
tradisce sempre e solo le aspettative di chi lo avrebbe voluto schierato in favore
delle proprie idee. Anche per questo, come rileva Davide Cadeddu nella prefazione a quest’ultima edizione in italiano (2012), a Julien Benda
«da subito si attribuì il contrario del suo pensiero». Non era solo effetto di un uso strumentale della sua tesi:
«paladino della figura di intellettuale storicamente disincarnato e astratto, al di sopra di qualsiasi atteggiamento settario, prese coraggiosamente posizione nelle grandi questioni che divisero il suo tempo» (Fernando Savater, La sconfitta di Julien Benda, Laterza 2000), fin dall’affaire Dreyfus, che non fu dibattuto precisamente in una turris eburnea.
Ma il segno più evidente delle obiezioni che una tale tesi è destinata a sollevare, oggi non meno che nel 1927, è nel fatto che per l’edizione del 1946 l’autore fu costretto ad una prefazione lunga quasi la metà dell’opera licenziata un ventennio prima, nella quale riesce ad essere anche meno convincente. È che per rimanere fermo sul punto sostenuto un ventennio prima deve rimodulare la definizione di clerc, che ora non tradisce la sua missione nell’astratta fattispecie del farsi «milizia spirituale del potere temporale» (1927), ma in quella assai più concreta, e temporalmente assai più circoscritta, del servaggio alle fazioni in lotta alla caduta dei totalitarismi, alle quali si riesce a dare un nome solo sciogliendo le perifrasi in cui vengono avviluppate. Così, non siamo più dinanzi a una trahison del ruolo, ma solo di alcuni fini cui il ruolo dovrebbe tendere in nome della «libertà della persona», e che sarebbero traditi in nome dell’«ordine» («Stato monolitico», «famiglia come organismo globale», «corporativismo»),
del «dinamismo»
(«materialismo dialettico», «ragione elastica», «perpetuo divenire della scienza»,
«dogma secondo cui le tesi della nuova fisica segnerebbero la fine dei principi razionali», «tesi secondo cui la ragione [...] deve cambiare non di comportamento ma di natura»), dell’«impegno» (inteso come
«presa di posizione nell’attuale in quanto attuale»),
dell’«amore» (come elemento di opposizione alla giustizia, come nel caso di appelli in favore di amnistie), della negazione di una «morale superiore» (in nome del relativismo etico, potremmo dire): il chierico, insomma, a differenza che nel 1927, non tradisce più col semplice scendere in campo, ma solo quando vi scende in nome di queste aberrazioni, che non si fa fatica ad individuare nelle posizioni, fra gli altri, di Jacques Maritain, e di Henri Bergson. A ragione potremmo dedurne che un clerc ne trahi pas solo se vi scende per contrastarle. E qui, a esempio del citare il libro di Julien Benda senza averlo letto, sovviene il caso di chi lo cita facendo propria la sua denuncia, ma nel contempo ha Maritain e Bergson nel proprio Pantheon, e
una vera e propria fissa per l’amnistia.
mercoledì 26 marzo 2014
Mario vuole la mamma
Giuseppe
Regalzi si è fatto carico di leggere e recensire l’ultimo libro di Mario Adinolfi (Mario vuole la mamma - Bioetiche, 26.3.2014), dandoci ennesima prova del suo acume analitico. È nella risposta al commento di un lettore, però, che ci offre un interessante spunto di riflessione: «Perché
il livello intellettuale e culturale degli integralisti è così basso? Uno
sarebbe tentato di rispondere “perché se fossero intelligenti non sarebbero
integralisti”; eppure ho la sensazione che il livello stia scendendo. Un’ipotesi
è che sia la Casa Madre a perdere colpi. Una volta la Chiesa attirava energie
intellettuali, specialmente tra le persone dei ceti più poveri, che per
studiare dovevano andare in seminario; ma con la democratizzazione dell’istruzione
- diciamo dagli anni ’60 - questo serbatoio, almeno nei paesi occidentali, si è
venuto esaurendo. Così, se paragoni per esempio il vecchio Monsignor Sgreccia -
che aveva una sua dignità intellettuale, pur nell’errore - ai nuovi esperti
clericali, noti la differenza; pensa all’invenzione dell’ideologia del gender,
che notoriamente non esiste se non nell’immaginazione sovreccitata degli integralisti
- una volta questo non sarebbe successo (credo), oggi te la ritrovi nei
discorsi papali (del papa emerito, almeno). Se il messaggio di partenza è
questo, al ragazzotto che straparla sulla rete cosa può arrivare? Poi c’è anche
una certa concorrenza a spararla grossa, credo perché in questo modo,
stuzzicando le paure eminentemente piccolo-borghesi di questo strano mondo
cattolico, alcuni hanno costruito una lucrosa carriera politica, e altri
vorrebbero imitarli. E non dimentichiamo il basso livello delle scuole private
cattoliche».
Non si poteva dirlo meglio. Io avrei fatto l’errore di dire che Adinolfi scimmiotta Ferrara, ma nella sintesi non avrei dato ragione del come il tragico scade nel ridicolo.
martedì 25 marzo 2014
Questo ha di bello, il cattolicesimo
Si
snelliscono le pratiche per ottenere dalla Sacra Rota un riconoscimento di
nullità matrimoniale e i costi della procedura scendono a prezzi stracciati.
Naturalmente parliamo dei matrimoni celebrati con rito religioso, perché per
quelli celebrati con rito civile c’è il divorzio, che impone tempi lunghi e
spese quasi sempre assai onerose. La vera differenza, però, è un’altra: il
divorzio è un cancro che mina la famiglia, perciò disgrega la società fin dalle
sue fondamenta e in più fa piangere i bambini, non a caso è previsto da un
ordinamento che non contempla più il cattolicesimo come religione di Stato;
tutt’altra cosa è il riconoscimento di nullità, che non è annullamento, perché
il matrimonio, inteso come sacramento, è indissolubile, e dunque non lo può
annullare manco il Padreterno, ma in pratica è la piana constatazione che, al
momento in cui i due si sposavano, le premesse a un matrimonio come Dio comanda
– simpliciter – non c’erano, ergo non si trattava di matrimonio vero e –
simpliciter – i due non sono più sposati, anzi, mai stati.
Ennesima
dimostrazione, questa, se mai ce ne fosse stato bisogno, che la Chiesa è istituzione
seria, e seriamente tratta le serissime questioni relative ai sacramenti. Non
così lo Stato, che degrada il matrimonio a mero contratto tra due parti, perciò
soggetto alla possibilità di scioglimento degli impegni solennemente sottoscritti.
La Chiesa, no. La Chiesa lo considera un sacro vincolo, indissolubile perché
così disse Gesù. Trattandosi di cosa sacra, però, non ammette che ci si scherzi
sopra. Hai detto sì al prete, ma non realizzavi esattamente cosa ti chiedeva?
Il matrimonio è nullo. Realizzavi cosa ti chiedeva, non ritenevi possibile
assumertene l’onere, ma hai detto sì lo stesso. Il matrimonio è nullo. Anche
dopo quarant’anni dal sì? Anche. Come? Ti sei deciso a sposarti in chiesa solo
perché la tua vecchia ci teneva tanto? Disgraziato che non sei altro, ma non lo
sai che in questo modo hai arrecato offesa a Dio? Scegliti un avvocato esperto
di sacre pratiche, sgancia le sacre spese e torni zitello in pochi mesi, per
giunta senza dover neppure passare gli alimenti a quella che tutti credevano
tua moglie, ma in realtà non era che una concubina.
Ah,
dimenticavo. Se il matrimonio è nullo, non sei mica divorziato, dunque puoi
risposarti subito, eventualmente in chiesa, stavolta presumibilmente sarà un matrimonio
vero. Si darà per scontato che stavolta realizzi esattamente cosa ti chiede e
che sei in perfetta buona fede nel ritenere che potrai mantenere la parola,
praticamente come è stato la prima volta. Non ci riesci neanche stavolta?
Spiacente, anche questo matrimonio è nullo, passa per la cancelleria e versa
altri 1.500 euro, così evitiamo di considerare sacro ciò che sacro non era. Certo
è, figliuolo caro, che hai una gran testa di cazzo e forse questa tua
incorreggibile leggerezza ti costerà parecchi secoli di Purgatorio.
Questo
ha di bello, il cattolicesimo: più sei stronzo, più ti viene incontro. Stronzo
in tutte le accezioni, stai tranquillo, l’importante è che tu sia in grado di
far finta d’esserlo nel modo che merita un occhio di riguardo. Ed è per
questo che, a conti fatti, converrebbe ridichiararlo religione di Stato, fanculo alla laicità. Ne
conseguirebbe che la legge sul divorzio andrebbe subito abrogata. Senza troppe
conseguenze, tuttavia, anzi. Ti sta sul cazzo quella cessa buona solo a perder tempo
in shopping e depilazioni? Vai davanti al giudice della Sacra Rota e dici: «Eccellenza,
ho giurato di esserle legato in eterno, è vero, ma avevo le dita incrociate
sotto una coda del frac, e poi pensavo che “carne della stessa carne”
significasse alternarci equamente al barbecue». E quello, allora: «Gesù mio, cosa
mi dice mai? Allora il matrimonio non è valido, lo sa? Via, si tolga subito
quella vera dall’anulare, sennò m’insulta il sacramento». Oplà, altro che rotture
di coglioni, udienze su udienze e assegno mensile a quella insulsa parassita.
«Scusa, hai mica visto una ragazza?»
Orfeo
9 (Tito Schipa jr., 1969) è la prima opera rock italiana. Nacque
per il teatro (la prima fu data al Sistina nel gennaio del 1970) e due anni
dopo era un doppio Lp, mentre nel 1973 divenne un videoclip (il primo videoclip
di tutti i tempi), 82 minuti che dopo oltre 40 anni conservano intatte le qualità che allora a molti parvero strabilianti. Qui sotto un assaggio, con la raccomandazione di non perdervene l’uscita in dvd, annunciata tra alcune settimane.
lunedì 24 marzo 2014
Checché
Checché
se ne dica, Giuliano Ferrara non è un pensatore, ma solo uno che scrive,
peraltro senza neanche pensar troppo, per dar voce a un disagio personale che
si inscrive a buon diritto nel più generale malessere di una società che ha
perso i cardini sui quali ha retto forse pure troppo o, per meglio dire, che ha
perso i vecchi e fa fatica a trovarne di nuovi. Ogni periodo storico
contraddistinto da questo tipo di inquietudine ha avuto pensatori che l’hanno
fatto, in ciò assumendo l’onere di bilanciare, col freno del richiamo alle
certezze del passato, gli strappi di accelerazione impressi da quanti nel
futuro solitamente vedono solo progresso, e non di rado, per essi, le certezze
del passato hanno trovato radice del deposito di fede e di cultura fin lì residuato,
sennò perfino in ciò che ne era andato perso, con ciò opponendo restaurazione a
rivoluzione. E però si trattava di veri pensatori, cioè di uomini ai quali
genio e studio consentivano di trovare nella tradizione una ratio di autorità
irriducibile alla mera tautologia che vuole autorevole oggi ciò che lo è stato
fino a ieri, e per il solo fatto di esserlo stato.
Non
così Giuliano Ferrara, al quale occorre riconoscere, però, l’indubbio merito di
saper dare un peso alla sua voce, che infatti è un bel vocione, e anche di
saperla renderla incisiva col ricorso a desueti strumenti letterari e a logori
espedienti retorici che proprio perciò hanno ottima presa sul lettore che
voglia recepirli come cifra del solido buonsenso andato a farsi benedire per
l’andazzo dei tempi in cui si senta disgraziatamente immerso. Questi suoi
talenti, tuttavia, non s’assommano nel colmare la distanza che c’è tra un
pensatore della conservazione o della restaurazione, anche se di basso profilo,
e l’anziana signora che in metrò strepita contro la barbarie dei tempi moderni,
anche se talvolta si è costretti ad ammettere che quegli strepiti possano avere
una dignità letteraria, e perfino un commovente tratto lirico. Questo possiamo
e dobbiamo concedere all’ultima fatica di Giuliano Ferrara, sennò saremmo delle
infami carogne.
La
troviamo in apertura di un volume edito da Piemme, e in libreria da poco, dal
titolo Questo papa piace troppo, che chi è lettore abituale de Il Foglio può
risparmiarsi di acquistare, perché è una semplice raccolta degli articoli che
Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro hanno scritto per quel giornale negli ultimi
quattro o cinque mesi e, in appendice, dei commenti che lo stesso Giuliano
Ferrara ha siglato con l’elefantino per lo più a margine di quelli: la fatica è
in una trentina di pagine, anch’esse già pubblicate su Il Foglio, la scorsa
settimana, lì però in inglese, come se la solita anziana signora stavolta fosse
capitata in un vagone pieno di turisti, lo stesso intenzionata a strepitare,
però against the barbarism of the modern times. Niente di nuovo, in sostanza,
ma l’incipit merita due soldi di attenzione.
«A me
questo papa piace. Mi mette in allarme». Trovatemi qualcosa che vi metta in
allarme, ma allo stesso tempo vi piaccia. Difficile, vero? Se per allarme
intendete stato di ansia o di apprensione, senza dubbio. Se però avete indole
guerriera e per allarme intendete segnale che allerta alla difesa o
all’attacco, suppongo sia più facile. In tale contesto, da cosa è dato questo
allarme che procura piacere? Pongo la domanda in altri termini: è questo papa a
dare il segnale che allerta o è egli stesso a esserne causa? Vediamo se il
seguito ci aiuta a chiarire: «Qualche volta penso che l’avventura andrà a
finire male. Ma a mio modo spero». Non dovrebbero esserci dubbi: è lo stesso
Bergoglio a esserne causa, perché la linea che ha dato al suo pontificato
comporta un serio rischio, e tuttavia (o proprio perciò) il rischio va
accettato con fiducia. Non è la speranza di chi si affida alle mani della
Provvidenza, perché «non ho fede, ma considero perduta un’umanità senza fede»:
a guidarla in questo modo temo si possa andare a picco, ma è l’unica barca che
c’è, e io ci sono sopra.
Devo
rimandare a ciò che ho scritto alcuni giorni fa: il senso di come si sia messi
male sta nel trovare l’argomento più forte in favore di chi è al timone della
barca sulla quale si attraversa la tempesta in quell’anticipo di fiducia che si
ritiene necessario concedergli, e che si spera sia tanto più efficace quanto
più cieca. Concludevo che è la tentazione cui gli irresponsabili cedono con
slancio.
Un lapsus di Mentana
Si è
vociferato di un passaggio di Mentana alla conduzione di Servizio pubblico, al
posto di Santoro (il Giornale, 23.3.2014),
ma Mentana ha smentito seccamente (https://www.facebook.com/pages/Enrico-Mentana-pagina-ufficiale-bis),
dunque direi si possa mettere una pietra sopra alla faccenda. E tuttavia occorre far presente che in coda all’edizione
del TgLa7 delle 20.00 di giovedì 20 marzo, nell’annunciare l’intervista che aveva fatto a
Grillo quello stesso giorno e che sarebbe andata in onda l’indomani per Bersaglio mobile, Mentana è incorso in
un lapsus che dà da pensare.
Wow!
Teologia della perfezione cristiana di Antonio Royo Marín (Edizioni Paoline,
1960) è un libro singolare. Ne ho trovato una prima edizione in ottimo stato su
una bancarella (7 euro, forse nemmeno sfogliato, un affarone), ma ho saputo che
qualche anno fa è stato ristampato e dunque non avrete alcuna difficoltà a
procurarvelo, cosa che consiglio soprattutto a quanti mi hanno scritto in passato perché compilassi liste di volumi per l’approfondimento dei temi salienti della teologia
cattolica e della storia della Chiesa: libro da mettere sulla pila di quelli che ho già segnalato loro, ma lettura interessante per chiunque.
Libro singolare, dicevo. Per la sua struttura, innanzitutto, che gli dà l’aspetto di due volumi incastrati l’uno nell’altro.
È che
«la nostra prima intenzione
– si legge nella Prefazione –
fu di scrivere un breve manuale di ascetica e mistica [...] Poi, voci amiche, con affettuosa insistenza, ci fecero pressione perché presentassimo uno studio più ampio, che abbracciasse tutto il panorama della vita cristiana» (pag. 5). Evidente il segno lasciato dalla saldatura, perché il risultato è un libro che alterna stili affatto diversi: da un lato, infatti, v’è il vademecum di dottrina scritto da un domenicano dalla sensibilità comune a gran parte del clero prima del Vaticano II, robetta senza interesse che ingombra più della metà delle 1216 pagine del volume; dall’altro, invece,
v’è il
«manuale di ascetica e mistica», che ha un taglio
– sia consentito il paradosso – scientifico; sicché basta saltare l’Introduzione generale, tutta la Parte I, i primi tre capitoli del Libro I e i primi due del Libro II della Parte II, e la Conclusione, per avere a disposizione quanto era nella «prima intenzione», che è davvero notevole.
Tutto sui fenomeni di ordine conoscitivo (visioni, locuzioni, rivelazioni, discrezione di spiriti, ierognosi, scienza infusa, ecc.) e quelli di ordine affettivo (stimmate, sudorazioni e lacrimazioni ematiche, bilocazione, levitazione, cambio di cuori, ecc.), ma anche sulle tappe ascetiche e su quelle mistiche, sulla lotta attiva contro il peccato, contro il mondo, contro il demonio e contro la propria carne. Un universo psicopatologico più affascinante di quello del caso Schreber. Anche se del cattolicesimo non vi interessa una beneamata cippa, insomma, si fa leggere come un libro di avventure psichedeliche. Ogni pagina è un
«wow!».
domenica 23 marzo 2014
Il Berlinguer di Veltroni
Detesto ripetermi, ma ancor più rimandare a ciò che ho scritto con un link. Tuttavia talvolta sento necessario ribadire ciò che ho scritto con troppo anticipo. In questo caso si tratta del Berlinguer di Veltroni, che tra poco farà scendere i lacrimoni anche ai cuori di pietra. Due anni fa era Civati ad accendergli una candela votiva, e anche lui parlava di un Berlinguer che non è mai esistito. Le cose scritte allora valgono anche oggi, e le riporto qui sotto, così mi risparmio una recensione a un film.
«Ero
piccolo, e non capivo granché di politica». Come se oggi, invece… Civati
commemora Berlinguer nel 28° della morte e nel leggerlo trovo conferma che
peggio dei rottamandi ci sono solo i rottamatori. Almeno i primi hanno capito,
anche se troppo tardi e a fatica, che proprio Berlinguer è il peccato
originario che li ha portati regolarmente fuori strada ad ogni svolta, per
tornare ogni volta più malconci in carreggiata, ma accumulando sempre più
ritardo e perdendo sempre più consensi.
Civati,
no. «Ci manca, Berlinguer… Sapete, ci manca davvero». Vorrei vederlo nel Pci di
allora, quando il dolce Enrico, in culo a ingraiani, amendoliani e cossuttiani,
prima cambiava linea del partito dalla sera alla mattina e poi esigeva che la
direzione ratificasse e il congresso applaudisse. Macché, Civati è convinto che
«Berlinguer diceva, quando esprimeva un pensiero, “i comunisti pensano” o
“sostengono” o “intendono”, che si capiva che voleva dire “noi comunisti”,
mentre a noi manca il noi». Neanche la Mafai avrà letto, è evidente, e sì che
il libricino era smilzo, poteva trovare due ore tra un film e una partita di
calcetto, avrebbe capito che noi significava Berlinguer, Rodano e Tatò.
Il
Berlinguer di Civati è un poster, un brivido lungo la schiena, un’emozione: non
ha mai letto una sua relazione congressuale o un suo paginone su Rinascita, è
evidente. Civati è rimasto al «qualcuno era comunista perché Berlinguer era una
brava persona», senza neppure riuscire a leggerci l’ironia che ci metteva
Gaber. Come dire, «Berlinguer, ti voglio bene», facevi tanta tenerezza il
braccio a Benigni, sei morto in modo così emozionante, ti ho visto su Youtube,
non ho capito cosa dicevi, ma suonava così bene.
Dicevi
che eravamo «diversi», e lo dicevi così bene che ci abbiamo creduto. Pensavamo
che la macchina del partito girasse grazie alle sottoscrizioni che si
raccoglievano alle Feste de l’Unità e che quei tuoi strappetti dalla Casa Madre
fossero delicati per non lacerarci il cuoricino. Siamo stati costretti a
ricrederci, avremmo tanto bisogno di uno come te che riuscisse a farcelo
credere ancora, se solo avessimo l’anima bella di allora e il centralismo
democratico.
«Quel
volto, quella cultura, quella dimensione, non sono più tornate», piagnucola
Civati, faccia da Postalmarket, lirismo alla Veltroni. E vaglielo a spiegare
che quel volto, quella cultura, quella dimensione erano quelli di un Togliatti
in sedicesimo.
Rassegnarsi al peggio
Ci si
concentra, vedo, sulla faccenda dell’invito all’ambasciata inglese, per sottolineare,
e comunque non a torto, il vizio paranoico che porta Grillo a interpretare l’episodio
come il capitolo di un complotto. Ora, è vero, la dimensione in cui si muove
Grillo ha senza dubbio il segno della distorsione percettiva della realtà, com’è
d’altronde per buona parte dei leader che danno voce a pulsioni prepolitiche per
rappresentarla come trama in cui essi entrerebbero da sovvertitori delle regole
che la rendono mostruosa, e tuttavia nell’intervista concessa a Mentana vi è qualcosa
di assai più agghiacciante che mi pare sia sfuggita a gran parte dei
commentatori: Grillo presume che le regole si possano sovvertire semplicemente
rivelandone il fine, cioè condannando in esse la ratio che le predispone a
motore di ingiustizia. Può sembrare ingenuità, dunque elemento di debolezza nell’analisi
da cui dovrebbe muovere l’alternativa del M5S, ma in realtà si tratta dell’elemento
di forza che è nelle mani di chi recluta l’altrui ingenuità al proprio fine,
che spesso non è neppure la costruzione di un potentato ma solo un’avventura,
per fame di avventura: poco importa se Grillo creda davvero o meno in ciò che
dice, di fatto intende dar corpo proprio all’ingenuità che conta sulla
possibilità di alternativa nella mera semplificazione della realtà all’ordito
che le darebbe un significato inequivoco. In tal senso, dirsi «portavoce» del
M5S non è un vezzo: Grillo sarà senza dubbio il proprietario della baracca, ma in
sostanza si offre davvero e per intero a quell’enorme massa di irresponsabili
che s’illudono di trovare giustizia semplicemente nell’abbattimento di un
sistema ingiusto, se possibile.
In altri termini, direi, che la mancanza di un
organico disegno di società spesso rinfacciato a Grillo sia la vera forza del suo
movimento, oltre a costituirne il vero pericolo. D’altro canto, fatta eccezione
per qualche colto rintanato nella sua turris eburnea, che guarda e dispera, di
organici disegni di società non se parla, al più di riformucce, toppe,
dispositivi dilatori. La cosiddetta «morte delle ideologie» ci avrà pure
liberato dal rischio di filtri monocromi e almeno tendenzialmente totalitari, ma ci ha
privato della chiave per dare articolazione in un sistema a soluzioni isolate, perfino sagge se avulse dal contesto che le rende irrilevanti o velleitarie.
Perciò direi che l’elusione di ogni domanda di Mentana relativa al «dopo» la
conquista della maggioranza assoluta da parte del M5S sia cifra più
significativa di ciò che ormai anche Grillo non rifiuta più di chiamare
grillismo: c’è voglia di distruggere, a fronte di chi si illude che basti
rappezzare, ma non c’è un cane che abbia un progetto o, se ce l’ha, esita
perfino a dargli un nome, perché dovrebbe giocoforza dirlo sussidiario
(socialdemocrazia, dottrina sociale cattolica o liberalismo temperato). Mancano
le idee, perciò vincono le urla. E senza dubbio Grillo urla bene, anche quando,
com’è stato nell’intervista concessa a Mentana, usa toni morbidi e a tratti
suadenti. Allo stato, è il punto più avanzato del post-ideologismo, dunque può permetterselo.
E se dall’affogare in questo mare di merda ci si può salvare solo
ingurgitandone il tanto che basta a farne scendere un po’ il livello, si
potrebbe perfino fare un pensierino a dargli il voto, almeno alle Europee. In
fondo, alla crisi dello stato liberale non c’era altro sbocco che il fascismo
o, se c’era, non si riuscì a trovarlo. Penso che rassegnarsi al peggio sia infruttuoso, tanto vale assecondarlo per affrettare i tempi.
venerdì 21 marzo 2014
[...]
Credo
di aver già spiegato a sufficienza perché questo pontificato mi ha tolto il
gusto di polemizzare coi preti, ma continuo ricevere email che mi chiedono di
commentare quella per alcuni è la svolta, per altri addirittura la
rivoluzione, cui avrebbe dato avvio Bergoglio. Neanche rispondo, sennò mi
limito a due righe per ribadire quello che ho già scritto su queste pagine: non
si tratta di una svolta – tanto meno di una rivoluzione, figurarsi – siamo
soltanto al tentativo di recuperare un po’ di credito presso quell’opinione
pubblica che del cattolicesimo sa poco o nulla (poco di storia, quasi niente di
dottrina, men che meno di teologia), ma che inclina a tollerare quanto ne
residua dai secoli in cui era incontrastabilmente e onnipresentemente pervasivo, se il papa è
simpatico e i vescovi non rompono eccessivamente il cazzo; per tollerarlo meno,
ma senza mai andare oltre l’indifferenza, quando a dargli un dito pretende il
braccio. Perciò – e l’ho già detto – io condivido in pieno il fastidio che
questo papa dà agli ultras della Tradizione, che poi sono i soli veri cattolici
(il resto è ereticume), con la sola differenza che a loro Bergoglio fa torcere
le budella – e li capisco, poverini – mentre a me dà solo una leggera nausea.
All’inizio mi irritava: leggevo i testi delle sue omelie in Santa Marta e mi sembrava di essere passato dal sudoku alla tria, poi mi sono accorto che era un sudoku pure lui, ma con lo stesso difetto che aveva quello del Corriere della Sera di sabato scorso.
Penso
anch’io, al pari di chi ritiene che stia lì solo per cercare di risanare la crisi paurosa cui Ratzinger ha portato la baracca (e Allah gliene renda merito),
costretto a rischiare grosso per mettere una toppa alla voragine, e che bene o male stia
facendo il suo lavoro, sebbene non sia detto vi riesca, né che la soluzione non
ponga altri problemi, e ben più grossi. Il fatto è che, al pari del cattolico
comme il faut che sarebbe disposto ad un’emorragia di fedeli pur di mantenere
intatto il deposito di fede fino all’ultimo iota, anch’io trovo disagio dinanzi
alle bestialità che Bergoglio spara a getto continuo. Con una differenza bella grossa, ma tutto sommato
irrilevante ai fini pratici: per il cattolico comme il faut è pur sempre il
papa, e il papa bisogna farselo piacere, anzi, più il farselo piacere costa
sofferenza, e più si gode; per me, al contrario, star
lì a dovergli fare le bucce sulle verità più incontestabili di un credo di cui
lui dovrebbe essere il più strenuo difensore, per giunta rinfacciandogli di mettersele
sotto i piedi per basso opportunismo da gesuita – e giuro che ci ho provato, ma
mi sembrava di spiegare il cattolicesimo a un indio precolombiano – è uno
strazio.
Si prenda a esempio la ventilata ipotesi di ammettere all’eucaristia
chi si è sposato in chiesa, ha divorziato e poi si è risposato in municipio (mi
levo il gilet da gentiluomo di campagna, mostro il petto di villico e chiedo):
di cosa cazzo discutiamo? Il primo matrimonio era sacramento, il secondo è
concubinaggio. Dice: ma il divorzio non l’ha voluto lui, ma la moglie. E chi se
ne fotte, ha giurato di esserle fedele comunque: gli tocca la castità e neanche
può augurarsi muoia la moglie per convolare a nuove nozze, perché augurarselo
non sarebbe carino agli occhi di Dio. Ora, ’sto cattolico-per-modo-di-dire è un divorziato, si è
risposato perché non riusciva ad essere continente, e in pratica per i suoi
pruriti di nerchia non si è fatto scrupolo di sputare su un sacramento, s’è
risposato pure nel modo che il Catechismo gli vietava, e pretende pure l’ostia
la domenica mattina? Dice: ma Dio è misericordia. Sì, può darsi, faccio fatica
a crederci ma voglio concederlo: Dio è misericordia. Ma ’sta misericordia
arriva dopo il pentimento? E come mi si è pentito, ’sto
cattolico-a-cazzo-di-cane? Ha capito di aver sbagliato a risposarsi e lascia la
seconda moglie? Ci rimane insieme in casta amicalità? Macché, pretende che
sull’indissolubilità del matrimonio si metta una pecetta, e vuole l’ostia. Un
papa serio lo manda al diavolo in entrambi i sensi, e invece che mi fa, questa
bertuccia d’un gesuita? Gli stende il tappetino del percorso di ravvedimento, con concubina a carico.
Ma per piacere, anzi, per carità di Dio, signori cardinali, levate ’sto
pagliaccio dal Trono di Pietro (non c’è bisogno vi suggerisca il modo, sapete come si fa) e mettetene uno che si riconosca dalla puzza essere un papa di quelli cui eravamo abituati.
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