Tra
due mesi ricorre il 50° della morte di Palmiro Togliatti e già si riapre la
discussione sulle miserie e gli splendori
della sua figura, secondo i punti di vista. Fin troppo ovvio che il
passato si offra come pretesto per parlare del presente, tanto più adesso che la
cosiddetta morte delle ideologie spinge i suoi orfani – orfini e affini – a
cercare antecedenti nobili al cinismo e all’opportunismo, alla doppiezza e alla
spregiudicatezza, del Migliore che gli tocca avere a leader. Operazione
complicata, per certi versi dolorosa, e soprattutto a rischio di infortunio.
Così per un articolo di Francesco Cundari sull’ultimo numero di Leftwing. Mi ero posto in mente di commentarlo su queste pagine, poi ha vinto la sintesi.
lunedì 16 giugno 2014
domenica 15 giugno 2014
sabato 14 giugno 2014
Se dico
Se
dico che i tuoi argomenti sono zoppicanti, che la tua passione è febbricitante,
che il tuo fare è convulso, oltre ad offendere te, offendo anche chi è
portatore di patologie che sul piano sintomatologico si manifestano con zoppia,
febbre e convulsioni? Se sottovaluto il tuo fiuto e dico che i tuoi guadagni in
Borsa sono dovuti solo ad una fortunata serie di colpi gobbi, oltre a
deprezzare i tuoi meriti, faccio offesa anche a chi soffre di cifoscoliosi
severa? Se per accusarti di essere ostinatamente insensibile a una questione,
dico che da quell’orecchio non ci senti, mostro a mia volta insensibilità verso
i soggetti affetti da ipoacusia? È moralmente inaccettabile, insomma, l’uso della
figura retorica che mutui significato dalla valenza analogica, metaforica o
allegorica offerta da una condizione clinica? Parrebbe lo sia, ma solo per
alcune condizioni cliniche. Nei casi sopra esposti, per esempio, sarà difficile
che insorgano le associazioni che tutelano i diritti degli epilettici, dei
rachitici e degli ipoudenti, e se dico che quel progetto è folle o che quel
ragazzino è pestifero, sarà difficile che qualcuno mi rimproveri di aver mancato
di rispetto a chi soffre di disturbi psichiatrici o a chi lotta la sua
battaglia per la vita contro quel tal ceppo di Pasteurella o di Yersinia. Così,
di un tizio potrò dire che ha reazioni isteriche o che la sua sospettosità è paranoica
senza dovermi aspettare lamentele se non da lui, ma guai a dargli dell’autistico
per significare la sua chiusura alle ragioni altrui. Trovare una risposta a
questa incomprensibile disparità di atteggiamento è arduo, e a cercarla si arrischia.
[...]
La
cosiddetta personalizzazione della politica è vecchia quanto la politica, la
cosiddetta morte delle ideologie non ha fatto altro che metterne in evidenza
alcuni aspetti che fino ad alcuni decenni fa erano in larga misura mascherati
dall’assumere la figura del leader politico come migliore interprete di questa
o quella ideologia. Venuta meno l’automatica identificazione di un partito in
una posizione ideologica, al leader non è rimasto che interpretare un narrato
personale che includesse al meglio le evocazioni dei fattori in grado di
surrogare un’appartenenza su altre basi. Diremmo che il simpatetico che
fidelizzava i militanti di un partito e gli individui di un corpo elettorale sia
stato degradato dal piano etico che l’ideologia aveva la pretesa di rappresentare
a quello estetico sul quale la persona del leader oggi pretende di ritagliare l’hortus
conclusus di una storia – la sua – come rappresentazione di un’unità di intenti.
In altri termini, diremmo che l’appiattimento di un partito sulla persona del proprio leader è la continuazione del culto della personalità con altri mezzi:
dalla figura di Augusto, che esprime una visione dell’impero come progetto, si
arriva a quella di Eliogabalo, che la immiserisce a performance.
A Eliogabalo,
tuttavia, occorre rammentare che sarà trucidato, trascinato per strade
ribollenti di rabbia, fatto a pezzi e buttato nella Cloaca Maxima. Facesse meno
lo stronzetto, anzi, esagerasse, esagerasse pure: se non si è Augusto, non resta altro.
giovedì 12 giugno 2014
Pastorale per l’infanzia
«Collaboratori
di Dio, voi avete sui figli un’autorità che non viene dalla legge, né dallo stato,
né dalla tradizione, ma da Dio stesso. Questa autorità assumerà una espressione
differente, man mano che il bambino cresce; potrete anche delegarla, ma non
potrete mai abbandonarla completamente finché il fanciullo non sia diventato
adulto. Bisogna sostenere arditamente che per educare un bambino è necessario
esercitare su di lui un’autorità ed esigere da lui ubbidienza. Il fanciullo al
quale “si lascia fare”, sotto pretesto di rispettare la sua libertà,
rischierebbe fortemente di diventare un essere malvagio, contro il quale in
seguito si dovrebbe impiegare, per difendersi, la forza bruta. […] Volete che i
figlioli vi ubbidiscano? Convinceteli fin da piccoli che un ordine e un
desiderio di papà o di mamma non debbono soffrire ritardo alcuno
nell’esecuzione. Quando un piccolo non ubbidisce, pensate che ciò non è colpa
sua, ma dei genitori. Un bambino, che avrà acquistato l’abitudine a ubbidire al
primo comando, non avrà neppure l’idea che si possa disubbidire ai genitori.
Ripetere due volte lo stesso ordine è prova di debolezza e inizio di perdita
d’autorità. […] Se la cosa è grave e importante, state attenti affinché il
bambino ubbidisca subito senza mormorare, senza smorfie e senza quelle lentezze
e quei sotterfugi a cui molti genitori lasciano che si abituino a poco a poco i
loro bimbi e che diventano così difficili da correggere verso l’età di
quattordici o quindici anni. […] Prendete i mezzi che crederete più opportuni
per influire sullo spirito del bambino, ma ad ogni costo fatevi ubbidire. […] Fino
ai due anni l’ubbidienza del piccolo non può essere che passiva. La madre deve
sforzarsi a preparare il suo figliolo e formare in lui dei buoni automatismi e
felici associazioni, che genereranno buoni comportamenti. Dai tre anni e anche
prima, seguendo lo sviluppo intellettuale, l’ubbidienza deve incominciare a
essere attiva; ma una cosa è certa ed è che da uno ai sette anni il fanciullo passa
per tre tappe di ubbidienza: ubbidire perché lo vogliono, sapere ubbidire
perché bisogna, voler ubbidire per necessità ed interesse. A sette anni il
subconscio del fanciullo deve essere mobilitato in tutta la sua ricchezza con
tutti gli automatismi, fisici, intellettuali e morali; in altre parole: i
giochi devono essere fatti e ben fatti. […] Quando si comanda qualcosa al bimbo
bisogna sapere con chiarezza ciò che si vuole e volerlo fermissimamente. Il
fanciullo capisce istintivamente e subito, dal tono della voce, l’importanza
reale che si da a ciò che gli si comanda…»
Chiudi il volume di pastorale per l’infanzia, apri Avvenire e leggi:
Sei
personcina troppo educata per mandare a fare in culo l’autorevole prelato che l’ha
detto, ma fai un’eccezione, e ce lo mandi.
«Vedendo come vanno le cose»
Riparato
a Lugano, in precipitosa fuga dal ducato estense, Antonio Panizzi scriveva: «Vado
in Francia o Spagna e vivrò povero, onesto e liberale. Me ne rido, io, della
porca Fortuna: io farò disperar Lei, non Lei me». Lo scriveva sul finire del 1822
e di lì a qualche mese avrebbe scelto l’Inghilterra, per Liverpool e poi
Londra, dove in breve sarebbe diventato il ricercatissimo conferenziere che sul
Rinascimento italiano incantava sale stracolme, finendo per assumere la
direzione del British Museum. Finirà i suoi giorni nel 1879, a 84 anni,
appagato e sereno tranne che nell’inestinguibile odio per «quel frate porco di
Pietro Giordani» che lo aveva segnalato come carbonaro costringendolo all’esilio.
Sull’Italia, che intanto conquistava l’unità, non si faceva troppe illusioni, e
anzi disperava. Lo fecero senatore nel 1868, e tornò, guardò, e scrisse: «Mi
vergogno d’essere italiano vedendo come vanno le cose… Vanitas vanitatum et
omnia vanitas». Un caratteraccio, il Panizzi: collerico, sboccato, un fondo
umbratile, un’insaziabile sete di giustizia, del tutto incapace di chiudere un
occhio e con l’altro vedere il buono che c’è anche nel peggio del peggio,
volendolo trovare. Ecco, potremmo dire che era uno di quelli che non vogliono
trovarlo a tutti i costi, il buono che c’è anche nel peggio del peggio.
Non
ho perfetta comprensione del come mi sia saltato in mente di parlare del Panizzi.
Ero dinanzi alla pagina bianca e l’intenzione era di commentare la cronaca
politica di queste ultime settimane. Da qualsiasi bandolo tentassi di sbrogliare il gomitolo, la voglia era di tirare, strappare o lasciar perdere. Allora ho pensato a quel tale che con proficua saggezza rampognava gli intransigenti che «non si può mettere il broncio ai propri tempi senza riportarne danno». Chi sono io - mi son detto - per mandarlo a cagare? E allora mi è venuto in soccorso il Panizzi.
mercoledì 11 giugno 2014
Conviene ripeterci
A
negare che esista un diritto di far figli, e dunque a storcere il muso per la
sentenza della Corte Costituzionale che lo afferma e lo dichiara incoercibile, è
chi sostiene che sia un dovere. Il paradosso segnala un’incongruenza logica che
è a fondamento della morale cattolica: se infatti il far figli è un dovere imposto
da un Dio che è provvidenza, farli aggirando le regole prefissate nell’ordine
creaturale è altrettanto colpevole che evitare di farne contravvenendo ad esse.
D’altronde, il diritto di far figli è sentito tale da chi ritiene che sia
lecito decidere di farne o no, aggirando le eventuali difficoltà che si
frappongono all’averne, se aggirabili. Non così per chi ritiene che farne sia
un dovere dal quale ci si può sentire sollevati solo nell’impossibilità di
averne secondo la regola che vuole inscindibili il momento unitivo e quello
procreativo oppure per onorare la scelta della castità.
Ecco, dunque, che il
paradosso si scioglie: devi far figli, e devi volerli fare, perché così Dio
vuole, ma se non puoi averne nell’unico modo che ti concede per averne, pur
potendo averne in altro modo, devi rinunciarci, perché così Dio vuole nel tuo
caso, e non ti è dato chiederti il perché. Si adattasse tale logica a qualsiasi
altro apparato umano come si pretende sia cogente per quello riproduttivo,
sarebbe immorale l’uso degli occhiali da vista, qualsiasi terapia endocrina, l’impianto
di protesi cardiache, ortopediche e dentarie, ecc. È evidente che il divieto di
ricorrere a tecniche di fecondazione assistita per superare gli ostacoli che si
frappongono alla possibilità di avere figli debba rispondere a un’altra
esigenza e che il dettato morale sia solo strumento per darle una risposta.
Così, d’altronde, è per gran parte degli imperativi etici che i cattolici non
si accontentano di contemplare, peraltro riuscendoci in modo assai imperfetto,
ma cercano di tradurre in leggi che debbano valere per tutti. L’esigenza di
fondo è il tentativo di perpetuare un ordine sociale nel quale Dio sia
necessario, tanto più necessario in un ambito strategico come quello riproduttivo:
se far figli è un dovere, Dio diventa il motore demografico di una società. In
modo opposto, ma con la stessa placida risolutezza, contraccezione e fecondazione
assistita spodestano Dio.
Il diritto di far figli o di non farne ha questo di
terribile ora che nell’aldilà neppure più cattolici credono più tanto: sovverte
il fondamento che dichiara insovvertibile l’ordine creaturale, quello per il
quale poter far figli è un dono di Dio che non si può rifiutare, e il non
poterne fare è un suo veto che non è tollerabile sia messo in discussione.
martedì 10 giugno 2014
Fiumi di parole
Dopodomani
fanno tre mesi esatti dalla conferenza stampa nella quale Matteo Renzi annunciò
cosa avrebbe fatto il suo governo nei primi tre mesi e poi entro la fine di
giugno e quella di luglio. Presto ancora, per chi gli ha creduto, cagarsi in
mano e prendersi a schiaffi, però io comincerei a prepararmi: mancano ancora due giorni,
infatti, perché il Parlamento vari la nuova legge elettorale, due giorni perché
passi la riforma del Senato e del Titolo V della Costituzione, una ventina di
giorni per avere un altro fisco, un’altra giustizia e un’altra pubblica
amministrazione, sei o sette settimane ancora perché lo Stato paghi i 68
miliardi di euro che deve ai suoi creditori, perché altri 10 vengano messi a
disposizione per l’accesso al credito delle aziende in difficoltà e altri 3,5 stanziati
per il piano di edilizia scolastica. Il già fatto? L’abolizione del Cnel, le 100
auto blu messe all’asta, gli 80 euro che gli sono valsi il 40,8% alle Europee. L’annunciato
taglio dell’Irap? Doveva essere del 10%, è stato rimodulato al 5%. Cos’altro?
lunedì 9 giugno 2014
Non ci resta che attendere
Sarà
davvero interessante sentire dal professor Giovanni Agosti e dalla neodottoressa Cristina Moro,
venerdì 13 giugno, all’Istituto Italiano di Cultura di Londra, quali siano le
prove che consentirebbero per le due tele conservate nella Villa San
Remigio, a Verbania, la certa l’attribuzione alla mano del Veronese. Si tratta
di due figure allegoriche raffiguranti la Scultura e la Geografia, finora
attribuite alla scuola del grande pittore del Cinquecento, che era solito
firmare le sue opere: queste due non lo sono e, almeno dalle indiscrezioni che
trapelano, parrebbe che la nuova attribuzione trarrebbe forza dalle concordanze
che esse mostrerebbero con altre due tele, in questo caso sicuramente dipinte
dal Veronese, conservate al Los Angeles County Museum of Art, però raffiguranti
Averroè e Tolomeo.
Concordanze, dunque, che non sarebbero strettamente relative
al tema, ma naturalmente questo è irrilevante. Rilevante, invece, è il fatto
che queste concordanze siano inafferrabili al raffronto degli elementi formali. Anzi, è proprio dall’accostamento dei pochi analoghi che nelle tele di Verbania si evidenziano numerosi momenti di impaccio nello sviluppo dei panneggi e nella resa degli incarnati, del tutto assenti in quelle di Los Angeles. Più ancora del tratto, poi, risulta evidente un notevole scarto di qualità, tra le une e le altre, nell’uso del pigmento per dare profondità e rilievo alle masse, sicché parrebbe essere stata del tutto trascurata la lezione di Marco Boschini (1613-1704), che del Veronese ci dice:
A fronte di tali perplessità rimane la curiosità, dunque converrà aspettare l’appuntamento di venerdì. D’intanto, non ci resta che prendere per buone le dichiarazioni dell’Agosti: «In
questa storia non c’è alcun gusto dello scoop per lo scoop, non c’è voglia di
sensazionalismo. C’è il frutto di un gran lavoro, di ricerche condotte seriamente
da una studentessa attenta alla storia della cultura» (Corriere della Sera, 8.6.2014). Sì, perché il «gran lavoro» della Moro è una tesi di laurea e le «ricerche condotte seriamente» prendono le mosse, come si è detto, dalle analogie colte tra le tele di Los Angeles e quelle di Verbania. Ma non è tutto, perché «poi – aggiunge Agosti – c’è una convergenza di istituzioni pubbliche che hanno
concorso per ottenere un unico scopo: accertare la verità intorno a quelle due
opere». Qui, sul fatto che la «verità» possa chiamare a garanti le «istituzioni pubbliche», le perplessità aumentano, perché non è la prima volta che l’attribuzione di una crosta a un grande nome viene avallata per ragioni che oltrepassano la ricerca del vero.
Poi, passa il tempo, e del Veronese non sembrano più essere né Il ragazzo con levriere, né la Deposizione. Considerazioni oziose, probabilmente, ma rammentiamo che Villa San Remigio era fino a poco fa nella lista dei beni pubblici alienabili e sul Corriere di Novara dello scorso 10 marzo il
presidente del Consiglio Regionale, Valerio Cattaneo, commentava: «Questa
scoperta rilancia Villa San Remigio, che, in modi e tempi da definire una
volta individuate le fonti di finanziamento, potrebbe diventare meta
privilegiata di turismo culturale e d’arte».
Non ci resta che attendere.
domenica 8 giugno 2014
sabato 7 giugno 2014
L’irresistibile gorgo
«Il noto effetto
bandwagon, che ai piani alti della politica trova analogo nell’osceno assalto
al carro del vincitore cui assistiamo in questi giorni» (Replica – Malvino,
31.5.2014), ai suoi piani bassi, quelli dell’agorà televisiva, dà segno negli
ammicchi a un renzismo che giocoforza è parodia di se stesso. Giocoforza,
perché un renzismo come dottrina ancora non esiste, e chissà se mai esisterà: in Matteo Renzi e nei renziani (parlo del staff, non degli avventizi e degli stagionali) la vacuità di contenuti culturali (cultura politica e cultura in generale) è stipata dai suoi surrogati (la lingua si dà in gergo, l’argomento cerca persuasione nella fallacia, il significato resta opaco nel significante), sicché il renzismo è al più uno stile, ma forse pure stile è parola grossa, direi sia un format, e la tv comincia ad adottarlo. Il passaggio da Anno Zero ad Anno Uno credo sia un indicatore: il ventaglio delle posizioni su un tema trovano soluzione in «ragazzi» che «ci mettono la faccia» e «rottamano» il vecchio talk show per sostituirlo col chiacchiericcio degli Amici di Maria De Filippi, in cui anche i più sgangherati luoghi comuni cercano dignità di opinione. Basti l’esempio di quanto il cosiddetto garantismo trovi degrado nelle frasi fatte sparate a sproposito da una delle maschere:
C’è una compiaciuta pretesa di liquidare le ragioni del cosiddetto forcaiolo a un fastidioso moralismo, a un problema psicologico o addirittura a una rendita di comodo. Tanto più disgraziato è l’esito, e perciò a suo modo efficace, quanto più sbilanciato è il confronto: il cosiddetto forcaiolo è lì in antonomasia e il cosiddetto garantista ha tutto l’agio di polemizzare ad hominem, trovando il più pesante capo di imputazione a suo carico nel «disfattismo». Si riesce perfino a chiudere un occhio sul fatto che la «presunzione di non colpevolezza» sia promossa a «presunzione di innocenza».
Siamo davvero nell’irresistibile gorgo dello scarico del cesso. Masse ignoranti fin qui coccolate da spregiudicati demagoghi si scontrano e generano violente trombe d’aria che radono al suolo ogni possibilità di logica. Tra poco converrà sottrarsi ad ogni occasione di confronto pubblico, da attore e da astante.
giovedì 5 giugno 2014
[...]
Vittorio
Sgarbi inveisce contro gli stupri architettonici ed urbanistici delle
amministrazioni locali, «ignoranti e criminali come Calogero Sedara». Per
fortuna chiarisce subito che si tratta del «personaggio del Gattopardo», giusto
in tempo per risparmiare a Giulia Innocenzi il doversi dissociare da
affermazioni così pesanti ai danni di chi è assente e non può difendersi. Metti caso ’sto Sedara querelasse Anno Uno.
Corrispondenze
Bella
domanda, caro ***. Sono stato a pensarci sopra un buon quarto d’ora e penso di
poterti dare una risposta: il tratto che sembra voler essere la massima
peculiarità del terzo millennio non è quella cui anche tu dai il brutto nome di
«morte delle ideologie» (sono morte alcune ideologie – anzi, per meglio dire,
riposano in attesa che qualcuno sappia dare loro il fascino del vintage – ma il
più abborracciato metodo di analisi del reale rimane pur sempre una Weltanschauung),
piuttosto è la trasformazione dell’antitesi tra aristocrazia e democrazia nella
complementarietà tra elitismo e populismo. Come il principio di diritto reggeva
quell’antitesi, lo stato di fatto regge questa complementarietà. Ma non vorrei
essere frainteso: per diritto, qui, intendo la radice di legittimità che l’aristocratico
trovava nell’ideale dell’eccellenza e il democratico nell’ideale del razionale.
Bene, direi che la radice ora è vizza: aristocratico e democratico, così, hanno
perso stabilità, e per entrambi il fondamento si è ridotto allo stato di fatto,
mobile e contraddittorio. Dalla radice bicefala al fittone embricato, perché
per stato di fatto – anche qui chiarire non mi pare superfluo – intendo un
reale che impone una continua rettifica del metodo. Direi sia egemone una sola
ideologia, irriconoscibile come tale, che si limita a rappresentare l’instabilità
del sensibile. Viviamo il totalitarismo del labile. Ti prometto che ci tornerò
sopra, cercando di mettere un po’ di ordine, dando argomentazione ai passaggi.
Ciao.
mercoledì 4 giugno 2014
Oh, cara!
Non riuscendo in alcun modo ad astenermi dal voto per quella sorta di coazione a ripetere che con qualche eccesso di benevolenza si potrebbe definire disperante responsabilità, non riuscendo in alcun modo tuttavia a trovare sulla scheda un simbolo che mi ispirasse un seppur labile movente di adesione se non di aderenza, mi sono deciso per la prima volta in vita mia a dare un voto unicamente alla persona, e visto che nella mia circoscrizione era candidata Barbara Spinelli, la cui scrittura mi ha sempre deliziato cinque volte su sette, ho chiuso un occhio sul fatto che stesse in una lista di tipacci, e ho votato lei. Voglio dire: avessi visto il nome di Canfora o quello di Cordero in una delle altre liste, probabilmente avrei votato loro, e questo, più che di morte delle ideologie, mi sa di superfetazione dei personalismi, ma i tempi sono bui, e ahinoi. Per giunta, a rimarcare i tratti del preistorico paesaggio in cui si è mossa la mia decisione, ho da confessare con un certo imbarazzo che non ero affatto a conoscenza di ciò che Barbara Spinelli aveva lasciato intendere o addirittura, se ho capito bene, detto esplicitamente, cioè che avrebbe rinunciato al seggio, se eletta: lo apprendo solo adesso che la decisione sembra essere mutata. E mi piace illudermi che sia accaduto perché ha saputo, e non voleva darmi un dispiacere.
Aggiornamento (7.6.2014)
Aggiornamento (7.6.2014)
martedì 3 giugno 2014
Il culo del re
La
delicatezza con la quale Ernesto Galli della Loggia affronta la questione di
quale cattolicesimo sia cattolico Matteo Renzi è pari a quella che immaginiamo
abbia usato Charles-François Felix De Tassy nell’accingersi ad operare Luigi
XIV di fistola perianale, d’altronde pure in questo caso si doveva metter mano a
un recesso intimo, assai sensibile, e il soggetto non era uno qualsiasi. Non è
tutto, perché in entrambi i casi il lavoretto, all’apparenza semplice, è quasi
sempre reso disagevole da immancabili sorprese che emergono solo in corso d’opera,
e guai a non metterle in conto: com’è assai raro, infatti, trovare la stessa fistola
in due culi diversi, non c’è cattolico che non lo sia a modo suo.
Più pulito il
De Tassy, un po’ meno il Galli della Loggia, ma direi che il problemino abbia
trovato soluzione in entrambi i casi, perché lì il Re Sole fu ben presto in
grado di tornare a montare a cavallo, e qui a Matteo Renzi si è sellato un cattolicesimo
buono al passo, al trotto e al galoppo.
Non avendo nulla del democristiano
della Prima Repubblica, va da sé che il suo cattolicesimo «non [è] quello che
improntava di sé tanta parte della vecchia Dc con le sue radici nel primo
Novecento». È un affondare il bisturi nel becerume di chi neanche avrà letto
una pagina di don Sturzo o di De Gasperi, ma con leggerezza, perfino con una
certa grazia.
No, il cattolicesimo di Matteo Renzi è quello «di quell’Italia
media che dal Po arriva agli Appennini, che dalle aule dell’Università
Cattolica giunge, passando per i portici di
Bologna, fino alla pieve di Barbiana. [Qui la pagina del Corriere della Sera
mostra il suo limite, perché di sottofondo andava bene un motivetto folk
suonato all’organino.] È il cattolicesimo dei Dossetti, dei La Pira, dei don
Milani. Intriso d’inquietudini riformatrici, sospeso tra un ribellismo austero
e spregiudicato che ricorda Savonarola [sic!] e la consapevolezza tormentata
della sfida portata alla fede dai tempi nuovi. Percorso da una moderna vena
intellettualistica e insieme da una devozione antica…».
È più che naturale che
all’incisione di una fistola perianale, alla vista di quel che ne esce, il
profano dell’arte chirurgica sia preso da disgusto, perdendosi così la bellezza
del gesto, che è nell’affondo del taglio, nel cogliere la relazione tra interfaccia
e clivaggio, nella calibratura del tessuto da cruentare… Così sarà con chi è a
digiuno con le virtù d’un editorialista del Corriere della Sera cui viene affidato il compito di deliziare il culo al premier in carica.
Dossetti? E che
c’entra con Matteo Renzi? E don Milani? La Pira? Qualcos’altro in comune oltre
al fatto di essere stati entrambi sindaci di Firenze? Ecco, più o meno questo
si sarà chiesto chi oggi leggeva Ernesto Galli della Loggia un poco disturbato, perdendosi così l’incanto della tecnica.
«È
questo, nel fondo, io credo, il cattolicesimo di Renzi e dei suoi amici, quello
che essi hanno respirato. Ma che oggi essi stessi declinano in una versione
particolare, la quale ne addolcisce i tratti e ne stempera assai le ambizioni e
l’asprezza originaria dei contenuti. […] È
[…] una versione che più che ad una qualche teologia radicale sembra rimandare
all’immediatezza di un sentimento: quello che molto semplicemente vede il mondo
diviso tra il bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto, tra deboli e forti,
tra ricchi e poveri. E che di fronte a ciò non sa che farsene di qualunque
intellettualismo più o meno palingenetico, di qualunque sogno di “società cristiana”,
per prendere piuttosto la strada della concretezza, del cambiare ciò che è possibile
ma provandoci davvero. Una versione dominata dalla dimensione del giovanilismo,
abituata più che al partito al piccolo gruppo, mossa da un agonismo irrequieto mirato
alla vittoria, fiducioso nelle proprie forze e pronto a misurarsi con l’azione;
pienamente a suo agio con gli strumenti e i ritmi della modernità».
Neanche sembra più un culo, via.
lunedì 2 giugno 2014
Mannaggia
Quando
le corporazioni si mobilitano in difesa dei propri privilegi, d’istinto mi
schiero in favore di chi li ha messi in discussione, chiunque sia, senza star
troppo a sceverare sulla ratio che lo anima, anzi, talvolta mi sorprendo
addirittura ad incitarlo come se lui stesse sul ring e io di sotto: «Daje! –
urlo in cuor mio – Faje usci’ er sangue dalle orecchie!». L’istinto, tuttavia,
non mi fa perdere del tutto il comprendonio, sicché, dinanzi alla notizia che
la Rai scende in sciopero per gli annunciati tagli che il Governo pare
intenzionato a infliggerle, mi chiedo innanzitutto: è una corporazione, la Rai?
Direi che non lo sia. Corporazione sarà quella dei tassisti, dinanzi alla quale
questo Governo si
è calato le braghe, come d’altronde in altre occasioni hanno fatto anche quelli
precedenti. In quanto ai privilegi che andrebbero tagliati, in questo caso
parrebbe assommino a 150 milioni di euro: una bazzecola se comparata a tutto
quello che ci costano i privilegi accordati alla corporazione dei preti, che
forse non sarà corporazione in senso stretto, ma in senso lato pure troppo.
Ma la Rai? Non direi. Corporazione sarà quella degli operatori nel campo dell’informazione e dell’intrattenimento televisivi, mentre la Rai ne incardina solo una fetta. E ancora: nel toglierle quei 150 milioni di euro le si toglie un privilegio? Si tratta di un’azienda pubblica, dunque direi che quanto le si è dato finora fosse quello che serviva per mandare avanti il carrozzone, troppo o poco che fosse. Direi, quindi, che i tagli annunciati dal Governo, più un «basta con la Rai corporazione», come titolava giorni fa Il Foglio, siano poco più d’una mezza scorreggina di spending review. Senza dubbio necessaria, visti gli sperperi che praticamente tutti imputano alla tv pubblica, tanto più se a fare sacrifici sono già in tanti.
Ma la Rai? Non direi. Corporazione sarà quella degli operatori nel campo dell’informazione e dell’intrattenimento televisivi, mentre la Rai ne incardina solo una fetta. E ancora: nel toglierle quei 150 milioni di euro le si toglie un privilegio? Si tratta di un’azienda pubblica, dunque direi che quanto le si è dato finora fosse quello che serviva per mandare avanti il carrozzone, troppo o poco che fosse. Direi, quindi, che i tagli annunciati dal Governo, più un «basta con la Rai corporazione», come titolava giorni fa Il Foglio, siano poco più d’una mezza scorreggina di spending review. Senza dubbio necessaria, visti gli sperperi che praticamente tutti imputano alla tv pubblica, tanto più se a fare sacrifici sono già in tanti.
Tanti ma non tutti, a dire il vero, perché i partiti, per esempio, continuano a ricevere rimborsi elettorali, e i giornali continuano a intascare finanziamenti dallo Stato, e le sagre del caciocavallo continuano ad essere possibili
all’ombra di questo o quel campanile
solo grazie a una generosa pioggerellina di denaro pubblico. Insomma, sarà un pensiero malizioso, e speriamo che Dio ci chiuda un occhio sopra, ma che alla Rai si voglia far pagare qualche sgarro, che si intenda fare un favore alla concorrenza, il sospetto viene. Non si ha neanche il tempo di scacciarlo perché sconveniente, tuttavia, che
l’ineffabile Presidente del Consiglio dice: «Se
avessero indetto lo sciopero prima del voto, invece del 40,8 per cento avrei
preso il 42,8».
Mica è per fare un piacere a Mediaset, come insinuano a Viale Mazzini. Mica è per togliersi qualche sassolino dalla scarpa, come pensa qualche coda di paglia. No, si tratta dell’ennesima furbata promozionale: mettere all’asta due auto blu per far credere di aver lasciato a piedi la casta, dare una mancia da 80 euro a qualche milione di statali per poter dire che le tasse scendono, sparare le solite palle da ghepensimì ma con supporto di slides perché gli annunci sembrino anticipi. Se avessero indetto lo sciopero prima del voto,
l’ennesima trovata per atteggiarsi a inesorabile nemico delle corporazioni avrebbe fatto tutt’altro effetto, mannaggia.
Perché, diciamocela tutta, la Rai, così com’è, è un insulto alla povera gente che annaspa nei gorghi della crisi economica. Quei fatui varietà mangiasoldi, quello sconcio del gioco dei pacchi che dà via milioni di euro a dei perfetti coglioni sorteggiati tra gli abbonati al canone... Mica la serietà di programmi come Amici della De Filippi, mica i soldi sudati a La Ruota della Fortuna...
domenica 1 giugno 2014
[...]
Pare
che spesso alle domande poste in corso di sondaggio si tenda a dare risposte
che si ritiene facciano fare bella figura, o almeno ne evitino di brutte, il
che porta a darne di veritiere quando si abbia la convinzione che esse
incontrino un giudizio favorevole o almeno neutro, sennò a darne di false, per
evitare riprovazione, biasimo o perfino disprezzo. Giacché questo accade anche
quando l’intervistato risponde in forma anonima, è evidente che la censura alla
risposta veritiera insorga quando questa venga ritenuta sconveniente da un foro
interno che faccia proprio il metro di giudizio che, a torto o a ragione, si
sente esternamente prevalente. In sostanza, dunque, direi che chi mente alle
domande poste in corso di sondaggio non sia semplicemente uno cui manchi il
coraggio di esprimere le proprie idee o i propri gusti perché teme incorrano nella
più o meno severa disapprovazione di quella che, a torto o a ragione, individua
come prevalente opinione corrente: mentendo, egli non pone in atto solo una
difesa alla propria reputazione, ma anche un vero e proprio attacco alla
solidità del metro di giudizio ritenuto sovrano. Attacco che assume i connotati del
sabotaggio, perché è evidente che un sondaggio miri a dare indiretta rappresentazione
di quel metro, e la risposta non veritiera lo mina dall’interno, col chiaro
intento di renderlo inaffidabile o comunque di erodere sovranità alla logica che lo rende vigente. In tal senso, è chiaramente riconoscibile la natura nevrotica del processo
che porta a mentire in corso di sondaggio, e tuttavia potremmo riconoscergli una sottospecie della nobiltà che concediamo al
partigiano che di giorno sia impeccabile conformista e di notte vada a minare
ponti.
Ciò
detto, occorre chiarire due punti, fin qui lasciati intenzionalmente vaghi. In
primo luogo, occorre chiederci quali caratteri assuma la «prevalente opinione
corrente» in chi menta in tali occasioni. Direi non sia necessariamente l’opinione
quantitativamente maggioritaria, ma quella che chi mente sente
qualitativamente, ancorché ingiustamente, più accreditata sul piano di quel
realismo che presume a fondamento del vigente metro etico-estetico. In secondo
luogo, torna necessario chiederci in quale misura – quanto «a torto o a ragione»
– questo sentire trovi rispondenza nel «clima» che caratterizza il momento e il
contesto in cui è posta la domanda del sondaggista. Mi pare che entrambe le
questioni si risolvano assumendo che la persona che pone la domanda sia avvertita
da chi le dà una risposta menzognera come rappresentante o addirittura, in qualche modo, artefice della «prevalente
opinione corrente». Chi procede al censimento non è sempre delegato
dal re? E non è in funzione ai risultati del censimento che il re prende le sue decisioni riguardo al regno?
Ad
una delle obiezioni che mi sono state sollevate per l’aver dato
fede all’analisi dei
flussi elettorali condotta dall’Istituto Cattaneo ho risposto che «una cosa
sono le analisi del voto fatte prima che gli elettori entrino nel seggio,
un’altra quelle fatte dopo»: mi pare che quanto ho fin qui detto ne dia un’adeguata
spiegazione, e, riprendendo la metafora usata qui sopra, direi che ad attentato riuscito sia del tutto naturale segua una fiera rivendicazione. Direi che dire
il vero, dopo, sia il miglior modo di dare una valenza propriamente politica all’aver
detto il falso, prima.
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