Ancora
una volta il chierico dimostra la sua superiorità sul laico nell’arte di
infinocchiare i gonzi, per averne prova basta porgere l’orecchio al coro di
lodi che si leva in queste ore per l’arresto di Wesolowski deciso da Bergoglio.
Parliamo del tizio che da nunzio nella Repubblica Dominicana commise abusi
sessuali su minori, così recita la sentenza di primo grado emessa dal tribunale
canonico che qualche mese fa gli comminò il massimo della pena, e cioè –
tenetevi forte, ché potrà cogliervi un brivido di orrore – la dimissione dallo stato clericale. Sul reato la Repubblica
Dominicana aveva già avviato un procedimento penale, però destinato a rimanere
lettera morta per il tempestivo richiamo di Wesolowski a Roma, e questo alla faccia
della «cooperazione con le autorità
civili» prescritta dalla Lettera
circolare della Congregazione per la Dottrina della Fede del 3 maggio 2011
(I, 2, e), uno di quei fluviali documenti ufficiali in cui l’ipocrisia vaticana ama sciacquarsi le palle. Già condannato in primo grado al massimo della pena, dunque, e in
attesa del processo d’appello, ma non soggetto ad alcun provvedimento di
restrizione della libertà, il Wesolowski, almeno fino a ieri. Nell’impossibilità di inquinare
le prove o di procurarsene di false perché era lontano migliaia di chilometri
da dove si erano svolti i fatti, nell’impossibilità di reiterare il reato
perché di sua spontanea volontà aveva deciso di aspettare il processo di secondo grado standosene buonin buonino in un convento dove al massimo poteva molestare i puttini che incorniciavano l’abside, nell’impossibilità di sottrarsi con la fuga al peggio del peggio che poteva essere al massimo una
conferma della sentenza, che da cittadino della Città del Vaticano non gli avrebbe
comportato ulteriore aggravamento della sua condizione, ecco che gli arriva tra
capo e collo il provvedimento che un mondo più tonto che tondo strombazza come arresto, e che
probabilmente consta del trasferimento da un convento a un altro convento. Evento storico, si strepita, come se tanta severità fosse inaudita, e parliamo del Vaticano, dove la pena di morte è stata formalmente abolita solo nel 2001. Un
botto mediatico di grande effetto, senza dubbio, e alla vigilia di un Sinodo che per
Bergoglio si annunciava pieno di incognite, comunque assai tosto. Ora potrà
affrontarlo molto più serenamente, forte del plauso generale che ammansirà chi
minacciava di rovinargli il giocattolo. E tutto questo – onestamente bisogna
riconoscerglielo – con un piccolo grande colpo di genio, che per giunta non gli
costa nulla. Perché, «in forza del suo
ufficio, ha potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla
Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente» (Codice di Diritto Canonico, can. 331), e
perché «non si dà appello né ricorso
contro la sentenza o il decreto del Romano Pontefice» (ibidem, can. 333, § 3), in culo ad ogni dettato procedurale: è l’esecutivo,
il legislativo e il giudiziario, tutto insieme, e nessun Parlamento, nessuna Corte Costituzionale,
nessun Tribunale del Riesame può rompergli il cazzo. Ad illustrare al mondo
che l’esser figlio di puttana dà i migliori risultati solo quando hai completamente
libere le mani. In questo, il laico parte sempre con l’handicap.
mercoledì 24 settembre 2014
martedì 23 settembre 2014
Due rilievi
Dopodomani
torna Servizio Pubblico e l’homepage
del suo website offre un’anticipazione della prima puntata della nuova stagione televisiva con un breve
estratto da Napoli senza casco, un
servizio firmato da Luca Bertazzoni, accompagnato dal seguente sommario: «Napoli piange ancora Davide Bifolco, ma a
meno di 20 giorni dalla morte del ragazzo niente sembra essere cambiato al
Rione Traiano: mentre non sono ancora chiare le dinamiche dell’accaduto – la
versione dei carabinieri e della famiglia non collimano – ragazzi di 13 anni
continuano a girare senza casco, patente e assicurazione. “Non abbiamo i soldi
per farla. È normale girare senza casco: lo Stato m’adda fa nu bucchin”», riprendendo in virgolettato la colorita espressione di uno degli indigeni.
Due rilievi mi sembrano opportuni. Il primo è relativo allo scarso rispetto per l’ortografia del dialetto napoletano. Infatti, «m’adda fa» («deve farmi») letteralmente sta per «ha da fare a me» («mi ha da fare»), e dunque «fa» vuole l’apostrofo che
indica il troncamento della sillaba finale («-re»): la forma corretta è «fa’» o
eventualmente quella pur impropria ma largamente invalsa con l’accento («fà»). Di
poi, quel «nu» manca dell’apostrofo di aferesi, infatti è articolo indeterminativo
(sta per «unu»), dunque la sua forma corretta è «’nu». Per finire, i sostantivi
che finiscono con vocale muta la esprimono graficamente con una «e». Insomma, la frase va
corretta in questo modo: «lo Stato m’adda fa’ ’nu bucchine» (volendo rendere in
dialetto anche «lo Stato»: «’o State m’adda fa’, ecc.»).
Il secondo rilievo, invece, è relativo allo scarso rispetto per lo Stato, che si traduce in una espressione verbale non meno impropria del suo corrispondente nella forma scritta, anche se ovviamente su tutt’altro piano. Qui, tuttavia, non c’è parere unanime sul come andrebbe corretta. C’è, per esempio, chi la correggerebbe portando il giovinastro in caserma per dargli una registratina alla fonetica spaccandogli incisivi, canini e premolari dell’arcata dentaria superiore, ma è scuola d’altri tempi. Prevale ultimamente altro indirizzo: i rappresentanti dello Stato lascino dire, limitandosi ad un contenuto segno di riprovazione, scrollando il capo, ma facendo attenzione a come lo si scrolla, sennò sarà pure biasimo, ma somiglierà di molto proprio a «’nu bucchine».
Il secondo rilievo, invece, è relativo allo scarso rispetto per lo Stato, che si traduce in una espressione verbale non meno impropria del suo corrispondente nella forma scritta, anche se ovviamente su tutt’altro piano. Qui, tuttavia, non c’è parere unanime sul come andrebbe corretta. C’è, per esempio, chi la correggerebbe portando il giovinastro in caserma per dargli una registratina alla fonetica spaccandogli incisivi, canini e premolari dell’arcata dentaria superiore, ma è scuola d’altri tempi. Prevale ultimamente altro indirizzo: i rappresentanti dello Stato lascino dire, limitandosi ad un contenuto segno di riprovazione, scrollando il capo, ma facendo attenzione a come lo si scrolla, sennò sarà pure biasimo, ma somiglierà di molto proprio a «’nu bucchine».
[...]
Tragica figura, quella di Gennaro Serra di Cassano, giacobino partenopeo di illustre casata e tra i protagonisti della sfortunata parentesi repubblicana del 1799 chiusa nel sangue dai lazzari nostalgici del loro re fellone. Diomede Marinelli scrive che prima di poggiare la testa sul ceppo in Piazza Mercato disse: «Ho sempre lottato per il loro bene e ora eccoli a festeggiare la mia morte». Figura tragica, dunque, ma anche ridicola.
TgLa7, 22.9.2014 - h. 20,18
Il
TgLa7 dà notizia che Genny ‘a Carogna è stato raggiunto da un provvedimento di
custodia cautelare per i fatti che l’hanno visto tra i protagonisti dei torbidi
che funestarono la finale di Coppa Italia del 3 maggio.
Non malaccio, il
filmato di Flavia Filippi. Riassume i fatti, dà conto degli sviluppi delle
indagini e chiude illustrando in sintesi l’idea che il magistrato s’è fatto di
quanto accadde a Roma, quel giorno, nei pressi dello Stadio Olimpico: né
martiri, né eroi, solo uno scontro tra due bande di delinquenti. Ancorché
implicito, v’è cenno a quanto è emerso nelle ultime settimane, e che oggi pare imporre
una rilettura assai diversa da quella che si diede a caldo, quando sembrò che si
fosse trattato di un agguato ai danni di inermi tifosi in trasferta: un
centinaio di ultras del Napoli, armati di bastoni e di coltelli, aggredirono quattro
o cinque ultras della Roma, armati di pistola, e ci scappò il morto.
Neanche
varrebbe la pena di star qui parlarne, se non fosse per il commento di Enrico
Mentana: «Il fatto più sconcertante è che questo interviene cinque mesi dopo i
fatti, per effetto di una decisione che riguarda la visione di alcuni filmati
che erano già a disposizione il giorno dopo i fatti, con accuse che almeno in
parte sono poco affini con le cose che si vedono dagli stessi filmati».
Non è
così, d’altronde è lo stesso servizio filmato ad aver dato conto del fatto che proprio
grazie alle indagini condotte in questi mesi si stia ora arrivando a un quadro diverso
da quello che appariva all’inizio. Ma poi non è Mentana stesso a riconoscere
che le accuse ora mosse non sono interamente supportate dalle prove video? Boh,
si sarà espresso male, anzi, ammettiamo con umiltà che saremo noi a non aver
capito.
Quello che invece è inammissibile: «Bisognerà avere molto presente che
si sta giocando col fuoco di ultras di due tifoserie particolarmente calde e
che alcune delle accuse sembrano, con tutto il rispetto, scritte da chi dell’ambiente
del calcio non ha mai visto nulla». Perché anche qui il lessico non è
particolarmente felice, ma non lascia adito a dubbio sul contenuto. Chi ha «scritto»
le accuse doveva forse tener conto del fatto che l’ambiente del calcio in qualche
modo toglie loro peso o, peggio, le fa diventare pretesto, se non causa, di ulteriori disordini? Meglio pensare che Mentana non fosse in serata.
lunedì 22 settembre 2014
Avranno imparato la lezione, uno pensa
Hanno
fatto così anche con Berlusconi, per vent’anni, e non è servito a niente. Avranno
imparato la lezione, uno pensa. Macché, anche stavolta pensano che a far perdere
consensi a un demagogo possa bastare il riuscire a coglierlo in contraddizione
con se stesso, dar prova che non sia uomo di parola, che non mantenga le
promesse, che cambi idea con la disinvoltura con cui una puttana passa da
cliente a cliente. Così con Renzi: twittava #enricostaisereno e due minuti dopo se
lo inculava, diceva che le Europee non fossero un test per il governo e ora fa
il gradasso come se quel 40,8% l’avesse preso alle Politiche, prometteva
miracoli nei primi cento giorni e ora ne pretende mille, diceva che l’art. 18
fosse un problema posto solo nel dibattito mediatico e ora lo mette al centro
del Jobs act…. Come se il paese avesse bisogno di un galantuomo a Palazzo
Chigi.
È che questi lodevolissimi spulciatori di bestioni sono sentimentalmente
democratici, convinti che alla gente faccia difetto solo la memoria. Magari. È che
alla gente fa difetto pure la memoria, ma soprattutto la buona coscienza. Ha
bisogno di un millantatore in cui credere, qualcuno che incarni i suoi stessi difetti
con l’autocompiacimento di chi li sappia vantarli come pregi, esaltandoli a carattere
nazionale. Mente? Lo farà a fin di bene, per mobilitare le forze della
speranza. Imbroglia? E chi non lo fa? Ma è possibile che mai nessuno noti nelle movenze, nei toni e nelle smorfie di questi Uomini della Provvidenza le stesse movenze, gli stessi toni e le stesse smorfie di chi applaude loro? Di questa gente sono semplicemente il medium. Fosse bastato rammentare a questa gente la
promessa di un milione di posti di lavoro e il meno tasse per tutti, quanto
sarebbe durato Berlusconi? Volevano credergli, nessuno avrebbe potuto togliergli
la malia del feticcio, se non chi avesse trovato il modo di rubargliela.
Anticipo
l’obiezione: possibile che la gente sia tanto in malafede? Non tutta, solo la
maggioranza. Ed è una maggioranza che rimane salda attraverso i
decenni, forte come l’ignoranza quando è contenta di se stessa, compatta pure
quando i flussi elettorali la descrivono liquidissima, senza soluzione di continuità anche quando si divide in due schieramenti: è l’informe e anonimo
maggioritario inetto alla libertà e alla responsabilità. Perché un paese come
questo dovrebbe salvarsi dal fallimento? Non sarebbe giusto, via.
domenica 21 settembre 2014
[...]
Uno
dei miei tanti limiti è il non riuscire ad arrivare neppure al secondo
capoverso degli articoli che trattano di quei grovigli di srl coi quali una
razza di individui a me aliena più dei Grigi di Zeta Reticuli riesce a cavar
soldi dall’erario pubblico, dagli enti previdenziali o da soci sprovveduti, poco
dentro o poco fuori il frastagliatissimo contorno del diritto societario. Con
le aziende della famiglia Renzi mi sono armato di pazienza e mi sono inflitto
una duegiorni di full immersion, recuperando tutto quello che ho trovato in
rete, sfogliando codici e gazzette ufficiali, leggendo sentenze e statuti,
arrivando a costruire pure il classico schemino coi rettangolini e le freccette.
Era solo un pretesto, l’ho capito quando ho messo tutto via avvertendo con
grave imbarazzo che in me prendevano forma Bouvard e Pécuchet con le facce di Lillo
e Travaglio: in realtà non mi interessava affatto capire quanto di illegale
possa esserci stato nella gestione di quegli affari, volevo solo metter naso
nel milieu, ficcar le mani nel letame dal quale è nato il fiore che oggi l’Italia
s’appunta in petto. E devo dire che non sono stato deluso nelle aspettative,
perché una cosa è lo studio di un carattere a partire da tratti biografici
tutto sommato aspecifici, un’altra è il coniugarli all’esempio che hai avuto in
tu’ babbo.
Un babbo che probabilmente uscirà pure pulito dall’inchiesta in
corso, ma che senza dubbio mostra tutta la patognomonica del maneggione di
provincia. Sembra quasi di vederli, padre e figlio, una ventina d’anni fa,
discutere di affari: embrione di una riunione del Consiglio dei Ministri. «La
Nazione esce col Rigoletto in allegato, ocché tu ci vedresti a strillonarlo, un
gobbo in abiti del Seicento o un Verdi in palandrana?». «Il
Verdi costa meno e fa la sua porca figura. Piuttosto c’è il negro che continua
a rompere il cazzo per la questione dei contributi, ocché si fa, glieli si paga
o all’Inps abbiamo qualche amico?».
sabato 20 settembre 2014
C’è complottismo e complottismo
C’è
complottismo e complottismo, la gamma è così ampia che rende pressoché
impossibile un loro inquadramento tassonomico, qualunque sia la ratio con la
quale si intenda procedere. Se infatti si decide di raggrupparli per le entità
cospirative responsabili del complotto (Savi di Sion, Massoneria, Cia, Gruppo
Bilderberg, Mafia, Servizi Deviati, P2, ecc.), la classificazione regge solo
fino a un certo punto, perché non di rado la teoria cospirativa ne contempla intrecci
sinergici. Così se il criterio prende a oggetto la struttura narrativa della
teoria, perché in essa, anche se variamente combinati, convergono sempre gli
stessi elementi. Né va meglio col cercare di assegnare ad ognuna di queste
costruzioni letterarie un differente grado sulla scala che dall’arbitraria
concatenazione di presunte coincidenze sale fino alla più malata delle paranoie,
perché l’attribuzione avrebbe giocoforza discontinuità di metodo. Sarà seccante
per le conseguenze, perché al buon senso non sfugge che una differenza dovrà
pur esserci tra la teoria di una Spektre che ci ficca microchip sottopelle e
quella che spiega l’avviso di garanzia a Tiziano Renzi come dispettuccio che la
magistratura ha voluto fare a suo figlio per vendicarsi del fatto che quello le
abbia scorciato le ferie, e che dev’essere pure una differenza bella grossa, ma
così stanno le cose: in entrambi i casi, la costruzione regge su un vizio di
argomentazione, e non è affatto detto che nel secondo caso sia in gioco un
fattore di natura epistemologica, mentre nel primo sia di tipo psichiatrico; in
entrambi i casi, la teoria regge sull’impossibilità di essere smentita se non
nel rigetto di un sospetto che non può produrre prove, e che tuttavia non può
essere rigettato, pena l’esser vittima consenziente del complotto, dunque in
qualche modo complice; in entrambi i casi, non c’è modo di escludere che c’entrino
pure i Rettiliani. Hai voglia a far presente che l’avviso di garanzia fosse nel
più ordinario dei calendari e che a darne notizia sia stato proprio l’indagato:
nulla potrà mai far vacillare il complottista dalla certezza che sei mesi fa il
babbo del Cazzaro sia stato fatto oggetto delle attenzioni dell’inquirente in
previsione che Palazzo Chigi licenziasse il decreto che la magistratura così
vuole ammazzare in culla. A sollevare anche soltanto un dubbio, non c’è dubbio,
si è giustizialisti. E per quanto un avviso di garanzia sia – appunto – un atto di garanzia in favore dell’indagato, non sospettare ci sia dietro una congiura fa perdere
punti alla reputazione di garantista, ammesso che uno ne abbia uno straccio. C’è coincidenza, dunque vi è nesso e, oplà, c’è il fatto. A negarlo, legittimo il sospetto che le toghe rosse vi
abbiano ficcato un microchip sottopelle.
giovedì 18 settembre 2014
[...]
Quand’anche
la Costituzione riconoscesse a un Presidente del Consiglio le prerogative di
cui Matteo Renzi è convinto di godere, l’arroganza con cui le vanta sarebbe
ugualmente irritante. Fatto sta che la Costituzione formale non gliele
riconosce, né il modo in cui è arrivato a Palazzo Chigi lo autorizza a vantarle in virtù di una Costituzione materiale che si vorrebbe attribuisca
al leader del partito o della coalizione che ha vinto le elezioni politiche i
poteri del Capo dello Stato in una repubblica presidenziale.
Mai
candidato al ruolo che ricopre, questo stronzo cagato a forza – non riesco a trovare
migliore definizione – non ha avuto altra investitura se non quella del
risultato che il suo partito ha conseguito alle elezioni europee, risultato che
in più di un’occasione, prima del voto, ha ripetuto non avrebbe avuto la valenza
di un test per il suo governo. Governo di cui ha avuto la guida – de plano –
perché intanto era diventato segretario del suo partito. Un partito al quale le
elezioni politiche avevano dato una maggioranza parlamentare zoppa, capace di
strisciare sulla pancia, pur di non tornare alle urne, solo rimangiandosi le
promesse fatte in campagna elettorale, prima tra tutte quella di non stringere
alcun tipo di alleanza con il centrodestra. È su questo mucchio di letame che
il gallo gonfia il petto e fa chicchirichì, pensando che sia lui a far sorgere
il sole.
Vuoto parolaio, presuntuoso come solo i veri ignoranti sanno essere, in un paese appena appena più decente potremmo al più vederlo correre da fermo in televendite di tapis roulant su Telefiesole 24. Ma il paese è nella merda ed è in congiunture come queste che il pallone gonfiato viene a galla a offrirsi come salvagente. Ipotiposi della mancanza di alternativa, faccia di cazzo e schizzetto di saliva, è il cadavere di turno che ci tocca aspettare sulla sponda del fiume.
Vuoto parolaio, presuntuoso come solo i veri ignoranti sanno essere, in un paese appena appena più decente potremmo al più vederlo correre da fermo in televendite di tapis roulant su Telefiesole 24. Ma il paese è nella merda ed è in congiunture come queste che il pallone gonfiato viene a galla a offrirsi come salvagente. Ipotiposi della mancanza di alternativa, faccia di cazzo e schizzetto di saliva, è il cadavere di turno che ci tocca aspettare sulla sponda del fiume.
martedì 16 settembre 2014
Quando un’azienda dal marchio prestigioso...
Quando
un’azienda dal marchio prestigioso scopre che sul mercato cominciano a girare copie
contraffatte dei suoi prodotti, all’inizio solitamente nicchia. È che all’inizio
il prodotto contraffatto è quasi sempre imitazione così sciatta da esaltare i
pregi di quello originale, che dalla copia trarrà dunque il vantaggio di
riaffermare quanto sia inimitabile, dando così ragione del suo prezzo, scoraggiando l’acquisto di un articolo senza dubbio assai meno costoso, ma di qualità
sensibilmente inferiore, che in più avrà la pecca di qualificare l’acquirente
come uno sprovveduto o, peggio, come la più patetica versione della fashion victim.
Chi
copia, tuttavia, impara a farlo sempre meglio e presto per l’azienda dal
marchio prestigioso comincia a diventare un problema serio, con gravi danni per
gli utili, ma soprattutto per l’immagine. Per quanto l’occhio esperto, infatti,
riuscirà sempre a distinguere il prodotto taroccato da quello originale, man mano
che il primo sarà sempre più simile al secondo, comincerà ad aumentare il
numero di quanti non riusciranno più a cogliere alcuna differenza di qualità
tra i due, e si convincerà che quello contraffatto, tutto sommato, sia un
affare. È solo allora che l’azienda dal marchio prestigioso comincerà a
sentirsi lesa e a farsi forte degli strumenti che ne tutelano i legittimi
interessi.
Non
siamo ancora a questo punto con la contraffazione di Giuliano Ferrara che Mario
Adinolfi smercia in provincia. È come con le prime Louis Vuitton false che
cominciarono a girare una trentina d’anni fa: al momento, solo a un occhio
estremamente ingenuo possono sfuggire le differenze tra barba e barba, obesità
e obesità, vocione e vocione, sicché tra l’eleganza di un fogliante e la
cafonaggine di un vogliolamamma corre ancora la stessa differenza che una volta
c’era tra i manici di vacchetta naturale e quelli in nappa lisciviata, tra le
borchie in ottone e quelle in alluminio indorato. È differenza che al momento
si coglie al primo colpo d’occhio, ma fossi in Ferrara comincerei a
preoccuparmi.
Sia
chiaro, l’antiabortista d’una certa classe continuerà a scegliere un Ferrara
originale, che peraltro col tempo acquista quei segni di usura che impreziosiscono
l’oggetto, ma si sa come va il mondo, e per una donna di classe che non rinuncerà
mai a una Louis Vuitton certificata ci sarà sempre una dozzina di sciacquette
che s’illuderanno di fare bella figura spendendo solo trenta euro dal primo vucumprà.
lunedì 15 settembre 2014
Inventing the Individual
Non
si può che esser grati a chi recensisca un saggio illustrandone la tesi in modo
chiaro, riportandone in virgolettato i passi salienti, meglio ancora se la
recensione sia integrata da un’intervista all’autore del volume a ulteriore
puntualizzazione di quanto potrebbe sollevare qualche perplessità, e il tutto venga
presentato al lettore senza alcun rilievo critico, anzi, con un tocco di
affettuosa benevolenza, perché se la tesi è cretina, e cretini gli argomenti
che dovrebbero sostenerla, ci si risparmia l’acquisto del mattone. Grazie a
Marco Ventura, dunque, per la sua recensione di Inventing the Individual di Larry Siedentop (La laicità è nata cristiana – la
Lettura, 14.9.2014).
Tesi
cretina, quella di Siedentop, ma non originale: «Abbiamo smarrito la genealogia della laicità liberale; soprattutto,
perché non ne comprendiamo più il fondamento cristiano». Così, «il principio liberale che il cristianesimo
ha inventato è ormai una fede nell’uomo senza fede in Dio». Com’è potuto
capitare? Semplice. È che «l’Umanesimo e
l’Illuminismo hanno cercato nel mondo greco-romano quella fondazione della
laicità liberale che stava invece nel Medioevo cristiano» e questo ha dato
vita a «due eresie liberali: da un lato
la libera scelta degenera in mercato senza giustizia, in interesse cieco
(eresia utilitarista); dall’altro l’individuo si isola, non va oltre i legami
familiari e amicali; evaporano lo spirito civico e l’impegno politico (eresia
individualista)». E così il liberalismo non è più cristiano, ahinoi.
È
evidente che con l’individualismo di John Stuart Mill e l’utilitarismo di Jeremy
Bentham siamo già al tramonto del liberalismo, che invece deve aver avuto il
suo momento di massimo fulgore con Bernardo di Chiaravalle e Tommaso d’Aquino. È
altresì evidente che il liberalismo contro il quale Gregorio XVI scagliava i
suoi fulmini non fosse vero liberalismo: «Assurda
ed erronea sentenza o piuttosto delirio – diceva – che
si debba ammettere e garantire a ciascuno la libertà di coscienza»; e
deprecava la «mai abbastanza esecrata ed
aborrita libertà della stampa»; e guai a «coloro che vorrebbero vedere separata la Chiesa dal Regno» (Mirari vos, 1832).
Un
po’ di chiarezza, dunque. Il liberismo – il vero liberalismo – ripudia la
centralità dell’individuo, al posto dell’utile mette il necessario, schifa la
separazione tra Stato e Chiesa, è contro la libertà di pensiero e di coscienza,
contro la libertà di stampa, contro l’istruzione di massa… Non bastavano gli
editorialisti di Avvenire? Avevamo
bisogno di Siedentop?
domenica 14 settembre 2014
[...]
Mica
dev’essere solo bella, Miss Italia 2014, Simona Ventura dice che deve avere
anche personalità. Sarà per questo che a una delle candidate chiede di tirar
giù il suo jolly, l’imitazione della scimmia. I giurati sembrano apprezzare, ma
la presentatrice sa che la ragazza può dare di più: «E adesso la scimmia in
calore». Poi, tra una dozzina d’anni, sarà una pagina di antologia televisiva.
[...]
L’insulsaggine
di certi autorevoli editorialisti si diluisce nei tweet di certi poveri
sfessati, o forse è il contrario, è l’insulsaggine di certi poveri sfessati che
viene distillata da certi autorevoli editorialisti, anche se non è escluso che
le due cose facciano sistema in un grande alambicco a serpentina che ricircola la
stessa insulsaggine, risciolta nella più tonta delle dabbenaggini dopo essere
stata concentrata nei più intensi dei sussieghi, e via di seguito.
Sia come
sia, una delle più insulse opinioni così correnti è che la politica italiana
dovrebbe pigliar consiglio dai moniti del papa – di questo papa – come se
questo papa non si limitasse a frasi fatte, insieme ridondanti della più
sciatta retorica e vuote di ogni minima sostanza. Roba che può suonare bene ad
ogni orecchio, come in realtà accade, ma totalmente priva del ben che minimo
contenuto che possa dirsi, non dico soluzione, ma per lo meno indirizzo.
Non un
programma, nemmeno il vago accenno di quella potrebbe essere la linea di un
progetto: altisonanti chiacchiere, magniloquenti frasi che sembrano non aver
altro scopo che cercare il consenso più ampio, perciò del tutto prive di quanto
potrebbe circoscriverlo e mobilitarlo su un’opzione. La guerra è una follia, e
chi non è d’accordo? La politica si deve occupare di chi muore di fame, e
trovami qualcuno che dica il contrario.
Cose così, sicché se in questo straparlare
di niente c’è ingerenza, e c’è, la contesa non è sul primato
nella gestione della cosa pubblica, ma sul consenso che alla stessa politica non
serve ad altro che ad autolegittimarsi. In questo, Chiesa e Stato sembrano
mostrare la stessa impotenza dinanzi ai problemi: la sola forza di cui sembrano
dotati è quella in grado di assicurare loro un congrua fidelizzazione di cieche speranze, nutrite esclusivamente di attesa.
Se socialismo e
liberalismo sono ormai parole vuote che la politica evita in nome di un
pragmatismo che non ha visione, né progetto, tutto speso a rappezzare buchi con
toppe che non reggono due mesi, la Dottrina Sociale della Chiesa a oltre un secolo dalla
sua nascita si mostra altrettanto inservibile. Doveva essere la terza via,
perciò nasceva ambigua, sospesa sulla composizione delle sue contraddizioni interne,
ma paradossalmente mostra i suoi limiti proprio dopo l’eclissi del sogno
socialista e una delle più acute delle cicliche crisi del capitale: non aveva uno specifico, e non ne era neanche il sincretico.
Politica e religione – o forse è meglio dire: classe politica e gerarchia ecclesiastica – sono ugualmente prive di soluzioni: a entrambe manca la capacità di cavarle fuori dalla dialettica dei conflitti che danno corpo ai problemi, sono costrette ad ignorarli per una vocazione al plebiscitario che non è in grado neppure di inventarsi un neocorporativismo. Perciò invitare
Renzi ad ascoltare le parole di Bergoglio è insieme la più crudele delle cattiverie e il più stupido dei consigli.
giovedì 11 settembre 2014
[...]
Abituati
a vederli litigare sempre, è bello vedere che una volta tanto Ferrara e Travaglio
siano d’accordo almeno su una cosa, e che il caso voglia lo scrivano in sincrono,
lo stesso giorno, con varietà d’accento quasi impercettibile, perché di Berlusconi
uno scrive che Renzi sia l’«erede», l’altro
il «pupillo», ma sbagliano entrambi. È
che il Berlusconi dei bei tempi andati – per opposte ragioni, è ovvio – manca
molto a entrambi. Per meglio dire, manca molto ai loro lettori, ed entrambi, da
seri mestieranti, dei loro lettori si sforzano d’essere al meglio l’anima e la
voce. Probabilmente, poi, sapranno pure non sia affatto vero, o almeno lo intuiranno, ma per oggi i loro aficionados
potranno consolarsi d’aver trovato in pagina la suggestione di una continuità come di vertebra che segue a vertebra lungo il groppone della stessa bestia. In fondo sono giornalisti, di più non si può pretendere.
Cazzate,
Renzi sta a Berlusconi come la silifide sta alla blenorragia. Le trovi nello stesso posto, analoghe le cause che ne hanno favorito l’insorgenza, su entrambe hanno lo stesso effetto i derivati della penicillina, ma l’agente patogeno è diverso, e diverso è il meccanismo l’azione, diverse le possibili complicanze sul medio e sul lungo periodo, diversi gli esiti. E la sifilide è senza dubbio peggio.
Pietrangelo Buttafuoco, Buttanissima Sicilia, Bompiani 2014
A
dispetto del titolo, questa non è una recensione. Il libro di Pietrangelo
Buttafuoco mi offre solo l’occasione per vergare a matita, a margine del brano
riprodotto qui sopra (si tratta di ciò che scrisse Basilio Puoti nel 1838), «difficilissimo,
ma possibile».
mercoledì 10 settembre 2014
E tuttavia ogni tanto un troglodita...
Perché
ad affermarlo è persona autorevole, perché è opinione largamente accreditata,
perché si è sempre fatto così, perché a fare diversamente c’è da temere gravi conseguenze,
perché a consentirlo si aprirebbe la strada a ben peggio… Oppure – tutto in uno
– perché non ho argomenti validi. Però dalla mia ho le ragioni del senso comune,
che sono persuasive con la forza che rigetta ogni obiezione come diabolica o
perversa, e te le sbatto in faccia come leggi di Dio o della Natura, che poi
tutto sommato è lo stesso.
Più
o meno è questo il profilo retorico del conservatore. Difficile trovarne uno che
si attardi troppo fuori dal contorno: quando capita, è di poco, e per poco,
perché subito vi rientra. Lì fuori c’è la logica argomentativa, c’è il rischio
di rompersi le ossa. Parliamo di fecondazione assistita? E che differenza c’è
tra un bambino concepito secondo Natura e uno contro Natura? Che differenza c’è
tra il desiderio di avere un figlio, e averlo come Dio comanda, e lo stesso
desiderio se frustrato da Dio e soddisfatto come a Dio non piace? Che
differenza c’è tra l’essere padre biologico e padre adottivo al netto del comportarsi
da padre? Che differenza c’è tra avere un padre e una madre o due genitori
dello stesso sesso?
Meglio
tenersi lontano da questioni tanto insidiose, si potrebbe correre il rischio di
dover ammettere che un bambino è un bambino quale sia il modo in cui è stato
concepito, che la riproduzione sessuata è solo un mezzo e non un fine, che non
c’è lo straccio di uno studio scientifico serio che segnali differenze nello
sviluppo psicologico di un bambino allevato in una famiglia omoparentale
rispetto a uno che è cresciuto in una famiglia tradizionale. Sarebbe imbarazzante,
meglio andare sul sicuro. La Chiesa, che è istituzione saggia e illuminata, è
contraria. La gente non è ancora preparata, sarebbe come toglierle certezze da
sotto il culo. Diagnosi preimpianto, ma poi non è che torna Hitler? E l’eterologa
non legalizza di fatto le corna? Sillogismi da trogloditi, ma incisivi. E tuttavia
ogni tanto un troglodita s’azzarda a metter naso fuori dalla sua comoda caverna
di fallacie e ci prova…
«Va garantito – scrive Marco Politi (Il Fatto Quotidiano, 10.9.2014) – il diritto preminente del concepito di sapere sempre “da dove è nato”. Far dipendere questo diritto primario dal “mercato”, cioè dall’andamento della domanda e dell’offerta delle donazioni di gameti (tolto l’anonimato, si dice, diminuiscono i donatori) appare semplicemente impensabile dal punto di vista dei diritti umani». E come lo garantisci, grandissima testa di cazzo, a quel 10-15% di bambini il cui Dna paterno non appartiene a quello che la mamma ha sempre assicurato loro essere il babbo? Fai uno screening di massa e torturi tutte le mamme che abbiano concepito con un altro uomo quei poveri bambini a quali s’è negato questo diritto umano perché rilevino chi sia il vero padre biologico?
«Va garantito – scrive Marco Politi (Il Fatto Quotidiano, 10.9.2014) – il diritto preminente del concepito di sapere sempre “da dove è nato”. Far dipendere questo diritto primario dal “mercato”, cioè dall’andamento della domanda e dell’offerta delle donazioni di gameti (tolto l’anonimato, si dice, diminuiscono i donatori) appare semplicemente impensabile dal punto di vista dei diritti umani». E come lo garantisci, grandissima testa di cazzo, a quel 10-15% di bambini il cui Dna paterno non appartiene a quello che la mamma ha sempre assicurato loro essere il babbo? Fai uno screening di massa e torturi tutte le mamme che abbiano concepito con un altro uomo quei poveri bambini a quali s’è negato questo diritto umano perché rilevino chi sia il vero padre biologico?
martedì 9 settembre 2014
[...]
Sarà
la magistratura a chiarire cosa sia realmente accaduto a Rione Traiano, ma fin
d’ora un fatto è certo: quello sul petto del cadavere è un foro d’entrata. Questo
smentisce chi ha dichiarato fosse sul posto quando il proiettile è partito dall’arma,
affermando che la vittima volgesse le spalle a chi ha sparato. Si tratta del
giovane che s’è spontaneamente presentato alle telecamere del Tg2 per dire
fosse lui il terzo uomo in sella al motociclo cui i carabinieri avevano
intimato l’alt, non il latitante di cui questi erano sulle tracce. È evidente
che quanto ha detto non trova riscontro, e questo solleva più d’un dubbio sulla
sua versione dei fatti.
Era davvero in sella a quel motociclo, insieme alla
vittima e al pregiudicato che di lì a poco sarebbe stato arrestato? Può darsi,
ma ha detto anche di essere subito scappato via quando la gazzella dei
carabinieri è finalmente riuscita a interrompere la loro fuga, sicché è
molto probabile non fosse nelle immediate vicinanze della scena sulla quale
andava consumandosi il tragico evento: e allora perché inventarsi di sana
pianta un dettaglio tutto sommato irrilevante al fine di addossare l’intenzionalità del gesto al
carabiniere che ha sparato, e comunque smentibile in fase peritale?
Domanda che si pone anche nel caso fosse in
prossimità del luogo in cui sono accaduti i fatti, anche se non su quel motociclo,
sul quale dunque è assai probabile ci fosse davvero il latitante poi resosi
irreperibile. Sostituirsi a lui alleggerirebbe di poco la sua posizione nei confronti della giustizia, ma appesantirebbe quella del carabiniere dalla cui arma è partito il colpo: alla intenzionalità di uccidere, che a Rione Traiano già pare essere prova provata, si aggiungerebbe l’errore di persona, che renderebbe due volte colpevole chi ha sparato.
La più inquietante delle possibilità, tuttavia, è la terza, cioè che fosse
altrove, e qui sulle ragioni che l’avrebbero spinto a dichiarare il falso s’aprirebbe
un ricco ventaglio di ipotesi, ma tutte avrebbero in comune con le altre due l’intento
di caricare di infamia una volontarietà dell’omicidio, che peraltro è tutta da
dimostrare. Intento che in tutti e tre i casi, però, rivela l’ostilità già più volte
dimostrata nei confronti delle forze dell’ordine a Rione Traiano.
Come
rappresentanti di quello Stato al quale è fin troppo comodo addebitare più
colpe di quante ne abbia, per liberarsi delle proprie? Come il solo e in ogni
caso inefficace presidio contro la delinquenza organizzata che su quel territorio
esercita un potere pressoché incontrastato? C’è da presumere si tratti di
entrambe le cose, di fatto contro la delinquenza che spadroneggia in quel quartiere non s’è mai vista neanche l’ombra dell’indignazione sollevatasi in questi giorni.
lunedì 8 settembre 2014
«L’istituzione del Dalai Lama ha fatto il suo tempo»
Il
principio teocratico ha un tratto comune nei monoteismi: chi detiene il potere
è venerabile quanto non altri, ma della sovranità di Dio è soltanto lo
strumento. Non così nel buddhismo, che d’altronde è «religione senza Dio», e
per il quale, dunque, anche parlare di teocrazia è formalmente improprio: non è
l’incarnazione di un Dio, certo, ma il Dalai Lama non è neppure semplicemente massima
autorità spirituale e massima autorità politica insieme, perché il suo corpo è il
medium attraverso il quale è lo stesso Buddha a rivelarsi. Con tutte le riserve
d’obbligo in un raffronto che già in premessa è fortemente asimmetrico, potremmo
concludere che la teocrazia ebraica, quella cristiana e quella islamica siano forme
di governo che affidano al sovrano il ruolo di ponte tra immanenza e trascendenza,
che in quella del buddhismo tibetano, invece, trovano coincidenza nello stesso
Essere che migra di corpo in corpo, e di epoca in epoca. Potrà sembrare
differenza di poco conto, ma non lo è. Nei monoteismi, infatti, il teocrate è
mera variabile del modo in cui Dio dichiara la sua sovranità. Al contrario, quando
il buddhismo si dà in forma teocratica – è questo il caso del buddhismo
tibetano – il teocrate è insieme Kundun e Kyabgon, presenza e salvezza. La
sostanza di questa differenza sta nella portata dell’asse dinastico, che attraverso
il Dalai Lama non si limita a trasmettere un rapporto privilegiato con Dio
come avviene lungo il succedersi di patriarchi, papi e califfi, ma esprime una
continuità dello stesso Bodhisattva, l’Essere che illumina, guida e salva. Differenza
che si esalta nel momento in cui la forma teocratica vien meno: mentre nei
monoteismi la sovranità di Dio sul mondo è solo costretta a esprimersi in modo
più indiretto (privata del potere temporale, l’autorità spirituale continua ad
ispirare la norma mondana), nel buddhismo tibetano il mondo viene ad essere
privato della stessa fonte di sovranità del trascendente sull’immanente.
È lettura
scorretta di cosa implichi l’annunciata rinuncia del 14° Dalai Lama a
reincarnarsi nel 15°? Può darsi, infatti anche metterla in questo modo – dire che
annuncia l’interruzione della linea dinastica – può darsi sia scorretto. Ma poi
può davvero deciderlo? Voglio dire: la dimensione immanente che muove a tale
decisione – perché, vedremo, la sua è una decisione che prende le mosse da
elementi di natura tutta contingente – può condizionare quella trascendente,
che la informa, al punto da modificarne la natura? Anche qui può darsi che a
sollevare la questione sia il non essere all’interno di quell’universo
religioso e culturale, ma – proprio perciò, dico – Tenzin Gyatso non avrebbe il
dovere di spiegare meglio a chi ne è fuori, e contestualmente al suo annuncio, come
sia possibile sul piano dottrinario che lo sguardo compassionevole del Buddha
si ritragga dal mondo?
Niente di tutto questo. L’intervista rilasciata a Die
Welt non dà ragguagli a proposito. «L’istituzione
del Dalai Lama ha fatto il suo tempo», dice, con ciò lasciando intendere
che, quando Altan Khan la istituì, nel 1578, Sonam Gyatso non aveva alcun
potere di dichiararsi 3° Dalai Lama, investendo della carica i suoi due
predecessori. «Così finiscono anche quasi
cinque secoli di tradizione Dalai Lama», dice, e in questo modo dà da
intendere che Gendun Drup (1391-1474) e Gendun Gyatso (1475-1543) non fossero
davvero il 1° e 2° Dalai Lama: in pratica, l’istituzione non veniva a
riconoscere una realtà di fatto, ma di fatto la creava, alla faccia del primato
del trascendente sull’immanente. Tutto normale per chi pensa che anche il buddhismo,
al pari di ogni religione, sia una sovrastruttura, ma qui a dirlo è chi, fin
quando è stato sovrano in Tibet e poi sovrano dei tibetani in esilio, vestiva
la prerogativa come 14° reincarnazione del Cenresig Wangchug. E dire, oggi, che «il buddismo tibetano non dipende da un solo
individuo» e che tutto sommato di un Dalai Lama i tibetani possono fare a
meno, perché «abbiamo una buona
organizzazione della quale fanno parte monaci e studiosi altamente qualificati»,
non è un delegittimare l’istituzione, sottraendogli la sua dichiarata natura
trascendente? E da cosa mai gli viene il potere di non reincarnarsi in un
successore se la progressione di cui non è che un segmento in lui può trovare solo, giocoforza, l’occasione
immanente? Sbagliarono a considerarlo reincarnazione di Thubten Gyatso, 13°
Dalai Lama, o il Buddha della Compassione è reale quanto Cappuccetto Rosso?
Postilla
Come sempre, quando la fede è forte, torna spassoso saggiare quanto le ritorna. Qui, a campione, un buddhista coi controglioni (da His Holiness the Dalai Lama di Deborah Hart Strober e Gerard S. Strober, in ital. presso Armenia, 2006 - pag. 203).
Postilla
Come sempre, quando la fede è forte, torna spassoso saggiare quanto le ritorna. Qui, a campione, un buddhista coi controglioni (da His Holiness the Dalai Lama di Deborah Hart Strober e Gerard S. Strober, in ital. presso Armenia, 2006 - pag. 203).
domenica 7 settembre 2014
[...]
«Avant de mourir, je
vais protester contre cette invention
de la faiblesse et de la vulgarité, et
prier mes lecteurs
de s’attacher à déstruire mes observations
et mes
raisonnemens plutôt que d’accuser mes maladies»
Lettera
a Luigi de Sinner, 24 maggio 1832
Un
giorno – siamo ai primi dell’Ottocento – ad Antonio Fortunato Stella, «stampatore
in Milano», viene l’idea di dare alle stampe un’edizione dell’opera omnia di Cicerone
che abbia apparato critico da renderla imperitura e affida a Niccolò Tommaseo
il compito di stendere le note per le Orazioni. Quando gli viene consegnato il
lavoro, ha qualche dubbio sulla tesi che serpeggia in esso – Cicerone sarebbe
retore scarsuccio e pessimo avvocato – sicché manda il manoscritto a Giacomo Leopardi
perché gli esprima un parere, ma senza dirgli chi ne sia l’autore, per discrezione.
Leopardi lo legge e scrive a Stella che è robaccia, zeppa di madornali errori
che rivelano gravi lacune nella conoscenza del latino. Qui la discrezione di
Stella accusa un inspiegabile cedimento: fa leggere la lettera ad alcuni
letterati, che si dicono d’accordo con le osservazioni di Leopardi, e allo
stesso Tommaseo, che comprensibilmente non la prende affatto bene. Potrà
vendicarsi solo molti anni dopo, quando ormai ha acquistato fama e prestigio: i
circoli culturali di tutta la penisola fanno propria la sua tesi che il
pensiero di Leopardi trovi ragione solo nel fatto che è basso, gobbo e
malaticcio. Tesi che a 177 anni dalla morte di Leopardi riaffiora ancora, anche
se raffinata in morbide insinuazioni, dalle pagine che ci danno notizia dell’edizione
inglese dello Zibaldone o dell’uscita del film di Mario Martone. Il che spiega perché
Tommaseo abbia potuto acquistare fama e prestigio: conosceva gli italiani, sapeva
che avrebbero afferrato al volo la maldicenza per risparmiarsi la fatica di
fare i conti con la vertiginosa profondità di Leopardi.
Non ha importanza chi
riprenda, oggi, la maldicenza di Tommaseo: carte che ci arrivano come se non
avessero un nome in calce, come il manoscritto che Stella inviò a Leopardi.
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