mercoledì 11 giugno 2014

Conviene ripeterci

A negare che esista un diritto di far figli, e dunque a storcere il muso per la sentenza della Corte Costituzionale che lo afferma e lo dichiara incoercibile, è chi sostiene che sia un dovere. Il paradosso segnala un’incongruenza logica che è a fondamento della morale cattolica: se infatti il far figli è un dovere imposto da un Dio che è provvidenza, farli aggirando le regole prefissate nell’ordine creaturale è altrettanto colpevole che evitare di farne contravvenendo ad esse. D’altronde, il diritto di far figli è sentito tale da chi ritiene che sia lecito decidere di farne o no, aggirando le eventuali difficoltà che si frappongono all’averne, se aggirabili. Non così per chi ritiene che farne sia un dovere dal quale ci si può sentire sollevati solo nell’impossibilità di averne secondo la regola che vuole inscindibili il momento unitivo e quello procreativo oppure per onorare la scelta della castità.
Ecco, dunque, che il paradosso si scioglie: devi far figli, e devi volerli fare, perché così Dio vuole, ma se non puoi averne nell’unico modo che ti concede per averne, pur potendo averne in altro modo, devi rinunciarci, perché così Dio vuole nel tuo caso, e non ti è dato chiederti il perché. Si adattasse tale logica a qualsiasi altro apparato umano come si pretende sia cogente per quello riproduttivo, sarebbe immorale l’uso degli occhiali da vista, qualsiasi terapia endocrina, l’impianto di protesi cardiache, ortopediche e dentarie, ecc. È evidente che il divieto di ricorrere a tecniche di fecondazione assistita per superare gli ostacoli che si frappongono alla possibilità di avere figli debba rispondere a un’altra esigenza e che il dettato morale sia solo strumento per darle una risposta. Così, d’altronde, è per gran parte degli imperativi etici che i cattolici non si accontentano di contemplare, peraltro riuscendoci in modo assai imperfetto, ma cercano di tradurre in leggi che debbano valere per tutti. L’esigenza di fondo è il tentativo di perpetuare un ordine sociale nel quale Dio sia necessario, tanto più necessario in un ambito strategico come quello riproduttivo: se far figli è un dovere, Dio diventa il motore demografico di una società. In modo opposto, ma con la stessa placida risolutezza, contraccezione e fecondazione assistita spodestano Dio.
Il diritto di far figli o di non farne ha questo di terribile ora che nell’aldilà neppure più cattolici credono più tanto: sovverte il fondamento che dichiara insovvertibile l’ordine creaturale, quello per il quale poter far figli è un dono di Dio che non si può rifiutare, e il non poterne fare è un suo veto che non è tollerabile sia messo in discussione.

martedì 10 giugno 2014

Fiumi di parole

Dopodomani fanno tre mesi esatti dalla conferenza stampa nella quale Matteo Renzi annunciò cosa avrebbe fatto il suo governo nei primi tre mesi e poi entro la fine di giugno e quella di luglio. Presto ancora, per chi gli ha creduto, cagarsi in mano e prendersi a schiaffi, però io comincerei a prepararmi: mancano ancora due giorni, infatti, perché il Parlamento vari la nuova legge elettorale, due giorni perché passi la riforma del Senato e del Titolo V della Costituzione, una ventina di giorni per avere un altro fisco, un’altra giustizia e un’altra pubblica amministrazione, sei o sette settimane ancora perché lo Stato paghi i 68 miliardi di euro che deve ai suoi creditori, perché altri 10 vengano messi a disposizione per l’accesso al credito delle aziende in difficoltà e altri 3,5 stanziati per il piano di edilizia scolastica. Il già fatto? L’abolizione del Cnel, le 100 auto blu messe all’asta, gli 80 euro che gli sono valsi il 40,8% alle Europee. L’annunciato taglio dell’Irap? Doveva essere del 10%, è stato rimodulato al 5%. Cos’altro? 


lunedì 9 giugno 2014

Non ci resta che attendere


Sarà davvero interessante sentire dal professor Giovanni Agosti e dalla neodottoressa Cristina Moro, venerdì 13 giugno, all’Istituto Italiano di Cultura di Londra, quali siano le prove che consentirebbero per le due tele conservate nella Villa San Remigio, a Verbania, la certa l’attribuzione alla mano del Veronese. Si tratta di due figure allegoriche raffiguranti la Scultura e la Geografia, finora attribuite alla scuola del grande pittore del Cinquecento, che era solito firmare le sue opere: queste due non lo sono e, almeno dalle indiscrezioni che trapelano, parrebbe che la nuova attribuzione trarrebbe forza dalle concordanze che esse mostrerebbero con altre due tele, in questo caso sicuramente dipinte dal Veronese, conservate al Los Angeles County Museum of Art, però raffiguranti Averroè e Tolomeo.


Concordanze, dunque, che non sarebbero strettamente relative al tema, ma naturalmente questo è irrilevante. Rilevante, invece, è il fatto che queste concordanze siano inafferrabili al raffronto degli elementi formali. Anzi, è proprio dall’accostamento dei pochi analoghi che nelle tele di Verbania si evidenziano numerosi momenti di impaccio nello sviluppo dei panneggi e nella resa degli incarnati, del tutto assenti in quelle di Los Angeles. Più ancora del tratto, poi, risulta evidente un notevole scarto di qualità, tra le une e le altre, nell’uso del pigmento per dare profondità e rilievo alle masse, sicché parrebbe essere stata del tutto trascurata la lezione di Marco Boschini (1613-1704), che del Veronese ci dice:


A fronte di tali perplessità rimane la curiosità, dunque converrà aspettare l’appuntamento di venerdì. D’intanto, non ci resta che prendere per buone le dichiarazioni dellAgosti: «In questa storia non c’è alcun gusto dello scoop per lo scoop, non c’è voglia di sensazionalismo. C’è il frutto di un gran lavoro, di ricerche condotte seriamente da una studentessa attenta alla storia della cultura» (Corriere della Sera, 8.6.2014). Sì, perché il «gran lavoro» della Moro è una tesi di laurea e le «ricerche condotte seriamente» prendono le mosse, come si è detto, dalle analogie colte tra le tele di Los Angeles e quelle di Verbania. Ma non è tutto, perché «poi – aggiunge Agosti – c’è una convergenza di istituzioni pubbliche che hanno concorso per ottenere un unico scopo: accertare la verità intorno a quelle due opere». Qui, sul fatto che la «verità» possa chiamare a garanti le «istituzioni pubbliche», le perplessità aumentano, perché non è la prima volta che l’attribuzione di una crosta a un grande nome viene avallata per ragioni che oltrepassano la ricerca del vero.


Poi, passa il tempo, e del Veronese non sembrano più essere né Il ragazzo con levriere, né la Deposizione. Considerazioni oziose, probabilmente, ma rammentiamo che Villa San Remigio era fino a poco fa nella lista dei beni pubblici alienabili e sul Corriere di Novara dello scorso 10 marzo il presidente del Consiglio Regionale, Valerio Cattaneo, commentava: «Questa scoperta rilancia Villa San Remigio, che, in modi e tempi da definire una volta individuate le fonti di finanziamento, potrebbe diventare meta privilegiata di turismo culturale e d’arte».
Non ci resta che attendere.  

sabato 7 giugno 2014

L’irresistibile gorgo

«Il noto effetto bandwagon, che ai piani alti della politica trova analogo nell’osceno assalto al carro del vincitore cui assistiamo in questi giorni» (ReplicaMalvino, 31.5.2014), ai suoi piani bassi, quelli dell’agorà televisiva, dà segno negli ammicchi a un renzismo che giocoforza è parodia di se stesso. Giocoforza, perché un renzismo come dottrina ancora non esiste, e chissà se mai esisterà: in Matteo Renzi e nei renziani (parlo del staff, non degli avventizi e degli stagionali) la vacuità di contenuti culturali (cultura politica e cultura in generale) è stipata dai suoi surrogati (la lingua si dà in gergo, l’argomento cerca persuasione nella fallacia, il significato resta opaco nel significante), sicché il renzismo è al più uno stile, ma forse pure stile è parola grossa, direi sia un format, e la tv comincia ad adottarlo. Il passaggio da Anno Zero ad Anno Uno credo sia un indicatore: il ventaglio delle posizioni su un tema trovano soluzione in «ragazzi» che «ci mettono la faccia» «rottamano» il vecchio talk show per sostituirlo col chiacchiericcio degli Amici di Maria De Filippi, in cui anche i più sgangherati luoghi comuni cercano dignità di opinione. Basti l’esempio di quanto il cosiddetto garantismo trovi degrado nelle frasi fatte sparate a sproposito da una delle maschere: 


C’è una compiaciuta pretesa di liquidare le ragioni del cosiddetto forcaiolo a un fastidioso moralismo, a un problema psicologico o addirittura a una rendita di comodo. Tanto più disgraziato è l’esito, e perciò a suo modo efficace, quanto più sbilanciato è il confronto: il cosiddetto forcaiolo è lì in antonomasia e il cosiddetto garantista ha tutto l’agio di polemizzare ad hominem, trovando il più pesante capo di imputazione a suo carico nel «disfattismo». Si riesce perfino a chiudere un occhio sul fatto che la «presunzione di non colpevolezza» sia promossa a «presunzione di innocenza».
Siamo davvero nell’irresistibile gorgo dello scarico del cesso. Masse ignoranti fin qui coccolate da spregiudicati demagoghi si scontrano e generano violente trombe d’aria che radono al suolo ogni possibilità di logica. Tra poco converrà sottrarsi ad ogni occasione di confronto pubblico, da attore e da astante.     

giovedì 5 giugno 2014

[...]

Vittorio Sgarbi inveisce contro gli stupri architettonici ed urbanistici delle amministrazioni locali, «ignoranti e criminali come Calogero Sedara». Per fortuna chiarisce subito che si tratta del «personaggio del Gattopardo», giusto in tempo per risparmiare a Giulia Innocenzi il doversi dissociare da affermazioni così pesanti ai danni di chi è assente e non può difendersi. Metti caso ’sto Sedara querelasse Anno Uno. 

Corrispondenze

Bella domanda, caro ***. Sono stato a pensarci sopra un buon quarto d’ora e penso di poterti dare una risposta: il tratto che sembra voler essere la massima peculiarità del terzo millennio non è quella cui anche tu dai il brutto nome di «morte delle ideologie» (sono morte alcune ideologie – anzi, per meglio dire, riposano in attesa che qualcuno sappia dare loro il fascino del vintage – ma il più abborracciato metodo di analisi del reale rimane pur sempre una Weltanschauung), piuttosto è la trasformazione dell’antitesi tra aristocrazia e democrazia nella complementarietà tra elitismo e populismo. Come il principio di diritto reggeva quell’antitesi, lo stato di fatto regge questa complementarietà. Ma non vorrei essere frainteso: per diritto, qui, intendo la radice di legittimità che l’aristocratico trovava nell’ideale dell’eccellenza e il democratico nell’ideale del razionale. Bene, direi che la radice ora è vizza: aristocratico e democratico, così, hanno perso stabilità, e per entrambi il fondamento si è ridotto allo stato di fatto, mobile e contraddittorio. Dalla radice bicefala al fittone embricato, perché per stato di fatto – anche qui chiarire non mi pare superfluo – intendo un reale che impone una continua rettifica del metodo. Direi sia egemone una sola ideologia, irriconoscibile come tale, che si limita a rappresentare l’instabilità del sensibile. Viviamo il totalitarismo del labile. Ti prometto che ci tornerò sopra, cercando di mettere un po’ di ordine, dando argomentazione ai passaggi. Ciao.   

mercoledì 4 giugno 2014

Oh, cara!

Non riuscendo in alcun modo ad astenermi dal voto per quella sorta di coazione a ripetere che con qualche eccesso di benevolenza si potrebbe definire disperante responsabilità, non riuscendo in alcun modo tuttavia a trovare sulla scheda un simbolo che mi ispirasse un seppur labile movente di adesione se non di aderenza, mi sono deciso per la prima volta in vita mia a dare un voto unicamente alla persona, e visto che nella mia circoscrizione era candidata Barbara Spinelli, la cui scrittura mi ha sempre deliziato cinque volte su sette, ho chiuso un occhio sul fatto che stesse in una lista di tipacci, e ho votato lei. Voglio dire: avessi visto il nome di Canfora o quello di Cordero in una delle altre liste, probabilmente avrei votato loro, e questo, più che di morte delle ideologie, mi sa di superfetazione dei personalismi, ma i tempi sono bui, e ahinoi. Per giunta, a rimarcare i tratti del preistorico paesaggio in cui si è mossa la mia decisione, ho da confessare con un certo imbarazzo che non ero affatto a conoscenza di ciò che Barbara Spinelli aveva lasciato intendere o addirittura, se ho capito bene, detto esplicitamente, cioè che avrebbe rinunciato al seggio, se eletta: lo apprendo solo adesso che la decisione sembra essere mutata. E mi piace illudermi che sia accaduto perché ha saputo, e non voleva darmi un dispiacere.


Aggiornamento (7.6.2014)


martedì 3 giugno 2014

Il culo del re


La delicatezza con la quale Ernesto Galli della Loggia affronta la questione di quale cattolicesimo sia cattolico Matteo Renzi è pari a quella che immaginiamo abbia usato Charles-François Felix De Tassy nell’accingersi ad operare Luigi XIV di fistola perianale, d’altronde pure in questo caso si doveva metter mano a un recesso intimo, assai sensibile, e il soggetto non era uno qualsiasi. Non è tutto, perché in entrambi i casi il lavoretto, all’apparenza semplice, è quasi sempre reso disagevole da immancabili sorprese che emergono solo in corso d’opera, e guai a non metterle in conto: com’è assai raro, infatti, trovare la stessa fistola in due culi diversi, non c’è cattolico che non lo sia a modo suo.
Più pulito il De Tassy, un po’ meno il Galli della Loggia, ma direi che il problemino abbia trovato soluzione in entrambi i casi, perché lì il Re Sole fu ben presto in grado di tornare a montare a cavallo, e qui a Matteo Renzi si è sellato un cattolicesimo buono al passo, al trotto e al galoppo.

Non avendo nulla del democristiano della Prima Repubblica, va da sé che il suo cattolicesimo «non [è] quello che improntava di sé tanta parte della vecchia Dc con le sue radici nel primo Novecento». È un affondare il bisturi nel becerume di chi neanche avrà letto una pagina di don Sturzo o di De Gasperi, ma con leggerezza, perfino con una certa grazia.
No, il cattolicesimo di Matteo Renzi è quello «di quell’Italia media che dal Po arriva agli Appennini, che dalle aule dell’Università Cattolica giunge, passando per i portici di Bologna, fino alla pieve di Barbiana. [Qui la pagina del Corriere della Sera mostra il suo limite, perché di sottofondo andava bene un motivetto folk suonato all’organino.] È il cattolicesimo dei Dossetti, dei La Pira, dei don Milani. Intriso d’inquietudini riformatrici, sospeso tra un ribellismo austero e spregiudicato che ricorda Savonarola [sic!] e la consapevolezza tormentata della sfida portata alla fede dai tempi nuovi. Percorso da una moderna vena intellettualistica e insieme da una devozione antica…».

È più che naturale che all’incisione di una fistola perianale, alla vista di quel che ne esce, il profano dell’arte chirurgica sia preso da disgusto, perdendosi così la bellezza del gesto, che è nell’affondo del taglio, nel cogliere la relazione tra interfaccia e clivaggio, nella calibratura del tessuto da cruentare… Così sarà con chi è a digiuno con le virtù d’un editorialista del Corriere della Sera cui viene affidato il compito di deliziare il culo al premier in carica.
Dossetti? E che c’entra con Matteo Renzi? E don Milani? La Pira? Qualcos’altro in comune oltre al fatto di essere stati entrambi sindaci di Firenze? Ecco, più o meno questo si sarà chiesto chi oggi leggeva Ernesto Galli della Loggia un poco disturbato, perdendosi così l’incanto della tecnica.

«È questo, nel fondo, io credo, il cattolicesimo di Renzi e dei suoi amici, quello che essi hanno respirato. Ma che oggi essi stessi declinano in una versione particolare, la quale ne addolcisce i tratti e ne stempera assai le ambizioni e l’asprezza originaria dei contenuti. […] È […] una versione che più che ad una qualche teologia radicale sembra rimandare all’immediatezza di un sentimento: quello che molto semplicemente vede il mondo diviso tra il bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto, tra deboli e forti, tra ricchi e poveri. E che di fronte a ciò non sa che farsene di qualunque intellettualismo più o meno palingenetico, di qualunque sogno di “società cristiana”, per prendere piuttosto la strada della concretezza, del cambiare ciò che è possibile ma provandoci davvero. Una versione dominata dalla dimensione del giovanilismo, abituata più che al partito al piccolo gruppo, mossa da un agonismo irrequieto mirato alla vittoria, fiducioso nelle proprie forze e pronto a misurarsi con l’azione; pienamente a suo agio con gli strumenti e i ritmi della modernità».
Neanche sembra più un culo, via. 


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lunedì 2 giugno 2014

Mannaggia



Quando le corporazioni si mobilitano in difesa dei propri privilegi, d’istinto mi schiero in favore di chi li ha messi in discussione, chiunque sia, senza star troppo a sceverare sulla ratio che lo anima, anzi, talvolta mi sorprendo addirittura ad incitarlo come se lui stesse sul ring e io di sotto: «Daje! – urlo in cuor mio – Faje usci’ er sangue dalle orecchie!». L’istinto, tuttavia, non mi fa perdere del tutto il comprendonio, sicché, dinanzi alla notizia che la Rai scende in sciopero per gli annunciati tagli che il Governo pare intenzionato a infliggerle, mi chiedo innanzitutto: è una corporazione, la Rai?
Direi che non lo sia. Corporazione sarà quella dei tassisti, dinanzi alla quale questo Governo si è calato le braghe, come d’altronde in altre occasioni hanno fatto anche quelli precedenti. In quanto ai privilegi che andrebbero tagliati, in questo caso parrebbe assommino a 150 milioni di euro: una bazzecola se comparata a tutto quello che ci costano i privilegi accordati alla corporazione dei preti, che forse non sarà corporazione in senso stretto, ma in senso lato pure troppo.
Ma la Rai? Non direi. Corporazione sarà quella degli operatori nel campo dell’informazione e dell’intrattenimento televisivi, mentre la Rai ne incardina solo una fetta. E ancora: nel toglierle quei 150 milioni di euro le si toglie un privilegio? Si tratta di un’azienda pubblica, dunque direi che quanto le si è dato finora fosse quello che serviva per mandare avanti il carrozzone, troppo o poco che fosse. Direi, quindi, che i tagli annunciati dal Governo, più un «basta con la Rai corporazione», come titolava giorni fa Il Foglio, siano poco più d’una mezza scorreggina di spending review. Senza dubbio necessaria, visti gli sperperi che praticamente tutti imputano alla tv pubblica, tanto più se a fare sacrifici sono già in tanti.
Tanti ma non tutti, a dire il vero, perché i partiti, per esempio, continuano a ricevere rimborsi elettorali, e i giornali continuano a intascare finanziamenti dallo Stato, e le sagre del caciocavallo continuano ad essere possibili  all’ombra di questo o quel campanile solo grazie a una generosa pioggerellina di denaro pubblico. Insomma, sarà un pensiero malizioso, e speriamo che Dio ci chiuda un occhio sopra, ma che alla Rai si voglia far pagare qualche sgarro, che si intenda fare un favore alla concorrenza, il sospetto viene. Non si ha neanche il tempo di scacciarlo perché sconveniente, tuttavia, che l’ineffabile Presidente del Consiglio dice: «Se avessero indetto lo sciopero prima del voto, invece del 40,8 per cento avrei preso il 42,8».
Mica è per fare un piacere a Mediaset, come insinuano a Viale Mazzini. Mica è per togliersi qualche sassolino dalla scarpa, come pensa qualche coda di paglia. No, si tratta dell’ennesima furbata promozionale: mettere all’asta due auto blu per far credere di aver lasciato a piedi la casta, dare una mancia da 80 euro a qualche milione di statali per poter dire che le tasse scendono, sparare le solite palle da ghepensimì ma con supporto di slides perché gli annunci sembrino anticipi. Se avessero indetto lo sciopero prima del voto, l’ennesima trovata per atteggiarsi a inesorabile nemico delle corporazioni avrebbe fatto tuttaltro effetto, mannaggia.
Perché, diciamocela tutta, la Rai, così comè, è un insulto alla povera gente che annaspa nei gorghi della crisi economica. Quei fatui varietà mangiasoldi, quello sconcio del gioco dei pacchi che dà via milioni di euro a dei perfetti coglioni sorteggiati tra gli abbonati al canone... Mica la serietà di programmi come Amici della De Filippi, mica i soldi sudati a La Ruota della Fortuna... 

domenica 1 giugno 2014

Luciano Ricci, Stupidario parlamentare, 1959



[...]


Pare che spesso alle domande poste in corso di sondaggio si tenda a dare risposte che si ritiene facciano fare bella figura, o almeno ne evitino di brutte, il che porta a darne di veritiere quando si abbia la convinzione che esse incontrino un giudizio favorevole o almeno neutro, sennò a darne di false, per evitare riprovazione, biasimo o perfino disprezzo. Giacché questo accade anche quando l’intervistato risponde in forma anonima, è evidente che la censura alla risposta veritiera insorga quando questa venga ritenuta sconveniente da un foro interno che faccia proprio il metro di giudizio che, a torto o a ragione, si sente esternamente prevalente. In sostanza, dunque, direi che chi mente alle domande poste in corso di sondaggio non sia semplicemente uno cui manchi il coraggio di esprimere le proprie idee o i propri gusti perché teme incorrano nella più o meno severa disapprovazione di quella che, a torto o a ragione, individua come prevalente opinione corrente: mentendo, egli non pone in atto solo una difesa alla propria reputazione, ma anche un vero e proprio attacco alla solidità del metro di giudizio ritenuto sovrano. Attacco che assume i connotati del sabotaggio, perché è evidente che un sondaggio miri a dare indiretta rappresentazione di quel metro, e la risposta non veritiera lo mina dall’interno, col chiaro intento di renderlo inaffidabile o comunque di erodere sovranità alla logica che lo rende vigente. In tal senso, è chiaramente riconoscibile la natura nevrotica del processo che porta a mentire in corso di sondaggio, e tuttavia potremmo riconoscergli una sottospecie della nobiltà che concediamo al partigiano che di giorno sia impeccabile conformista e di notte vada a minare ponti.
Ciò detto, occorre chiarire due punti, fin qui lasciati intenzionalmente vaghi. In primo luogo, occorre chiederci quali caratteri assuma la «prevalente opinione corrente» in chi menta in tali occasioni. Direi non sia necessariamente l’opinione quantitativamente maggioritaria, ma quella che chi mente sente qualitativamente, ancorché ingiustamente, più accreditata sul piano di quel realismo che presume a fondamento del vigente metro etico-estetico. In secondo luogo, torna necessario chiederci in quale misura – quanto «a torto o a ragione» – questo sentire trovi rispondenza nel «clima» che caratterizza il momento e il contesto in cui è posta la domanda del sondaggista. Mi pare che entrambe le questioni si risolvano assumendo che la persona che pone la domanda sia avvertita da chi le dà una risposta menzognera come rappresentante o addirittura, in qualche modo, artefice della «prevalente opinione corrente». Chi procede al censimento non è sempre delegato dal re? E non è in funzione ai risultati del censimento che il re prende le sue decisioni riguardo al regno? 

Ad una delle obiezioni che mi sono state sollevate per l’aver dato fede all’analisi dei flussi elettorali condotta dall’Istituto Cattaneo ho risposto che «una cosa sono le analisi del voto fatte prima che gli elettori entrino nel seggio, un’altra quelle fatte dopo»: mi pare che quanto ho fin qui detto ne dia un’adeguata spiegazione, e, riprendendo la metafora usata qui sopra, direi che ad attentato riuscito sia del tutto naturale segua una fiera rivendicazione. Direi che dire il vero, dopo, sia il miglior modo di dare una valenza propriamente politica all’aver detto il falso, prima.

sabato 31 maggio 2014

Replica


«Adulatori per lo più de’ tiranni presenti,
sebben lodatori degli antichi repubblicani»
Giacomo Leopardi, Zibaldone



Ricapitolando. Ho scritto che «il Pd riguadagna solo parte degli oltre 3 milioni di voti persi tra il 2008 e il 2013, senza peraltro riuscire a superare i 12 milioni che diedero il 33,2% al partito allora guidato da Walter Veltroni» (I 38 milioni di italiani che non hanno votato PdMalvino, 26.5.2014): continua a sembrarmi indiscutibile. Poi ho scritto che «il 40,8% [ottenuto dal Pd] del 57,2% [che si è recato alle urne il 25 maggio] non supera il 23,3% del totale degli aventi diritto al voto» (Le dimensioni del trionfo di Matteo RenziMalvino, 26.5.2014): anche qui, mi pare sia pacifico. Infine, commentando l’analisi dei flussi elettorali elaborata dall’Istituto Cattaneo («Il successo di Renzi si è costruito sulla tenuta dell’elettorato Pd nei confronti dell’astensione, sulla conquista del bacino di Scelta civica, sul cedimento di elettori M5S e Pdl verso l’astensione. […] È possibile che non pochi elettori ora astensionisti possano rientrare nei ranghi di partenza, sia di Forza Italia che del M5S»), ho scritto che in essa «il risultato conseguito dal Pd di Matteo Renzi alle Europee trova ulteriore ridimensionamento» (La bollaMalvino, 29.5.2014): giudizio che non mi pare affatto scandaloso.
Fatta la tara di insulti e sberleffi, le obiezioni a quanto ho scritto sono le seguenti:
(1) Mi si contesta che il numero dei voti ottenuti dal partito che vinca una competizione elettorale acquistino peso in relazione a quanti ne hanno preso i partiti che l’hanno persa. Non è per fare sfoggio di superbia intellettuale, ma a questo ci arrivavo anche da solo. D’altronde non mi pare di aver scritto che i risultati di queste Europee siano ambigui: il Pd ha vinto, non c’è ombra di dubbio. In verità, direi che la vittoria più significativa sia quella di Matteo Renzi sull’opposizione interna al suo partito. D’altronde non era proprio lui a dire che i risultati di queste Europee non potevano e non dovevano aver conseguenza sulla tenuta del governo? Ora pare che l’abbiamo, e ovviamente in senso positivo, ma in fondo non si trattava di Politiche. Il risultato delle Europee può essere letto come fiducia accordata a questo pagliaccio che, al netto del muoversi tanto da fermo e del promettere il Bengodi con l’anticipo di 80 euro, finora non ha fatto un cazzo? Senza dubbio, ma se mi si viene a dire che in democrazia i numeri sono tutto e Matteo Renzi ne ha presi tanti e tanti in più di Beppe Grillo e di Silvio Berlusconi, rispondo che non si votava per confermargli l’incarico di governo. In quanto al risultato in termini assoluti, mi pare che recuperare buona parte degli elettori persi dal 2008 al 2013 sia un buon risultato, ancor più se enfatizzato dal defluire dell’elettorato grillino e di quello berlusconiano verso l’astensione, ma di fatto, anche stavolta, al Pd non va più del consenso di un italiano su quattro: legittimato alla guida del paese, ma per piacere non parliamo di plebiscito.
(2) Mi si rammenta che gli astenuti non contano. Ringrazio per il ragguaglio all’ovvio, ma non mi pare di aver scritto che contino. Non hanno alcun peso sul risultato elettorale, è naturale, ma esistono. Arrivano al comune convincimento che esprimere una rappresentanza sia inutile, ma con ciò non sono fuori dall’opinione pubblica, tanto meno sono da considerare massa socialmente inerte, e comunque restano potenziali elettori che esprimono con l’astensione un disagio, che talora è da interpretare come un vero e proprio malessere: si tratta di individui che – non ha importanza, qui, stare a discutere quanto a ragione – hanno perso o non hanno mai avuto fiducia nel metodo democratico, non trovano un’opzione convincente nell’offerta dei partiti in lizza o, più banalmente, sono refrattari ad ogni genere di scelta politica. Ci si può consolare col constatare che in ogni regime democratico questo fenomeno è comune, che in Italia non è neanche consistente quanto altrove, che il suo progressivo incremento sia perciò del tutto irrilevante o che comunque non debba essere letto come un sintomo preoccupante: può darsi, resta il fatto che nei paesi in cui l’astensionismo ha percentuali assai più alte che in Italia il dato è stabile da tempo e non trova espressione in quella sfiducia verso le istituzioni che qui da noi va da tempo assumendo i tratti della resistenza passiva che incamera un sordo risentimento. Si può fare a meno di prenderlo in considerazione? Nello scrutinare le schede elettorali e calcolare quanti seggi spettano a questo o quel partito, senza dubbio, sì. Nel discutere su cosa c’è da attendersi sul medio e sul lungo periodo, non mi pare sia superfluo, soprattutto in relazione all’alta fluidità che il corpo elettorale ha mostrato negli ultimi vent’anni. In conclusione: continuare a fissare, come ipnotizzati, quel 40,8% – continuare a ripetersi che è il più rilevante consenso ottenuto da un partito dopo quelli conseguiti dalla Dc a cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta, quando alle urne si recava quasi il 90% degli aventi diritto – ritengo sia da stupidi. Del tutto legittimo, peraltro, che Matteo Renzi e il Pd investano su questa stupidità. C’è da ritenere, infatti, che sul breve periodo porterà frutto: il paese è allo stremo, disposto ad aggrapparsi a tutto, soprattutto se con la promessa che può salvarsi con un po’ di ottimismo, affidandosi all’ennesimo deus ex machina. Non ci fossi abituato, la nausea mi impedirebbe perfino di parlarne. Ma ho passato la cinquantina, e di ciarlatani promossi a salvatori della patria, di avventurieri in grado di imbambolare i gonzi col loro scilinguagnolo, di zoticoni senz’altra grazia di dio che una formidabile ambizione e senz’altra virtù che l’intrallazzo maneggione, ne ho visto, e so come la va: all’inizio, nel trambusto dell’ovazione, al moccioso che urla che «il re è nudo» va un ceffone, poi tutti a dire che in effetti era nudo e ce l’aveva pure piccolo.
(3) Mi si storce il muso perché do affidamento all’indagine dell’Istituto Cattaneo, quando è da anni che i sondaggi pisciano alla grande. Qui temo che il muso si storca a torto, perché una cosa sono le analisi del voto fatte prima che gli elettori entrino nel seggio, un’altra quelle fatte dopo. A maggior ragione, quando un risultato oggettivamente rilevante, e all’apparenza ancor più rilevante di quanto sia in realtà, potrebbe indurre gli intervistati a risposte assai più infedeli per il noto effetto bandwagon, che ai piani alti della politica trova analogo nell’osceno assalto al carro del vincitore cui assistiamo in questi giorni.

[segue]

giovedì 29 maggio 2014

La bolla


Il risultato conseguito dal Pd di Matteo Renzi alle Europee trova ulteriore ridimensionamento nell’analisi dei flussi elettorali elaborata dall’Istituto Cattaneo: «Il primo flusso di voti dominante è quello da Scelta civica al Pd. Assistiamo a uno svuotamento dell’area della coalizione che faceva capo a Mario Monti nel 2013, a quasi totale favore del Pd. […] Il secondo flusso altrettanto chiaro ed evidente è quello che conduce voti dal M5S all’astensione. […] Il terzo flusso è quello che porta voti dal Pdl all’astensione. […] Su due ulteriori punti concentriamo la nostra attenzione. Ci chiediamo cioè se non ci siano stati flussi di voto importanti da Pdl a Pd (s’è parlato a lungo dell’appeal dello stile “berlusconiano” di Renzi verso elettori “forzisti”) e dal M5s verso il Pd (anche in questo caso s’è ipotizzato un “ritorno a casa” di elettori già Pd, incantati un anno fa dalla sirena grillina, oggi da Grillo delusi). Questi flussi nei nostri dati quasi non esistono. […] Da dove ha preso i voti il vincitore di queste elezioni? […] La forza del Pd sta nell’aver saputo mantenere i propri consensi precedenti senza perderli sulla strada dell’astensione. La seconda componente per rilevanza del voto al Pd è quella […] proveniente da Scelta civica. C’è poi una terza componente, che […] si presenta come minoritaria, proveniente dal M5S. Il contributo di elettori provenienti dal Pdl è infine del tutto trascurabile. […] Verso chi hanno perso i voti i due sconfitti, e cioè il Pdl e il M5S? […] Per quel che riguarda il M5S, […] pesanti perdite verso l’astensione. […] Quanto al Pdl, le perdite verso il non voto sono state ancor più pesanti. […] Per concludere. Ancora una volta gli attraversamenti del confine sinistra-destra sono stati modesti. Il successo di Renzi si è costruito sulla tenuta dell’elettorato Pd nei confronti dell’astensione, sulla conquista del bacino di Scelta civica, sul cedimento di elettori M5S e Pdl verso l’astensione. […] In una elezione politica, nella quale l’astensione giocasse un ruolo meno importante rispetto a quello naturalmente avuto in una elezione “di secondo ordine”, è possibile che non pochi elettori ora astensionisti possano rientrare nei ranghi di partenza, sia di Forza Italia che del M5S».
È un ridimensionamento di tipo qualitativo, perché riduce a bolla, molto probabilmente effimera, quello che si sta celebrando come «terremoto politico», «evento» dopo il quale «nulla sarà più come prima». «Evento» che, d’altronde, rivela tutta la sua aleatorietà in quel ridimensionamento di tipo quantitativo che fin da subito era già tutto nei numeri, a volerli leggere: al Pd, infatti, stavolta sono andati 11.172.861 voti, meno dei 12.095.306 del 2008, meno degli 11.930.983 del 2006, e meno pure della somma dei voti andati ai Ds e alla Margherita nel 2001 (6.151.154 + 5.391.827) e di quelli che nel 1994 andarono al Pds e al Pp (7.881.646 + 4.287.172). Fatta eccezione per le Politiche del 2013 (8.646.034) e per le Europee del 2009 (7.999.476), insomma, il Pd non ha mai preso meno voti di quanti ne ha presi il 25 maggio 2014.
Un risultato mediocre che  l’astensionismo ha gonfiato a dismisura e che ora solo la rincorsa al carro del vincitore, l’inguaribile conformismo nostrano, impedisce di considerare nelle reali dimensioni.  




martedì 27 maggio 2014

[…]

Ho scritto che maramaldeggiare è lemma infedele, perché, com’è per tanta antonomastica, tradisce il portato («didascalizza la qualità che intende far viva con l’esemplarità del campione, privando questo di ogni profondità psicologica e morale, e quella delle sfumature che la rendono umana») e, nel caso di Fabrizio Maramaldo, anche il portante («pare che la storiella messa in giro da Paolo Giovio non trovi alcuna conferma sul piano storico»), ma, concedendo che «ciò che dalla storia passa alla lingua prescinde da ciò che è impossibile pesare a distanza», non ne ho suggerito uno alternativo per quell’«infierire vilmente sullo sconfitto» – così per la gran parte dei lemmari – che ci sembra turpe anche quando si scagiona col darsi come giusta «punizione di chi ha commesso una turpitudine» (Malvino, 28.11.2013). Se oggi torno sull’argomento è per cercare di individuare i connotati di ciò che nell’«infierire vilmente sullo sconfitto» cerca di darsi come ius per farcelo sembrare iustum, e per farlo mi servirò dell’editoriale che Giuliano Ferrara ha dedicato al deludente risultato elettorale del M5S (Il Foglio, 26.5.2014).
In via preliminare occorre sottolineare che a «infierire vilmente sullo sconfitto», qui, non è chi possa dirsi propriamente vincitore: parliamo, infatti, del tizio che per vent’anni ha retto lo strascico a chi da questa tornata elettorale esce con le ossa rotte almeno quanto Beppe Grillo, quel Silvio Berlusconi che per Giuliano Ferrara ha incarnato, finché ha potuto, tutte le virtù del potere come esercizio di regalità; parliamo, tuttavia, anche del tizio per il quale questo tipo di potere non si estingue nella carne che di volta in volta veste, ma passa, inalterato per forma e misura, dal potente del momento a quello del momento che segue, secondo una progressione dinastica che a ragione sembrerà atipica per la discontinuità del casato, ma che in realtà trova il suo continuum in una linea sulla quale Togliatti, Craxi, Berlusconi e Ratzinger possono ben essere colti come segmenti articolati.
Ma cosa torna a giusta punizione di un Beppe Grillo? Dove trova fondamento lo ius che fa iustum il maramaldeggiarlo? È presto detto: «Se Dio vuole la politica democratica è un mondo di corruzione, di decadenza, di mitezza sfuggente e di pratica della mediocrità che non prevede pulsioni visionarie di quella fatta. Un’alleanza dei fattori di stabilità e di vita avrà ragione, com’è civilmente naturale, dell’odiosa esibizione, e scaltra, di purezza moralizzatrice e di futuro da acchiappare con gli artigli. Così in poco tempo il passato, l’andazzo, la tradizione, il buonsenso…». Può bastarci, abbiamo inteso, e basterà correlare i termini che Giuliano Ferrara erige a pilastri della vita – almeno della vita com’egli la intende – perché sia chiara la colpa di cui Beppe Grillo s’è macchiato, pagandone il prezzo dovuto: ha osato mettere in discussione un passato di corruzione, il naturale andazzo d’una normale decadenza, quella tradizione di mitezza sfuggente e di pratica della mediocrità che in fondo è solo sano buonsenso, quel regale tollerare «il gioioso legno storto di una comune umanità» che alla bisogna può tornarci comodo come randello sul groppone di chi si azzarda a contestare la legittimità del re. Potrebbe dirsi la carezza del cardinale Ruffo alla sua cagna sanfedista.  

lunedì 26 maggio 2014

Le dimensioni del trionfo di Matteo Renzi (e altro)


Riprendo da dove terminava il post qui sotto con un grafico che dà misura di quanto sia realmente consistente il 40,8% del 57,2%: al netto dell’ubriacatura di chi vi troneggia in cima, non supera il 23,3% del totale degli aventi diritto al voto. Da lassù si ha pieno diritto di guardare in basso con soddisfazione, è ovvio, perché chi diserta le urne rinuncia a darsi rappresentanza, ma con ciò la massa degli astenuti non scompare, né perde rappresentazione, che giocoforza è inintelligibile nei tratti, ragionevolmente da ritenere contraddittori: perde forma, ma non mole. In questo caso, ha toccato il 42,8%, che fanno circa 20 punti percentuale in più di quanto è andato al Pd, con una mole pari a circa 21 milioni di aventi diritto al voto, poco meno della somma degli elettori che hanno votato Pd (11.203.231), M5S (5.807.362) e Fi (4.614.364).
Per chi considera l’astensionismo un segno di malessere sociale, può esserci consolazione nel constatare che l’Italia resta, come è sempre stata, tra i paesi europei che conta una delle più alte affluenze al voto, ma è un confortarsi che deve fare i conti col fatto che nel raffronto con le precedenti Europee del 2009, quando gli aventi diritto al voto erano 49 milioni, come lo erano stavolta, la percentuale di astenuti aumenta di oltre 7 punti (3,5 milioni di votanti in meno). E tuttavia il dato merita l’attenzione anche da parte di chi non voglia considerarlo come indicatore di un disagio, ma come il segno di un progressivo adeguamento dell’elettorato italiano alle consuetudini elettorali di paesi in cui da sempre l’astensionismo è ben oltre il 50%: pur concedendolo, la progressione mostra una flessione mal compatibile con un processo fisiologico bilanciato da altri fattori.
È il non tenere conto di questi elementi che gonfia a dismisura il risultato indubbiamente positivo del Pd, oscurando la solare evidenza che in assoluto e in percentuale l’avanzata più rilevante è quella degli astenuti, che non fanno un partito, com’è nel pigro lessico giornalistico di quando il dato non è oscurato, ma mole sì, e mole di umori, se non di ragioni, che s’aprono a ventaglio dal più strafottente dei qualunquismi alla più argomentata sfiducia nel metodo democratico. 
Se è possibile un minimo di accordo su quanto fin qui detto, non dovrebbe essere difficile trovare insieme la via d’uscita dall’asfittico scenario in cui si muovono le analisi a caldo sui risultati di queste Europee. Analisi che tengono conto solo dei cambiamenti, pur notevoli, che in seguito ai risultati conseguiti dai partiti si vanno già chiaramente profilando per dare nuovo assetto al quadro politico e istituzionale. Anche condivisibili, dunque, ma che sembrano non tenere in alcun conto che nella società nessuna massa è interamente inerte, neppure quando sembra abbia deciso d’esserlo irrevocabilmente: se non prende voce attraverso i rappresentanti che una pur ampia e variegata offerta le mette a disposizione, non per questo tace. Anche quando silenziosamente dispera o silenziosamente cova rabbia, lasciando il campo a chi nella speranza e nella pacatezza cerca, e perfino trova, l’ultima spiaggia del comune naufragio – anche quando le dettagliate indagini sui flussi elettorali ce la ridanno come ciò che è andato perso nell’incrocio di traslochi che spostano consenso da una casa all’altra – una massa di oltre 20 milioni di individui, prima o poi, trova modo di farsi sentire. E più tardi lo trova, meno è bello.
Sullo scena nella quale si muovono gli attori scelti dal 57,2% degli italiani che sono andati a votare grava un fantasma che ancora non ha trovato corpo, faccia e nome. Le millanterie meno colpevoli che hanno cercato di esorcizzarlo nel corso della campagna elettorale sono destinate ad avere ancora corso corrente di là dal valore che hanno acquistato o perso a scrutinio completato: intendo dire che mostreranno forza diversa rispetto a prima, ma non potranno che conservare il segno. Matteo Renzi non potrà far altro che sbattere le alucce sotto il bicchiere, dando a vedere un formidabile attivismo che sarà lo stesso correre da fermo che fin qui l’ha fatto sudare. Non è escluso faccia qualche passetto, il necessario per illudere se stesso e la platea che è ennesima reincarnazione di quel decisionismo che gli italiani implorano e deplorano, nello stesso tempo. Beppe Grillo cercava di farci intendere che raffrenava l’irrefrenabile smania di assalto al Palazzo incanalandola in un progetto di società dai sogni dorati e dalle aspettative sobrie: dinamo e accumulatore, nei proclami, ma il messaggio subliminale lo dipingeva come un parafulmine. Non è stato creduto o forse lo è stato fin troppo, ma o torna a casa, come aveva promesso, o non potrà far altro che cambiare scatola al prodotto, sempre lo stesso. In quanto a Silvio Berlusconi, gli ossimori del moderatismo eversivo e del fancazzismo demiurgico gli si sono rotti in mano, non hanno più nulla della contraddizione che muove le cose dal di dentro e fanno solo diagnosi di stato confusionale. E tuttavia conserva forze da mettere sul tavolo.
Non riuscire a vedere come queste tre vie obbligate non siano altro che i tre lati dell’incavo in cui defluirà la frana, più che stupirci, dovrebbe deprimerci. Metti caso che dall’abbatterci dovesse sortire finalmente la presa d’atto che Renzi, Grillo e Berlusconi altro non sono che tratti della stessa caricatura – e in essa potessimo riconoscere la tanto vantata peculiarità italiana – e finalmente liberarcene – vabbe’, come non detto, ci resta sempre lo stramaledire i tedeschi.  


I 38 milioni di italiani che non hanno votato Pd


Alle Politiche del 2013, gli aventi diritto al voto erano circa 47 milioni. L’affluenza alle urne fu del 75,2% (gli astenuti furono poco più di 11 milioni) e il Pd raccolse 8.646.034 voti (25,4%). Prendo in considerazione i dati relativi alla Camera, che sono quelli più congruamente rapportabili all’elettorato che nel 2014 è stato chiamato alle Europee, dove gli aventi diritto al voto erano poco più di 49 milioni e si è registrata un’astensione intorno al 42%. Superfluo sottolineare che ogni correlazione tra le due competizioni risulti pesantemente inficiata, nelle conclusioni che sembrerebbe offrirci, dalle marcate differenze date dalla diversa posta in gioco (lì i seggi di un parlamento nazionale, qui la quota di rappresentanti italiani in un parlamento sovranazionale), dal modo in cui i partiti si sono presentati all’elettorato (lì erano possibili coalizioni, qui ogni partito era in lizza contro tutti gli altri) e dal sistema elettorale vigente (lì il premio di maggioranza del Porcellum, qui un proporzionale con soglia di sbarramento al 4%), ma a quanto pare è proprio l’aleatorietà dei raffronti in termini percentuali che segnerà la vita politica italiana nei prossimi mesi. Se questo è inevitabile, e per molti versi anche giusto tenuto conto dei pessimi risultati ottenuti dal M5S, da FI e dal NCD, quello che corre il rischio di distorcere la realtà dei fatti, sovradimensionando in modo spropositato il peso del Pd, è il sottacere un dato che le percentuali sembrano fatte apposta per oscurare: nel 2014 il Pd riguadagna solo parte degli oltre 3 milioni di voti persi tra il 2008 e il 2013, senza peraltro riuscire a superare i 12 milioni che diedero il 33,2% al partito allora guidato da Walter Veltroni. Solo un occhio miope può lasciarsi ingannare da quel 40% e più che oggi va al Pd di Matteo Renzi, per definirlo il più ampio consenso mai ottenuto dal partito: nei fatti, lo zoccolo duro dei cattocomunisti si è rifatto la zeppa, ma di cartone, e il prezzo è stato pure alto, perché il doversi affidare a un vero e proprio mutante della sua storia e della sua tradizione culturale, perfino della sua – come si dice – antropologia, nel tentativo di riuscire finalmente a vincere, ne ha già minato irrimediabilmente il corpo. È più che ovvio che tutto questo sia destinato ad essere rimosso nei bagordi del trionfo, e oltre. Ma peserà, e il peso diventerà insostenibile quando i 38 milioni di italiani che non hanno votato il Pd di Matteo Renzi si daranno un riassetto.   

domenica 25 maggio 2014

«Giudaica perfidia»


Non ho ancora letto «Giudaica perfidia» di Daniele Menozzi (Il Mulino 2014), provvederò al più presto, e tuttavia, dando per certo che la recensione di Sergio Luzzatto (La radice dell’antisemitismo Domenica de Il Sole-24 Ore, 25.5.2014) dia fedele esposizione di quanto vi è contenuto, non riesco a trattenermi dal sollevare obiezione a quella che pare essere una delle tesi che il lavoro tenta di accreditare.
Prima di passare a esporla, però, vorrei aprire un inciso sull’espressione che ho usato poc’anzi – «fedele esposizione» – e chiedere al mio lettore di cercare ogni possibile locuzione alternativa ad essa. Fatto? Bene, per «fedele» avete trovato altro che «onesto», «leale», «sincero», ecc.? Sono certo che non siete riusciti ad andare oltre tali sinonimi, e che comunque tutti avete cercato tra quelli relativi a «fedeltà», intesa come «correttezza», «attendibilità», «esattezza», ecc., piuttosto che tra quelli relativi a «fede», nelle accezioni che la connotano come virtù teologale del cristiano. È questo, infatti, uno di quei casi in cui si rende manifesta l’erosione di senso che fin dai primi secoli dell’era volgare il cristianesimo ha prodotto a danno di quei termini, per lo più greci o latini, che gli è tornato utile parassitare: con «fedele» il parassitamento non è riuscito a impossessarsi interamente del termine, ed ecco, allora, che l’aggettivo non smette del tutto di rievocare la dea Fides, che fece la sua comparsa nel Pantheon romano più di trecento anni prima che nascesse Cristo, per andare a personificare la sacralità della parola data come fondamento dell’ordine sociale (cfr. Mario Pani e Elisabetta Todisco, Società e istituzioni di Roma antica, Carocci 2005). Bisogna aspettare il IV secolo dell’era volgare perché «fides» cominci a significare «credo» e perché per «fidelis» si cominci a intendere «credente», ma anche allora «fidus» non smetterà di significare «onesto», «leale», «sincero», ecc., come fin lì d’altronde era sempre stato.
Il perché di questo inciso è presto spiegato: Daniele Minozzi sembra far sue le conclusioni degli studi condotti intorno alla metà degli anni Trenta dello scorso secolo da Erik Peterson, «un oscuro professore di teologia» che «muovendo da un’ampia raccolta di testi antichi e medievali» arrivò a sostenere che «l’aggettivo latino perfidus fosse stato erroneamente interpretato, per secoli e secoli, nell’accezione di perfido, mentre avrebbe dovuto essere tradotto nell’accezione di infedele». Tesi che senza dubbio fu fatta propria da Jacques Maritain, il quale senza dubbio riuscì a convincere Pio XII, prima, e Paolo VI, poi, lungo il faticoso itinere che portò a una traduzione del Messale del Venerdì Santo di Pio V nella quale gli ebrei non fossero più dichiarati «perfidi», ma «increduli» (cfr. Andrea Nicolotti, Erik Peterson, Libreria Editrice Vaticana 2012), e che tuttavia è tesi palesemente infondata, come fu ampiamente argomentato da chi scrisse che di «lodevole» in essa vi fosse «solo la buona intenzione» (cfr. Bernhard Blumenkranz, Perfidia, Archivium Latinitatis Medii Aevi 22/2-1952): com’era possibile dare a «perfidi» un significato diverso da quello che papa Gelasio (cfr. Gelasio, Deprecatio, 10), di poco posteriore alla primigenia tradizione scritta dell’«oremus et pro perfidis judaeis», allegava alla «judaica falsitas» nel solco di una tradizione che risaliva alle Omelie contro i giudei di San Giovanni Crisostomo? La perfidia judaeorum è da subito, e sarà sempre, per oltre quindici secoli, non già l’incredulità riguardo al fatto che Cristo sia il figlio di Dio e il Messia, ma il vizio morale che li condanna ad essere inaffidabili e sleali, dunque socialmente pericolosi. 
Ciò detto, dunque, il libro di Daniele Menozzi trova incidente fin dal sottotitolo, che è Uno stereotipo antisemita tra liturgia e storia, e prim’ancora di leggerlo mi costringe a storcere il muso: non è affatto uno stereotipo che la radice dell’antigiudaismo sia cristiana e, se l’intenzione di Erik Peterson può benevolmente essere considerata benevola, resta di fatto che il suo lavoro sia un falso storiografico. Accreditarlo come attendibile è un ulteriore oltraggio alla dea Fides, in favore della «fede» che piega l’evidenza a un interesse di parte. 

It’s itchy