Sono
a favore del matrimonio tra persone dello stesso sesso e della possibilità che
esse possano adottare dei bambini, dunque trovo irritante il manifesto di
Fratelli d’Italia che recita: «Un bambino
non è un capriccio. No alle adozioni per i gay. Difendiamo il diritto dei
bambini ad avere un papà e una mamma». Irritante per il testo becero, ma
soprattutto per la foto che l’accompagna. Si tratta di uno scatto di Oliviero
Toscani, che ne lamenta il furto, minacciando di rivalersi per la
violazione dei diritti di proprietà, il che è legittimo, ci penseranno i giudici a
stabilire se merita d’essere risarcito, e in quale misura. Del tutto insensato, invece, mi pare quanto afferma annunciando la querela: «Quella
foto è stata usata nel modo opposto
per cui era stata fatta: erano foto redazionali per spiegare le varie
possibilità di famiglia per un giornale francese» (lastampa.it, 31.8.2014). Giusto, si tratta di uno degli scatti pubblicati
da Elle due anni fa a corredo di un
servizio su La famille homoparentale,
ma in sostanza cosa intendeva rappresentare, il manifesto di Fratelli d’Italia,
se non quelle «possibilità di famiglia»
– due gay e due lesbiche, nel caso della foto in questione – che a loro avviso non avrebbero diritto di adottare bambini? Diciamo
piuttosto che quella foto si prestava proprio ad essere «usata nel modo opposto per cui era stata fatta», e diciamolo con le
parole che un sito di «cultura pop in
salsa lesbica» usò due anni fa, senza che Oliviero Toscani trovasse nulla da ridire: «La
foto ha qualcosa che non va. Le luci sono molto scure. Hanno qualcosa di tetro,
come se non bastasse lo sfondo grigio. Poi gli sguardi dei protagonisti. Mi
sembrano tristi. Il ragazzo di sinistra ha l’aria di sfida e accenna un
sorriso, mentre gli altri due sembrano rassegnati, fino ad arrivare alla ragazza
di destra: sembra una di quelle foto contro la violenza sulle donne, nel senso
che lei è una delle vittime. E il bambino, lì nel mezzo, pare crocifisso,
conteso da una parte e dall’altra, con l’aria mesta, fa quasi pietà. Il
problema è che non capisco se il signor Oliviero Toscani intendesse lanciare un
messaggio a favore dei matrimoni gay, oppure no. Perché vista così, questa foto
funzionerebbe molto più come spot contro. Voi dareste mai in adozione un
bambino a persone che hanno quell’aria così cupa e triste? Beh, io ci penserei
su» (lezpop.it, 30.11.2012). Descrizione
della foto così puntuale dal sentirmi piacevolmente sollevato dal doverla riprodurre in pagina,
sia nella versione pubblicata da Elle,
sia in quella approntata da Fratelli d’Italia, tanto non farete fatica a trovarla
o l’avrete già vista. Una foto francamente infelice, diciamo. Sarà l’averlo capito con
due anni di ritardo che spiega perché a Oliviero Toscani non bastasse rivendicarne
la proprietà, ma sentisse il bisogno di ritoccarla. Brutta com’è, impossibile.
lunedì 1 settembre 2014
sabato 30 agosto 2014
Voglio due mamme
Twitto
poco, per lo più d’istinto, e quasi sempre pentendomi subito di quello che ho
twittato, perché in 140 battute spazi inclusi raramente si argomenta a dovere,
e senza argomentare a dovere ogni scambio di opinioni scade inevitabilmente in
battibecco, che spesso le livella, indebolendo quelle forti e irrobustendo
quelle deboli. Così mi pare sia accaduto ieri.
In
un confronto come si deve, ammesso e non concesso che con un @marioadinolfi ne valga la pena, avrei
dovuto far presente che nessun «bimbo»
era stato «obbligato ad avere due “mamme”».
Innanzitutto, si trattava di una bimba. Questa precisazione, però, l’avrei
lasciata in coda, sollevando una questione solo in apparenza marginale: quanto
di proiettato c’è nel «bimbo» che un @marioadinolfi immagina «obbligato ad avere due “mamme”»? Per
meglio dire: cos’è che autorizza chi trova insopportabile questa sentenza a
mettersi nei panni del minore per dichiararsene insoddisfatto, anzi, per
dirsene penalizzato, e pesantemente, giacché la soluzione sarebbe contro «natura»? Più esplicitamente ancora: non
è un’indebita assunzione di paternità da parte di chi in ogni caso ne ha assai
meno diritto rispetto a una delle due mamme, quella biologica non meno di chi si arroga il diritto di parlare in nome della «legge» e della «natura»?
Ma questo, dicevo, l’avrei
detto solo alla fine. Sarei andato subito al testo della sentenza, nella quale
si legge che la bimba «è nata e cresciuta
con la ricorrente e la sua compagna, madre biologica della bimba, instaurando
con loro un legame inscindibile che, a prescindere da qualsiasi
“classificazione giuridica”, nulla ha di diverso rispetto a un vero e proprio
vincolo genitoriale. Negare alla bambina i diritti e i vantaggi che derivano da
questo rapporto costituirebbe certamente una scelta non corrispondente
all’interesse della minore […] Non si tratta di concedere un diritto ex novo,
creando una situazione prima inesistente, ma di garantire la copertura
giuridica di una situazione di fatto già esistente da anni, nell’esclusivo interesse
di una bambina che è da sempre cresciuta e stata allevata da due donne, che
essa stessa riconosce come riferimenti affettivi primari, al punto tale da
chiamare entrambe “mamma”». Né in oltraggio alla «legge», dunque, né contro «natura».
Ripensandoci, tuttavia, tutto questo si poteva sintetizzare in 140 battute spazi inclusi, chessò, «leggi il testo della sentenza, coglione», ma non sarebbe stato ancora più ellittico? No, è il mezzo che non va bene, è Twitter che non è adatto al fine.
venerdì 29 agosto 2014
Rap
Probabilmente
tra dieci anni riprenderò in mano questa Storia
di Firenze di John M. Najemy e non mi sembrerà più il libro straordinario
che oggi mi sembra, capirò che ero io a dargli modo di prendermi interamente,
come sta facendo, ma che in fondo mi si offriva a pretesto per lenire l’infinita
noia che mi infliggeva quello che scorreva sulle prime pagine dei quotidiani, nei
titoli dei tg, sulle homepage degli uomini più chic e delle femmine più pittate
del web, in quell’ormai lontano agosto del Quattordici. Probabilmente mi sembrerà
pure un pretesto idiota e, ingrato del godimento che m’ha dato, mi permetterò
pure di alzare un sopracciglio su quell’unico refuso tipografico a pag. 59 che
oggi, nel cominciare a rileggerlo daccapo, mi sembra delizioso come un neo sulla
schiena della tizia che ti chiede: «Ancora!». Insomma, sì, non escludo sia un
bel libro e basta, fatto sta che in questi ultimi giorni mi è sembrata la sola
cosa degna di attenzione, incantevole rifugio al tedio di robette ritrite. Non era
avido, il capitale, nella Firenze degli Strozzi, dei Cerchi e dei Bardi? Non
meno di quello delle odierne multinazionali, ma aveva la freschezza d’una
violenza cieca quanto innocente, perfino il dono della grazia che hanno le
fauci dei grandi felini. E non doveva avere i tratti fisiognomici del cazzaro,
quel Buondelmonte de’ Buondelmonti che si sparava pose di riformista? Non è
escluso, ma vuoi mettere la resistenza che la sua cotenna offrì al pugnale?
Oggi i cazzari sono flaccidi, manco c’è sfizio a ficcargli un ferro in pancia,
si è costretti a vederli annegare nel torrente dei loro hashtag. E si sgozzava,
cazzo se si sgozzava, e della crudeltà non si faceva risparmio, anzi, e non mancavano
manacce esperte sulla tastiera dell’arbitrio e del terrore – questo ha di
meraviglioso, il Najemy, che foglia dopo foglia ti apre il mito come una
cipolla, e del Rinascimento ti mostra il suo più genuino ghigno, tutto belluino
– ma a una testa mozzata trasalivi, mica potevi uscirtene con la nevrastenia
che è tutta pornografia, signora mia. Dio, che uomini. E qui, in questa
merdaccia in cui tutti rovistano cercando la pepita d’oro di un Riumanesimo da
venire, i più lucidi – che poi, a guardare bene, si tratta solo dei meno opachi
– non sanno andare con la nostalgia più in là della Prima Repubblica. Macché,
bisogna riandare almeno al 1294 – diciamo al 1296, toh, voglio essere generoso –
per trovare un editoriale davvero intelligente, un post di quelli veramente acuti.
martedì 26 agosto 2014
Zitti, state zitti!
Quando gli torna utile, il Vaticano è capace perfino di non mentire. Il massimo della perversione, diciamo. Momenti indimenticabili, non foss’altro per lo sgomento che allora semina fra quanti non sanno coglierne il motivo e restano spiazzati. Che cazzo, pensavano stessero dando una mano, poi arriva il Segretario di Stato e no, «non è uno scontro tra islam e cristianesimo», vederla a questo modo è «una semplificazione» (La Stampa, 25.8.2014). Robe che ai Socci, ai Galli della Loggia, ai Ferrara, agli Allam e agli Amicone non resta che l’imbarazzo della scelta tra un giramento di coglioni e una crisi di nervi, anche perché ’sto stronzone d’un Parolin mica s’è limitato a romper loro le bolle di sapone, lo scontro di civiltà, la guerra di religione, il Logos contro la Spada, ma gli ha pure mandato a dire di starsene buonini, ché «non occorre sempre gridare per risolvere i problemi». Tradotto dal curiale: mettetevi la lingua in culo e fateci lavorare!
«Problemi», mica massacri. «Problemi» che a pomparli di retorica c’è il rischio di trasformarli in guai davvero seri. Ok, quando sarà il momento li beatificheremo tutti, ’sti cristiani che stanno a mori’ in Iraq, ma oggi a farsi prendere dall’entusiasmo di dichiararli vittime di un jihad selettivamente cristianofobico o, peggio, pensare di organizzare una crociata per salvarli sarebbe un errore madornale. Con un cattolicesimo che è sempre più asiatico e africano, ci mancherebbe solo il far del papa il cappellano di un occidente neocolonialista. Basta pugnette sulla lectio di Ratisbona, imbecilli, ché ci rovinate la partita. Sapeste «quanti musulmani soffrono per questa situazione e sono solidali con i cristiani». Non sapete che «ci sono all’interno dell’islam, e credo siano la maggioranza, persone che rifiutano metodi così brutali e antiumani»? E allora zitti, state zitti, e fateci lavorare!
Tempi duri per gli orfani di Ratzinger. Niente più guerre sante, di principi non negoziabili manco più a parlarne... Poi c’è da stupirsi se uno, che pure è nato all’ombra d’un campanile, d’un tratto ti diventa salafita?
Tempi duri per gli orfani di Ratzinger. Niente più guerre sante, di principi non negoziabili manco più a parlarne... Poi c’è da stupirsi se uno, che pure è nato all’ombra d’un campanile, d’un tratto ti diventa salafita?
lunedì 25 agosto 2014
Coda
Fin qui ho solo sfiorato la vicenda relativa al tweet nel quale Richard Dawkins ha definito «immorale» portare avanti una gravidanza con feto portatore di sindrome di Down quando sia possibile interromperla per tentare di averne un’altra con feto sano, l’ho fatto limitandomi a segnalare la scorrettezza di chi, per colorarlo della «brutalità» di cui evidentemente l’assunto di principio gli è parso potesse non esser pieno a dovere, ha scritto che era il consiglio personalmente dato ad una donna realmente incinta (Il Foglio, 22.8.2014). Mi è stata sollevata l’obiezione di aver voluto appuntare l’attenzione su un dato di natura meramente formale, come non esistesse alcuna relazione tra la forma che si sceglie di dare a un argomento e la sostanza di quanto gli si vuol far dimostrare. Che la donna cui era indirizzato il tweet fosse realmente incinta o meno, invece, ritengo non sia affatto irrilevante, e qui vorrei soffermarmi a spiegare meglio il perché, con ciò dando premessa alla risposta che devo a chi mi ha chiesto cosa consiglio ad una gravida dopo aver fatto diagnosi di una grave malformazione a carico del feto.
Dico subito che mi limito a spiegare come stiano le cose, e cerco di farlo con delicatezza, ma senza venir meno al dovere di essere schietto, cercando di evitare sia eufemismi che crudezze. In ogni caso evito di dare consigli sul da farsi, anche quando mi vengono richiesti con l’evidente fine di avere avallo ad una scelta che intimamente è già presa, qualunque essa sia. Così quando tale scelta mi è comunicata: qualunque essa sia, mi astengo da ogni osservazione che possa anche lontanamente aver forma di approvazione o di biasimo. Nei panni di chi ho davanti so quale sarebbe la decisione che prenderei io, ma ritengo che in situazioni del genere ciascuno abbia il diritto e il dovere di arrivare ad una scelta libera da condizionamenti esterni alla propria sfera di opinioni e sentimenti. Nei panni di chi ho davanti la mia decisione sarebbe uguale a quella consigliata da Richard Dawkins, qui non ho alcuna difficoltà ad ammetterlo, ma dirlo ad una donna che in utero ha un feto gravemente malformato assumerebbe un altro significato.
Mi rendo conto di aver anticipato la risposta saltando la premessa con la quale avevo intenzione di spiegare quale sia la differenza tra esprimersi in favore della scelta eugenetica, che è quanto Richard Dawkins ha fatto col suo tweet, e consigliarla ad una donna che in utero ha un feto gravemente malformato, che è quanto invece non ha fatto. A chi è contrario che nel caso di specie sia data libertà di scelta torna comodo far credere che l’opzione dell’interruzione di gravidanza voglia essere imposta da chi in realtà si limita ad ammetterla, e così è stato nel caso specifico che qui trattiamo, dove l’insinuazione è parsa tanto più agevole per l’uso del termine «immorale» al quale Richard Dawkins è ricorso: in pratica, si è inteso dare alla sua «morale» il carattere cogente che invece è il tratto distintivo di quella che nega la libertà di scelta.
Basta aver letto Il gene egoista per dare il giusto senso a ciò che nel suo tweet Richard Dakwins ha definito «immorale»: sta per «contrario al buonsenso». Un buonsenso, occorre dire, che da qualche tempo trova sempre maggiore coincidenza nel senso comune, come dimostra il sempre più frequente ricorso alla diagnostica prenatale. Una «morale», dunque, quella di Richard Dawkins, che, lungi dall’essere il dettato di una norma trascendente, si limita ad esprimere la ratio che possa governare al meglio l’immanente. Sgradevole quanto si voglia a chi ne abbia una diversa, è una «morale» che esprime l’ormai consolidata opinione che tra ovocellula fecondata, morula, blastocisti, embrione, feto e uomo ci siano differenze significative, e che siano proprio queste a dar contro del processo che dalla materia biologica porta alla persona, quando accade e se accade.
Dico subito che mi limito a spiegare come stiano le cose, e cerco di farlo con delicatezza, ma senza venir meno al dovere di essere schietto, cercando di evitare sia eufemismi che crudezze. In ogni caso evito di dare consigli sul da farsi, anche quando mi vengono richiesti con l’evidente fine di avere avallo ad una scelta che intimamente è già presa, qualunque essa sia. Così quando tale scelta mi è comunicata: qualunque essa sia, mi astengo da ogni osservazione che possa anche lontanamente aver forma di approvazione o di biasimo. Nei panni di chi ho davanti so quale sarebbe la decisione che prenderei io, ma ritengo che in situazioni del genere ciascuno abbia il diritto e il dovere di arrivare ad una scelta libera da condizionamenti esterni alla propria sfera di opinioni e sentimenti. Nei panni di chi ho davanti la mia decisione sarebbe uguale a quella consigliata da Richard Dawkins, qui non ho alcuna difficoltà ad ammetterlo, ma dirlo ad una donna che in utero ha un feto gravemente malformato assumerebbe un altro significato.
Mi rendo conto di aver anticipato la risposta saltando la premessa con la quale avevo intenzione di spiegare quale sia la differenza tra esprimersi in favore della scelta eugenetica, che è quanto Richard Dawkins ha fatto col suo tweet, e consigliarla ad una donna che in utero ha un feto gravemente malformato, che è quanto invece non ha fatto. A chi è contrario che nel caso di specie sia data libertà di scelta torna comodo far credere che l’opzione dell’interruzione di gravidanza voglia essere imposta da chi in realtà si limita ad ammetterla, e così è stato nel caso specifico che qui trattiamo, dove l’insinuazione è parsa tanto più agevole per l’uso del termine «immorale» al quale Richard Dawkins è ricorso: in pratica, si è inteso dare alla sua «morale» il carattere cogente che invece è il tratto distintivo di quella che nega la libertà di scelta.
Basta aver letto Il gene egoista per dare il giusto senso a ciò che nel suo tweet Richard Dakwins ha definito «immorale»: sta per «contrario al buonsenso». Un buonsenso, occorre dire, che da qualche tempo trova sempre maggiore coincidenza nel senso comune, come dimostra il sempre più frequente ricorso alla diagnostica prenatale. Una «morale», dunque, quella di Richard Dawkins, che, lungi dall’essere il dettato di una norma trascendente, si limita ad esprimere la ratio che possa governare al meglio l’immanente. Sgradevole quanto si voglia a chi ne abbia una diversa, è una «morale» che esprime l’ormai consolidata opinione che tra ovocellula fecondata, morula, blastocisti, embrione, feto e uomo ci siano differenze significative, e che siano proprio queste a dar contro del processo che dalla materia biologica porta alla persona, quando accade e se accade.
sabato 23 agosto 2014
venerdì 22 agosto 2014
Va’ a capire
Quanti
morti fecero le guerre di religione consumatesi in Europa tra la metà del
Cinquecento e la metà del Seicento? La stima oscilla tra i 90.000 e i 120.000, e
parliamo di un’epoca in cui la popolazione europea era circa un quarto di
quella mondiale, intorno ai 140 milioni di individui su 620. Guerre di
religione per modo di dire, perché non c’è bisogno di essere storici di stretta
osservanza marxista per individuarne le cause in ragioni di natura eminentemente
economica. Com’è noto, poi, le cose non possono essere semplificate in modo
lineare: il grosso del massacro si ebbe tra cattolici e protestanti, ma in
ciascuno dei due campi s’ebbero screzi tutt’altro che incruenti, e al conto va
aggiunto chi non c’entrava se non di sguiscio, come gli ebrei, i colpevoli di
stregoneria, ecc. Era un gran bordello, e a starci dentro non è che si capisse
esattamente cosa stesse succedendo, sicché tornava comodo il modello di un
conflitto tra due modi diversi di intendere lo stesso Dio.
Bene,
almeno a leggere Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera d’oggi, possiamo dire di non aver imparato
nulla dalla storia. C’è un gran bordello in Medioriente, è ovvio, ed è fin
troppo evidente che l’islam accusi i suoi sei secoli di ritardo sul
cristianesimo dandoci solo adesso la resa di conti tra sunniti e sciiti. Gli
uni cercano di prevalere sugli altri nella speranza di conquistare una
definitiva egemonia, poi, semmai, troveranno un accordo, si spartiranno quello
che hanno da spartirsi, e non è neanche detto che tra due secoli o tre non
comincino a concepire qualcosa di ecumenico, nel mentre anche lì si farà strada la sana idea che il sacro è meglio se ne stia buonino nel privato. Niente, Ernesto Galli della Loggia
legge i fatti in altro modo: è guerra di religione, ma tra islam e
cristianesimo. Per meglio dire: l’islam ha dichiarato guerra al cristianesimo,
che però non trova soldati a difenderlo, sicché l’occidente è fritto. E a quali
mezzucci non ricorre per dimostrare quanto è salda la sua tesi.
«Come si può riuscire a
fare la guerra a un aggressore che invoca continuamente Dio e l’appartenenza
religiosa senza dare alla propria risposta militare alcun carattere anch’esso a
propria volta inevitabilmente religioso? Detto altrimenti: è davvero necessario
perché si possa parlare di guerra di religione che entrambi gli avversari la
proclamino tale, o non basta invece che lo faccia uno solo? Se uno mi ammazza
perché io sono sciita, cristiano, o ebreo, o “infedele”, e io cerco di
difendermi colpendo a mia volta, cos’è questo se non un conflitto religioso?». Non strabuzzate gli
occhi, Ernesto Galli della Loggia pensa che, per difendersi da uno che cerca di
ammazzarti perché a torto o a ragione ti crede buddhista, bisogna armarsi di kalashnikov,
sì, ma solo dopo aver indossato un bel saio arancione e aver cantilenato un tot
di «Hare Krishna! Hare Rama!», sennò
c’è il rischio di prendersi schiaffoni da uno che, mentre ti mena, urla «Pasquale,
figlio d’un cane!», e tenerseli «perché,
io so’ Pasquale?». In altri termini, se un truce energumeno armato di
scimitarra si para innanzi a Indiana Jones e inizia a volteggiarla in aria
minacciosamente, per Ernesto Galli della Loggia il duello non può essere che a scimitarra.
Avere una pistola e sparargli sarebbe inopportuno? Va’ a capire.
«Domanda numero due: se
una persona di diversa religione e origine culturale si trova fin dall’infanzia
a vivere per anni ed anni con la propria famiglia in un Paese occidentale, ne
apprende perfettamente la lingua, ne frequenta le scuole, vi si fa
presumibilmente degli amici, ne assorbe le abitudini quotidiane, ma a un certo
punto decide che tutto quanto è stato così intimamente e così a lungo intorno a
lui gli è in realtà insopportabile e repellente fino al punto da meritare il
più crudele annientamento, che cosa indica ciò? Che nome merita? E un fenomeno
del genere ripetuto per centinaia di casi, è un fatto casuale, un puro
accidente oppure no?».
A parte il fatto che il caso di specie è tutt’al più nell’ordine delle decine, da
un disagio psichico che sfoci in una carneficina non può essere colto anche una
persona di «uguale» religione e origine culturale? Se per difenderci dall’immigrato
musulmano di prima, seconda o addirittura terza generazione che in sé covi un
micidiale stragista dobbiamo travestirci da crociati, da cosa dobbiamo
travestirci per difenderci dai potenziali mostri indigeni travestiti anch’essi
da crociati come Anders Breivik? Il mondo è pieno di tizi che a un certo punto
possono sentire insopportabile e repellente quanto hanno intorno, e fino al
punto da considerarlo meritevole di un crudele annientamento: cambia solo ciò
che offre un motivo al malessere e un movente alla violenza. Che la strage sia
ordinata da Allah, da Satana o da una vocina che esce dall’oblò della lavatrice,
perché dovrebbe essere approntata una difesa di volta in volta diversa?
«Una radicale riconciliazione con il principio di realtà: ecco che cosa ci manca nel nostro modo di guardare al mondo», così conclude Ernesto Galli della Loggia. «Certo, le idee sono una guida necessaria a muoversi in esso. Ma che cosa il mondo sia e come funzioni, non l’hanno quasi mai stabilito le idee». Qui proprio non gli si può dar torto: spesso l’hanno fatto gli umori suscitati nelle masse dai propagandisti della classe egemone.
«Una radicale riconciliazione con il principio di realtà: ecco che cosa ci manca nel nostro modo di guardare al mondo», così conclude Ernesto Galli della Loggia. «Certo, le idee sono una guida necessaria a muoversi in esso. Ma che cosa il mondo sia e come funzioni, non l’hanno quasi mai stabilito le idee». Qui proprio non gli si può dar torto: spesso l’hanno fatto gli umori suscitati nelle masse dai propagandisti della classe egemone.
Le solite
@InYourFaceNYer si dichiara «writer, artist, atheist,
nerd, exercise fanatic. Yes, I’m a woman. Huge admirer of Richard Dawkins and
Dr. Jack Kevorkian». È lei che a un tweet di @RichardDawkins, che aveva segnalato un articolo apparso su newrepublic.com (The Catholic Church Prefers Medieval Barbarism to Modern Abortion),
risponde: «I honestly don’t know what I
would do if I were pregnant with a kid with Down Syndrome. Real
ethical dilemma». È incinta
di un feto portatore di sindrome di Down? No, e lo chiarisce a chi ha frainteso
la risposta che le ha dato @RichardDawkins
(«Abort it and try again. It would be immoral to bring it into the world
if you have the choice»): dice che «no,
@RichardDawkins was not ordering me to abort a fetus I’m never going to be
pregnant with anyway». Vabbe’, ma cosa importa a Il Foglio?
[...]
In
rispolvero, voilà, le radici giudaico-cristiane. Poco importa quanto
strumentalmente siano rievocate, anche stavolta occorre non far troppa
differenza tra chi le tira fuori in buona fede, per la romantica inclinazione
all’allegoria dello scontro di civiltà o della guerra di religione, e chi non
vedeva l’ora che ricapitasse l’occasione buona, per rioffrirci la tesi della nostra
superiorità antropologica in cambio una firmetta in calce alla stanca
riedizione del solito manifesto clericofascista (Dio, Patria e Famiglia, e i
loro succedanei): poco importa, perché gli argomenti sono gli stessi. Riecco,
dunque, appena un po’ invecchiati, Bernard-Henry Lévy e Ida Magli, e
naturalmente chi li legge trovandoli convincenti. In solido c’è alleanza tra
chi taglia teste e chi le riempie di bubbole.
mercoledì 20 agosto 2014
[...]
È
che quelli dell’Isis non hanno sense of humor, sennò la testa di Foley l’avrebbero
spedita a Di Battista accludendo due righe del tipo: «Ci giunge notizia che
lei si fa promotore di un dialogo con noi. È lei quello che “dovremmo smetterla
di considerare il terrorista un soggetto disumano con il quale nemmeno
intavolare una discussione”, giusto? Bene, il fatto che voglia “provare a
comprendere” le nostre ragioni ci fa chiudere un occhio sul fatto che lei né le
“approva” né le “giustifica” e con la presente voglia gradire i sensi della
nostra piena disponibilità ad un cordiale scambio di opinioni. Non vediamo l’ora
di essere “elevati a interlocutori”, è così che ha detto, giusto? Lasciamo a
lei la scelta di data e luogo, caro Alessandro, e sappia che non abbiamo alcuna
obiezione all’eventuale richiesta che la discussione vada in streaming, ché l’occhio della telecamera non ci rende timidi».
Certo,
aperto il pacco, il cittadino Di Battista sarebbe diventato bianco come un
cencio, ci sarebbero voluti i sali, ma chi non avrebbe gradito lo scherzetto di
quei simpatici burloni? È d’un tal noioso, quest’agosto 2014, che un dibattito
tra le vittime dell’“ingiustizia sociale” che genera terrorismo sunnita e
le vittime
dell’“ingiustizia sociale” che genera nonviolenza grillina sarebbe stato
stimolante assai. E invece niente, tutto maledettamente piatto. Non una novità.
Ah, sì, volendo ci sarebbe la scoperta che la Boschi ha un culo spaventosamente
basso, ma questo è un blog d’un certo livello e allora omissis.
Niente, non succede un cazzo di niente, tutto scorre nel tran tran. Bergoglio con
la mania di fare il simpatico con tutti, e poco manca che dica due miti
paroline sull’eterologa, spiazzando quella povera donna della Lorenzin. Renzi
che rilancia bluff su bluff, e poco manca che annunci la riforma del calendario,
perché portando la settimana a dieci giorni il Pil potrebbe avere una scossina.
Banali nubifragi al nord, le solite code sulle autostrade, la cronaca nera si
prende lo spazio lasciato dal calcio, e il ghiaccio nel mojito si squaglia. Insomma, si muore di bonaccia.
martedì 19 agosto 2014
[...]
Quello
che di bello ha questo papa è il suo rendere palese, come mai prima, la vacuità delle banalità
cui la Chiesa è costretta quando cerca di accontentare tutti, e senza
risparmiarsi la sfacciataggine che d’altronde non deve mai far difetto in chi sa bene che il
mondo è affamato di insulsaggini ammantate dal velo di una qualsiasi autorità
che sia in grado di farle apparire perle di saggezza. Diciamo che Bergoglio è così dichiaratamente figlio di puttana che non puoi che biasimare chi ci casca e sta lì a leccarselo come un Calippo.
Stavolta, per esempio: «Dove
c’è un’aggressione ingiusta posso solo dire che è lecito fermare l’aggressore
ingiusto. E sottolineo il verbo fermare: non bombardare o fare la guerra. Dico:
fermarlo. I mezzi con i quali si può fermare dovranno essere valutati». E
da chi? Perché non darci una mano in questo senso, Santità? Cosa suggerisce? Come lo fermerebbe, lei, l’aggressore ingiusto? Via, ingerisca.
Non uno stronzo a chiederglielo,
tutti a concordare che – beh, sì – l’aggressore ingiusto va fermato, ma che
bombe e guerra – ah, no – quelle belle non sono. Si potrebbe provare con un’offensiva aerea
di Pater noster, chissà, semmai con l’appoggio di una batteria mobile di Ave Maria. E se non funziona, nessun indugio, si passi ad inviare all’aggredito ingiustamente un solido supporto
di Requiescat in pace.
lunedì 18 agosto 2014
«La mia generazione ha vinto»
Wikipedia fa buona sintesi del
significato sociologico del termine generazione,
dice che «identifica un insieme di
persone che è vissuto ed è stato esposto a degli eventi che l’ha caratterizzato»
e precisa che «le generazioni non
esistono sistematicamente, [perché] vi
sono periodi della storia in cui non si è verificato nessun evento
caratterizzante», aggiungendo che «i
giovani d’oggi ne sono un esempio»: anche se «alcuni sociologi hanno parlato di “generazione internet”», infatti,
il web «non può essere definito come
evento caratterizzante poiché comprende un vasto insieme di persone che hanno cominciato
a usufruir[ne] (anziani, adulti,
giovani e persino bambini)». Nulla aggiunge sul significato corrente del
termine, solitamente usato per indicare quell’arco temporale di circa 25 anni che
intercorre tra due generazioni successive, come da esempio offerto dai più
aggiornati lemmari con quella generazione
X che, pur «priva di un’identità sociale
definita», come ebbe a precisare chi coniò il neologismo (Jane Deverson), voleva
avere mera delimitazione anagrafica, includendo «chi è nato negli anni Sessanta e Settanta del Novecento».
Con
le dovute scuse al lettore che avrà storto il muso per la pedante premessa,
possiamo passare a chiederci se sia legittimo immaginare una generazione che includa chi è nato tra
il 1° gennaio del 1970 e il 31 gennaio del 1979. Si tratta del parto della
crassa fanfaronaggine di una delle più grottesche maschere che negli ultimi
anni abbiamo visto affannarsi, quasi sempre con esiti tragicomici, per entrare
nella posa che fotografa lo sfascio culturale e morale di un paese di merda,
quel Mario Adinolfi che ne teorizzò l’esistenza alcuni anni fa, battezzandola Generazione U (Hacca, 2007). Non suoni
tutto ironico, il teorizzare, perché tra
le accezioni estensive di teoria vi è
anche l’opinione scacazzata a punto e virgola, a serpentina, a spruzzo e a
palline, e un’occhiata all’esilarante librettino è in tal senso dirimente: la generazione U non aveva altra
caratteristica che essere quella «degli
under 40» – generazione perenne, potremmo dire, sicché oggi il suo teorizzatore
ne è fuori – mentre a cercare di coglierne i tratti che le dessero forma, se
non struttura, non si poteva attingere che dai suoi gusti – I dieci film della Generazione U (300, La
messa è finita, Matrix, ecc.), I dieci libri della Generazione U (Albert
Camus e Paolo Villaggio, la Bibbia e Indro Montanelli, ecc.), e via elencando,
come da pagina di Smemoranda – patenti proiezioni di un (allora) 36enne che si
attardava nei sogni ad occhi aperti che sono delizia dell’adolescenza pronta ad
abbracciare la croce della disillusione. Trovato su una bancarella dei libri
scampati al macero, nel comparto di quelli al prezzo di 50 centesimi, riposa
oggi in uno degli scaffali coperti pudicamente dagli schienali dei divani, tra Nel 2006 vinco io (e intanto gioco a
governare) di Pierluigi Diaco (Mondadori, 2001) e Poveri ma ricchi – La favola del grande declino italiano di Filippo
Facci (Mondadori, 2006). Anche Generazione
U ha un sottotitolo notevole: Storia
e idee di un blogger che vuole cambiare l’Italia. Poteva far paura, oggi
strappa un sorriso.
Perché
parlarne oggi? Perché oggi Mario Adinolfi afferma: «La mia generazione ha vinto». «Il simbolo fin troppo
evidente è il potere imperiale assegnato a Matteo Renzi (1975)», e poi c’è Paolo
Sorrentino (1970), Roberto Saviano (1979), Checco Zalone (1977), Fabio Volo
(1972), Matteo
Salvini (1973), Giorgia Meloni (1977), Angelino Alfano (1970), Matteo Orfini
(1974), e tanti altri ancora, poco importa che non ve ne fosse uno a
sottoscrivere le cazzate che lui scriveva nel 2007, poco importa che in un modo
o nell’altro quelli siano riusciti a «cambiare
l’Italia», mentre nel frattempo Mario Adinolfi è riuscito solo a cambiare
bermuda, perché la proiezione ha questo di potente: investi a gratis e qualcosa
comunque porti a casa. Mario Adinolfi guarda Matteo Renzi e sente scorrergli
nelle vene un po’ di «potere imperiale»,
guarda Paolo Sorrentino e sente che quell’Oscar è anche un po’ suo, guarda
Salvini, Meloni, Alfano e si sente segretario di partito. È facile, via,
provate anche voi. Che siate nati tra il 1° gennaio del 1940 e il 31 gennaio
del 1949 o tra il 1° gennaio del 1950 e il 31 gennaio del 1959 viene bene
uguale. Se poi siete nati tra il 1° gennaio del 2000 e il 31 gennaio del 2009,
non vi resta che attendere: vedrete che qualcosa vincerete di sicuro. Sicché
non vi date troppo affanno, potrete anche avere «il limite di apparire una generazione “leggera”, incapace di
complessità, forse superficiale», dovreste certamente «migliorare ed essere più credibili, studiare forse di più, leggere
certamente di più», ma non preoccupatevi troppo, perché ci sarà qualcuno
della vostra generazione che lo farà
per voi, sicché potrete dire di aver vinto comunque. L’importante è che cominciate
per tempo a sentirvela dentro.
domenica 17 agosto 2014
[...]
«Il film è stato realizzato
con un budget stimato di 80 milioni di dollari [e] il regista, affascinato da sempre dalla storia dei romani, ha
effettuato ricerche su Pompei nei sei anni precedenti al film». Così nella
scheda che trovo su Wikipedia, alla quale arrivo dopo aver letto la recensione
di hannibalector. Superfluo ogni commento.
martedì 12 agosto 2014
domenica 10 agosto 2014
Si poteva ancora scavare
Gli
abbracci e i baci che hanno sigillato al Senato l’intesa tra Renzi e Berlusconi
sulla riforma costituzionale sono i preliminari di una copula che partorirà un
nuovo blocco sociale e una legge elettorale che ridurrà la rappresentatività a
mera rappresentazione delle forze dei due copulanti ne sarà la placenta. A
dispetto di chi ritiene che Renzi durerà poco, e che non a caso è anche chi ha
ritenuto fino a ieri che Berlusconi fosse irreparabilmente finito (ritenerlo
oggi è improponibile), l’Italia si appresta a offrire al mondo un altro inedito
modello di sintesi degli apparentemente inconciliabili appetiti di clan che di giorno
si sgozzano in una parodia di conflitto sociale e di notte s’accordano per fare
sistema. Non è il fascismo, stavolta, ma è qualcosa che del fascismo ha la
stessa aspirazione a cercare coincidenza tra stato, inteso come macchina che
produce consenso, e nazione, intesa come corpo che al consenso dà espressione: è
l’eterno sogno di costruire una società a misura di quel familismo che per
statuto ha il reciproco ricatto che rinsalda i piani della piramide, dal
vertice alla base e viceversa, e per manifesto ha la compiacente offerta di un
realismo che è la logica del parassita che vive degli avanzi incastrati tra i
denti del predatore. Il berlusconismo non era il fondo dell’abisso, si poteva
ancora scavare. Stavolta sfacciatamente esibita, la totale mancanza di una
cultura politica, e di cultura in generale, poteva inventarsi il renzismo, che
è solo l’altra gamba di un’Italia che fin qui aveva saltellato sul
berlusconismo. Berlusconi serviva a Renzi non meno di quanto Renzi servisse a Berlusconi.
Ora il paese è saldo su entrambe le gambe e può finalmente correre verso il suo
finale schianto. Tanto lo si è temuto come possibile, e quasi certo, che l’angoscia
si è placata in una paziente attesa.
venerdì 8 agosto 2014
Quelli, sì, matti davvero
«Qualche
anno fa, non molti, era battaglia. Sulla vita, sui figli, sul significato di
paternità e maternità, sul criterio della selezione eugenetica o selezione
della razza, sul carattere umano, troppo umano, dell’imperfezione genetica, sul
diritto sempre periclitante a sapere di chi si sia figli... Qualche anno fa,
non molti, si discuteva accanitamente, e si votava in Italia in un referendum molto
combattuto, sulla natura dell’embrione concepito, sul suo corredo cromosomico,
sulla tutela biopolitica degli individui nella loro irripetibile singolarità, fissata
nelle costituzioni e nelle coscienze…».
È un andantino malinconico, quello di
Giuliano Ferrara su Il Foglio di giovedì 7 agosto, roba da far intenerire pure
una carogna, e infatti a me nel leggerlo il cuore si è tanto stretto che son
riuscito pure a chiudere un occhio su quel «si votava in Italia in un
referendum molto combattuto», perché a votare, certo, «si votava», ma bastò che
Ruini desse l’ordine e, a pochi giorni dal voto, Ferrara passò dal «no» all’astensione:
«era battaglia», certo, ma un pochino asimmetrica, diciamo. E come andò, si sa. Vinse l’astensione, e la legge 40, la legge più stronza e più crudele dell’era berlusconiana, non venne abrogata.
Che fine abbia fatto, si sa anche quello. Forte della maggioranza clericofascista che l’aveva partorita e resa ancor più forte dalla strafottenza di un popolo ridotto a plebe da decenni, non ha retto al vaglio di costituzionalità e da bandiera sventolante sul più cazzuto dei torrioni dei «principii non negoziabili» è diventata un cencio che neanche Beatrice Lorenzin riesce a rammendare con le sue linee guida.
E il povero Ferrara si dispera: «Che
cosa abbiamo fatto per meritarci lo scambio degli embrioni in ospedale a Roma,
la lite giudiziaria sinistra tra genitori biologici e genitori di gestazione, che
si decide a giorni nelle mani di un diritto flebile e prepotente e incurante
dei diritti di chi sopravviene, che ha ucciso in culla con 28 verdetti
attivistici una legge che ci erano voluti trent’anni per farla? Che cosa abbiamo
fatto per arrivare a un decreto del governo che pare cerchi di evitare, estrema
linea Maginot, le secche altrettanto sinistre della compatibilità genetica come
aggressivo diritto alla pelle chiara o agli occhi celesti nella fecondazione eterologa?
Che cosa abbiamo fatto per assistere al trionfo dei “centri” di desiderio immaturi
e degli esperti faustiani che negano anche questa blanda e aggirabile necessità
normativa, e teorizzano una capacità e opacità riproduttiva legibus soluta, anarchica,
fatta di una sicura predisposizione all’eugenetica cioè alla selezione della
razza?».
Con quale coraggio si può rimanere insensibili a tanto strazio? Io non ci riesco, una parola buona mi sembra d’obbligo, perché Ratzinger abdica, Ruini va in pensione, agli zuavi del centrodestra si raffredda la fregola bioetica, Ferrara si ritrova a fianco solo Adinolfi che strepita che vuole la mamma, e come non si può capire il brivido che gli corre lungo il groppone? E allora comincerei col dire al poverino che si inganna, le cose non sono andate come sono andate perché «la Chiesa ha abbandonato il campo di battaglia»: fosse rimasta lì, comunque non avrebbe vinto, e in breve sarebbe stata travolta, perché eludere un’obiezione che si solleva dal piano buonsenso con un assunto di principio, per giunta non negoziabile, può tornar comodo quando si battibecca, ma non è il massimo. E
dunque, sì, «l’abdicazione di Ratzinger è stata simbolicamente molto di più che
non la rinuncia al Soglio pontificio», ma è da leggere come una presa d’atto: la battaglia era persa in partenza e l’averla ingaggiata, essersi illusi di poterla vincere o, peggio, pensare di poter restare sul terreno conquistato comportava un rischio micidiale. Più saggio ritirarsi, lasciare il campo ai matti che amano le cause perse, per lo più abbracciate per l’uzzolo di sfidare il secolo. Romantici quanto si vuole, ma quelli, sì, matti davvero.
martedì 5 agosto 2014
[...]
Non
c’è dubbio su chi romperà la tregua, c’è solo da scommettere su quando sarà
rotta. E allora tutti a condannare Israele perché la sua risposta sembrerà
spropositata. La condannerò anch’io, allora, perché ha accettato questa tregua
prima di portare a termine il lavoro necessario alla sua sicurezza. Quanti
palestinesi sono morti, stavolta? Quante case sono state rase al suolo, sulla
Striscia di Gaza? Non abbastanza, c’è da giurarci.
De consolatione picturae
Tra i
tanti sottovalutati che i sopravvalutati hanno ingiustamente oscurato c’è Bartholomaeus
Spranger (1546-1611), sul quale un giorno, forse, scriverò una monografia. Lo
incontrai tanti anni fa a Vienna e da allora, di tanto in tanto, mi torna sotto
gli occhi, a ripulirmeli degli effetti speciali del Caravaggio, dei tronfi
tripudi del Veronese, degli stentorei epistotoni del Buonarroti. Sensuale senza
snervature, lo Spranger è classico e moderno, e soprattutto – perciò vergo
questo appunto – è il più grande ritrattista di mani prima del Tiepolo. Le sue
dita parlano, e non per chiavi o simboli: direi che siamo davanti a mani che rilevano
sentimento. Qui sopra, un suo autoritratto, eloquentissimo del carattere. Sotto, alcuni particolari in attesa di adeguata didascalia.
Cerere e Bacco (1590)
Venere
nella fucina di Vulcano (1610)
Venere
e Adone (1597)
Giove
e Antiope (1596)
Vulcano
e Maia (1585)
Venere
e Mercurio (1585)
Salmaci
e Ermafrodito (1582)
Venere
e Marte messi in guardia da Mercurio (1587)
Ulisse
e Circe (1585)
venerdì 1 agosto 2014
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