Se
non ci fosse bisogno ancora di illudersi, a questo punto dovrebbe esser chiaro a
tutti che Matteo Renzi è un pallone gonfiato. Il fatto è, come ho già scritto
su queste pagine, che le cose sono messe così male che illudersi appare
necessario ancora a molti. Una sorta di dovere civico, diciamo. Del tutto
ovvio, quindi, che sul rapido sgonfiarsi del pallone si voglia chiudere un
occhio. Tristemente comprensibile, ma intollerabile, perché l’illusione sta ipotecando ogni spazio di critica: manca poco all’accusa di disfattismo per il solo accostare i risultati alle attese.
Al netto degli annunci, cosa ha concluso in due mesi il Fenomeno da una
riforma a settimana? Un beneamato cazzo. L’Italicum è già in forse: è bastato
che i sondaggi dessero il M5S avanti a Forza Italia, e che dunque un eventuale
ballottaggio non si annunciasse più tra chi voleva quella legge elettorale,
perché non piaccia più a chi doveva votarla in Parlamento, e se ne sta lì, in
attesa che a qualcuno venga in mente cosa farne. E meno male, perché si
trattava di una vera merda, anche peggiore del Porcellum.
Per farsi un’idea del
profilo riformatore di Matteo Renzi, d’altronde, bastava un’occhiata a quella
schifezza di Senato immaginato da un ddl che ha sollevato critiche perfino nel
Partito Democratico, spaccandolo.
Sui famosi 80 euro, meglio stendere un velo
pietoso: tolto l’ingombro delle reticenze di Padoan e dei begli occhioni della
Boschi, non c’è ancora copertura, e chissà se ci sarà mai. In ogni caso, si
annuncia come un bonus una tantum. Gli incapienti, i pensionati e le partite Iva
sono fuori, e chi è dentro, quasi certamente, dovrà restituire ciò che avrà con
gli interessi, visto che parte della copertura è partita di giro con tagli ai
servizi. E tuttavia pensare che la trovata serva a comprarsi il voto di qualche gonzo offende, indigna.
Il resto è agenda delle buone intenzioni, e delle intenzioni nemmeno
tanto buone. In ogni caso, la millantata velocità del governo rimane uno
sbattersi senza costrutto: dismettiamo le auto blu (qualche centinaio su decine
di migliaia), mettiamo donne a capo di aziende pubbliche (in allocazioni
ornamentali, scegliendo tra rampolle di razza padrona, possibilmente senza
cellulite), tagliamo i costi della politica (ma intanto intaschiamo alcune
decine di milioni di rimborsi elettorali dell’ultima tornata, mentre della
legge che dovrebbe abrogare il finanziamento pubblico ai partiti, ma per modo
di dire, non si ha notizia: persa nelle nebbie).
A farlo notare si è «gufi» e «rosiconi» (pensa di essere un tronista, il cretino),
addirittura «soloni milionari» (questa non è sua, deve averla scopiazzata da Libero o il Giornale): basta una superficiale analisi lessicale
dei termini utilizzati, per capire che ci troviamo dinanzi ad un quarantenne
che ha subito un blocco alla fase adolescenziale e che pensa di avere a che
fare con dei ragazzini che hanno cinque o sei anni meno di lui: il tipico
prodotto della politichetta di provincia che ha subìto una mutazione favorevole
su quel tratto di genoma che regola furbate e maneggi. Altrimenti: una
neoplasia sviluppatosi nell’organo del «saperci fare», e che assume la forma
degli spropositi fuori scala.
Solo
a pallone sgonfiato potremo misurare il metraggio l’involucro, oggi dobbiamo limitarci a considerarne capacità ed elasticità. E non è un calcolo complicato.
Se
l’elettore medio italiano ha «l’evoluzione
mentale di un ragazzo che fa la seconda media e che non sta nemmeno seduto nei
primi banchi» (Silvio Berlusconi, 9.12.2004), occorre parlargli in modo
acconcio – parole facili, frasi brevi, concetti semplici – ma soprattutto
occorre ripetersi e ripetersi, senza stancarsi mai, e senza alcun timore di
annoiarlo: anche quando è semplice, infatti, un concetto ha sempre un certo grado
di astrattezza che tende a renderlo fuggevole a chi abbia lo sviluppo
intellettivo di un dodicenne, quindi ribadirglielo non è mai superfluo, anzi,
il ragazzino apprezza; anche quando è breve, poi, una frase acquista maggiore
incisività nell’essere frequentemente riproposta, fino a diventare, se tocca il
tasto giusto, un vero e proprio jingle; in quanto alle parole, pure quelle
facili hanno bisogno di essere riascoltate e riascoltate per diventare solide,
anzi, sono proprio le più facili a correre il rischio di farsi volatili se non
vengono continuamente ripetute per dar loro il senso al quale si vuole siano
piegate.
Est modus in rebus, tuttavia. Nel flusso delle parole facili è utile,
di tanto in tanto, farne cadere qualcuna che affondando crei un vortice in cui
la banalità acquisti energia centripeta fino a farsi estremamente grave, fino a
farsi buco nero che offra una dimensione parallela nella quale «fare» non regge
più alcun complemento oggetto, ma sembra verbo intransitivo. Così con le frasi:
brevi, sì, ma a effetto, prendendo a prestito locuzioni proverbiali e dialettali,
residui di barzellette sedimentate sul fondo della brocca in cui si fa cadere
la mancia, spezzoni di scioglilingua da scampagnata, versi sfusi da canzonette
orecchiabili, meglio se vecchie di una decina d’anni, e soprattutto tanto
idioletto pubblicitario. Idem coi concetti: semplici, ma meglio circolari che
lineari, concetti che si autorappresentino e si autoargomentino, come ciò che è
dozzinale quando avanza la pretesa di essere autoevidente. Tutto questo,
tuttavia, meglio se d’istinto. Per intenderci, guardate Mario Adinolfi: è un
Matteo Renzi abortito. Andato a male per atrofia dei villi. Se a Palazzo Chigi c’è l’uno e non l’altro, in fondo, è solo un caso.