Nei
mesi in cui Michael Schumacher è stato in coma, c’è stato chi ha parlato dell’eventualità
di sospendere i trattamento terapeutici che lo tenevano in vita o prospettato,
anche solo in ipotesi, l’opportunità di un intervento eutanasico attivo?
Familiari? Amici? Colleghi? Conoscenti? Fan? Non mi risulta, né mi risulta che
in tal senso si siano espressi i medici che lo hanno tenuto in cura, né quelli
a vario titolo chiamati a esprimersi sul caso. Sarà che solo oggi recupero la
gran parte di ciò che è stato scritto sulla vicenda, dunque può darsi che
qualcosa mi sia sfuggito, ma neppure mi risulta che una sola voce nell’opinione
pubblica nazionale e internazionale si sia levata a ventilare soluzioni del
genere, né in esortazione, né in auspicio, neppure a fronte del fatto che col
passare delle settimane prendeva sempre maggior consistenza il timore che le
conseguenze dell’incidente fossero destinate ad esitare in danni seri e
permanenti, timore che d’altronde è parso fin da subito realisticamente
fondato. E allora – chiedo – come cazzo salta in mente a Nicoletta Tiliacos di
prendere occasione dalla vicenda di Schumacher per biasimare gli «sguardi [che] giudicano inadeguat[o] a
garantire una vita “degna di essere vissuta”» il solo parziale recupero
delle funzionalità neurologiche che per lui si prospetta ora che è uscito dal
coma? Chi guarda non fa altro che proiettare su sé stesso le condizioni in cui
versa il pilota di Formula 1, sicché il giudizio se una siffatta vita sia degna
o no di essere vissuta attiene a sé solo: Schumacher si offre come mera
occasione di una riflessione tutta personale, non già come problema sul da
farsi. In buona sostanza, siamo alla differenza posta tra chi ritiene che in
queste situazioni ciascuno abbia il diritto di poter decidere per sé stesso – Schumacher
compreso, se ha provveduto a lasciare disposizioni al riguardo, o chi per lui –
e chi, al contrario, pretende che la propria scelta debba avere valore cogente
per tutti, e questo con una significativa rilevanza sul piano morale: chi non
ritiene degna di essere vissuta una vita in tali condizioni di affliggenti
impedimenti psicofisici mai si sognerebbe di imporre ad altri la propria scelta
eutanasica, al contrario di chi invece la ritiene degna in ogni caso, e che
spesso – troppo spesso – esige ciò valga per tutti.
Ma
dov’è la notizia che consente alla Tiliacos di insinuare che un’imposizione del
genere sarebbe lecita o addirittura necessaria? È presto detto: «Michael Schumacher si è svegliato dal coma,
comunica con la moglie e i figli, “mostra momenti di coscienza e di risveglio”,
come dice la sua manager, e ha lasciato l’ospedale di Grenoble, dove era
ricoverato da dicembre, per una fase, “che sarà lunga”, di cura e di
riabilitazione in una struttura di Losanna» (Il Foglio, 17.6.2014). Bene, ma dov’è la contraddizione con quanto
ha detto alcuni giorni fa «Gary
Hartstein, l’anestesista americano fino al 2012 delegato medico della Formula
1», che pure «non parla per
conoscenza diretta ma, dice, interpreta i fatti»? Ha detto che «sei mesi di coma non fanno sperare niente
di buono», che la sola novità è «che
le sue condizioni sono diventate abbastanza stabili da permettere un
trasferimento» e che comunque nessuno può assicurare che «Schumacher potrà tornare “a esprimersi e
che lavorerà duramente per stare meglio o che dovrà nuovamente imparare a
camminare, leggere, scrivere”»: dov’è la contraddizione col fatto che il
pilota è semplicemente uscito dal coma? Si badi bene: Hartstein non si è mai
augurato che Schumacher morisse, né esprime questo augurio ora, né ha mai ha
suggerito fosse meglio lasciarlo morire, tanto meno sollecita o ha sollecitato un
intervento eutanasico attivo, e nemmeno si azzarda a dire che al posto di Schumacher
la sua scelta sarebbe in tal senso. E tuttavia sembra che a disturbare la
Tiliacos basti il suo realismo, cui in pratica ella rimprovera di non voler
concedere che «l’inaspettato può sempre
accadere». Pur rilevando che sulla base delle affermazioni di Hartstein tale
rimprovero è palesemente immotivato, ancora si potrebbe comprenderlo se egli avesse
mai affermato che il coma in cui versava Schumacher fosse da considerare
irreversibile, ma questo non l’ha mai fatto: si è sempre e solo limitato a
constatare ciò che è ampiamente documentato sul piano prognostico. È questo che
in fin dei conti sembra infastidire la Tiliacos, alla quale piace immaginare
che «attorno a certi letti non si giocano
solo lunghe partite tra la vita e la morte, ma anche lunghe battaglie tra
visioni del mondo, e quindi della vita e della morte».
Battaglie
da combattere sulla pelle di chi vi è steso dentro, tra chi è disposto a
riconoscergli il diritto di autodeterminazione e chi invece è fermamente
intenzionato a negarglielo, opponendogli il dovere di sopravvivere, e a
qualsiasi prezzo. Non è tutto, perché a far forte questo dovere interverrebbe
un imperativo etico che è la negativa della proiezione di chi prende a spunto
il caso di Schumacher per dire che al suo posto preferirebbe morire: «La differenza [tra chi pensa che
ciascuno abbia il diritto di decidere per sé e chi pensa che tutti abbiamo il
dovere di rinunciarvi] la fa lo sguardo
delle persone care, famigliari e amici, ma anche del “pubblico”, se pubblico è
il personaggio, come lo sono un grande campione sportivo [Michael
Schumacher], un politico simbolo del suo
paese [Ariel Sharon], una giovane
donna americana [Terry Schiavo] e una
italiana [Eluana Englaro] diventate
oggetto di uno scontro di civiltà». Uno scontro di civiltà che, a ben
vedere, è tra la civiltà che dichiara la sovranità dell’individuo sul proprio
corpo e sulla propria mente e la barbarie che la nega. Superfluo rilevare che
la sgangherata sofistica della Tiliacos è al servizio di quest’ultima.