Due
schizzetti di fango sul clergyman di Sua Eminenza fanno lo stesso effetto delle
cinque piaghe sul corpo di Nostro Signore.
sabato 11 ottobre 2014
venerdì 10 ottobre 2014
L’orrore non sei tu
L’orrore
non sta nel fatto che vai allo stadio in branco, portandoti da casa spranghe e
coltelli, cercando la rissa, ma nel fatto che, se la rissa c’è e ci lasci la
pelle, tua madre dice che sei morto da eroe.
L’orrore
non sta nel fatto che vai in motorino alle tre di notte, senza casco, senza
patentino, senza assicurazione, e sul sellino stai tra un pregiudicato e un
latitante, e non ti fermi all’alt dei carabinieri, ma nel fatto che, se accidentalmente
parte un colpo e ci resti secco, tua madre dice che eri un pezzo di pane e chi
ti ha ucciso è un criminale.
L’orrore
non sta nel fatto che tormenti un ragazzino perché è ciccione e gli infili un tubo in culo fino a sfondargli le
viscere, ma nel fatto che tua madre dice che
scherzavi e che non è giusto tu stia in carcere mentre chi insieme a te sfotteva il poveretto è a piede libero.
L’orrore
non sei tu, è tua madre. È lei che ti ha fatto diventare quello che sei:
vittima o carnefice, sei un mostro, perché partorito da un mostro e allevato da
un mostro.
Un paese leader entro vent’anni
L’obiettivo
è quello di diventare un paese leader entro vent’anni, dice. Da 100 giorni (24 febbraio)
a 1.000 (1 settembre) a 7.300 (10 ottobre): la logica matematica vorrebbe che
il prossimo annuncio sia tra 12 giorni (padroni del mondo entro il 2050) e quello successivo
il 19 ottobre (la conquista della galassia nel 2055).
giovedì 9 ottobre 2014
La differenza tra un ignorante e un cretino
Che
il cuore non sia la sede dell’anima, il centro che dà vita ad emozioni e
sentimenti, l’organo che produce affetti, era già chiaro da molto tempo prima
che William Harvey dimostrasse che è solo una pompa idraulica (Exercitatio anatomica de motu cordis et
sanguinis in animalibus, 1628), e tuttavia, quando, tre secoli e mezzo
dopo, Christiaan Barnard effettuò il primo trapianto cardiaco (Cape Town, 1967),
non mancarono i cretini che sollevarono lo stesso problema che, mutatis mutandis, è sollevato da un
articolo apparso oggi su Il Foglio a
commento della notizia del prima gravidanza giunta regolarmente a termine in un
utero trapiantato: lì a chiedersi quanta coscienza e quanta sensibilità
passassero dal donatore al ricevente, qui a domandarsi «di quale madre è figlio il bimbo», se «di quella che se lo è portato dentro per otto mesi o della donna cui
apparteneva l’utero trapiantato».
Ci si potrebbe limitare a definirla ignoranza, ma è da preferire la definizione di cretinaggine, tanto più ottusa in quanto la questione sarebbe posta dal fatto che «la donatrice vive ed è presumibilmente vegeta, altrimenti l’équipe medica che ha realizzato l’eccezionale intervento non avrebbe scelto, per il trapianto, il suo utero». Se è questo a sollevare il problema, è da intendersi che la questione non si porrebbe, se l’organo, ancorché in buone condizioni per poter essere trapiantato, fosse stato prelevato da un cadavere. In fondo non è affatto raro, se si interviene con la dovuta tempestività, che si riesca a estrarre un feto vivo e vitale dall’utero di una gravida deceduta da poco: ancorché morta, quella non è sua madre? Ne consegue, di converso, che avrebbe senso porsi la questione di chi sia l’urina che fuoriesce dall’uretra di A, cui B abbia donato un rene, se quest’ultimo è vivo: l’urina sarebbe senza dubbio di A, se B è morto, sennò chissà, potrebbe anche essere di quest’ultimo, se ancora vivo.
È proprio questo esempio a indurci a preferire la definizione di cretino a quella di ignorante per chi scrive stronzate del genere: in mancanza delle adeguate conoscenze di anatomia e di fisiologia, un ignorante tace; sull’ignoranza, invece, il cretino costruisce un dilemma etico e se lo rappresenta di ardua soluzione, se non addirittura aporetico.
Ci si potrebbe limitare a definirla ignoranza, ma è da preferire la definizione di cretinaggine, tanto più ottusa in quanto la questione sarebbe posta dal fatto che «la donatrice vive ed è presumibilmente vegeta, altrimenti l’équipe medica che ha realizzato l’eccezionale intervento non avrebbe scelto, per il trapianto, il suo utero». Se è questo a sollevare il problema, è da intendersi che la questione non si porrebbe, se l’organo, ancorché in buone condizioni per poter essere trapiantato, fosse stato prelevato da un cadavere. In fondo non è affatto raro, se si interviene con la dovuta tempestività, che si riesca a estrarre un feto vivo e vitale dall’utero di una gravida deceduta da poco: ancorché morta, quella non è sua madre? Ne consegue, di converso, che avrebbe senso porsi la questione di chi sia l’urina che fuoriesce dall’uretra di A, cui B abbia donato un rene, se quest’ultimo è vivo: l’urina sarebbe senza dubbio di A, se B è morto, sennò chissà, potrebbe anche essere di quest’ultimo, se ancora vivo.
È proprio questo esempio a indurci a preferire la definizione di cretino a quella di ignorante per chi scrive stronzate del genere: in mancanza delle adeguate conoscenze di anatomia e di fisiologia, un ignorante tace; sull’ignoranza, invece, il cretino costruisce un dilemma etico e se lo rappresenta di ardua soluzione, se non addirittura aporetico.
Son giorni, e che giorni
Dal
definire «scandaloso concubinato» il matrimonio, quando non celebrato con rito
religioso, al trovare «elementi di santità» in un’unione di fatto, chiudendo un occhio sul peccato mortale dei rapporti sessuali extramatrimoniali, sono passati
solo 60 anni, che nella vita di un’istituzione vecchia di due millenni equivale
al tempo che in un comune mortale intercorre tra il decidere di fare una
tonante scoreggia per terrorizzare il mondo e il ritrovarsi cagato addosso per
aver sbagliato calcolo.
mercoledì 8 ottobre 2014
martedì 7 ottobre 2014
Gli sparvieri di Susanna
Sull’altrui
sfera sessuale io seguo alcune regole assai elementari, vedete voi se possano essere condivisibili: (1) è materia che non va
neanche sfiorata, quando su di essa la persona interessata mostri di voler
mantenere il riserbo; (2) è materia che può essere oggetto di discussione, quando sia la persona interessata a sollecitarla esplicitamente, ma avendo ben presente
che su propensioni, attitudini e preferenze c’è ben poco da discutere, ché
ciascuno ha le sue ed è sacrosanto se le tenga; (3) è materia che può arrivare ad
essere occasione di polemica, anche aspra, quando la persona interessata abbia fatto
cadere almeno in un’occasione il velo della riservatezza, rilevando le proprie propensioni,
le proprie attitudini e le proprie preferenze, per
poi criticare quelle altrui, per giunta non così diverse dalle sue. È nel
rispetto di queste semplici regolette che affronto il commento del corsivo che
Susanna Tamaro firma sulla prima pagina di Avvenire,
oggi, martedì 7 ottobre, relativamente al punto in cui afferma di sentirsi
svolazzare in testa gli «sparvieri del
gender».
Ora, se un dato è incontestabile in chi sostiene la gender theory, è che per lui il genere
non è faccenda cromosomica, ma psicologica: culturale assai più che biologica. Bene,
giusto o no che sia, non si capisce bene allora cosa Susanna Tamaro abbia da temere da chi ritiene
vorrebbe – scrive – «sequestra[rla], sottopo[rla] a interrogatori, avvia[rla] a
un percorso di precisa definizione del [su]o stato interiore». Tutto il contrario: a chi sostiene la gender theory non passa neanche per l’anticamera
del cervello di contestarle il fatto che da bambina – scrive – «detesta[sse] cordialmente tutto ciò che ricordava la femminilità, ma non per questo
ama[sse] quello che esaltava la
mascolinità» o che «gioca[sse] alla guerra e a calcio obtorto collo, perché
er[a] circondata da maschi, ma [che]
la violenza delle pistolettate e delle pallonate
in faccia [le] facesse altrettanto
orrore dei pizzi», tanto meno contestarle il fatto che «la diversità che chiedev[a] [fosse] legata a[l] poter indossare i pantaloni,
[all’]avere i capelli corti, [all’]aspirare a mestieri allora proibiti alle donne».
Tutte cose che fanno drizzare i capelli in testa a chi da una femmina, come
biologicamente Susanna Tamaro è senz’alcun dubbio, pretenderebbe propensioni,
attitudini e preferenze da femmina.
Capelli che senz’alcun dubbio dovranno già
essergli drizzati in testa anche nel caso abbia letto l’intervista che ella concesse
alcuni anni fa a Vanity Fair: in
quella occasione, senza essere sopposta ad alcun sequestro, rivelava di «viv[ere] un’amicizia amorosa con una donna da 18 anni», dopo aver già avuto,
nel corso dell’adolescenza, analoga esperienza con una donna «con la quale pensav[a] di costruire la [su]a vita», però finita male, per lasciar spazio a un uomo dal quale
ella si allontanò appena questi le fece intendere di voler avere dei figli («l’idea di avere un bambino mi dava
un senso di profonda inquietudine»). Cose che non fanno né caldo né freddo a
chi sostiene la gender theory, chissà
a chi è abbonato ad Avvenire.
lunedì 6 ottobre 2014
«Di natura granitica, irta di guglie e creste…».
In
attesa che la montagna partorisca il topolino, c’è un po’ di gente che accorre
alle sue pendici. Neanche tanta, in verità, comunque più di quanta se ne veda
di solito. Montanari, per lo più. Gente del luogo, solitamente rintanata nelle
baite o nelle case a valle, che neanche penseresti abitate quando la montagna
fa la montagna e non decide di far finta di essere un vulcano. Ma anche
semplici curiosi attratti dai sordi brontolii delle sue viscere, come ogni
tanto accade, come oggi. E turisti col binocolo a tracolla e seggiolino
pieghevole. E geologi e sismologi col loro armamentario. E qualcuno che era di
passaggio e ha deciso di fermarsi. Immancabile la troupe televisiva coll’aeroplanino
che volteggia e il cronista che cita brani da Wikipedia: «Di natura granitica, irta
di guglie e creste, la cima supera i duemila metri…».
Così,
più o meno, il sinodo sulla famiglia. Date ascolto a chi conosce un pochino
quell’inutile ingombro di pietra e di ghiaccio: non ci sarà eruzione, né terremoto,
non ci sarà valanga, né slavina. La pastorale familiare – così vien detto il loro
ficcar naso tra il solco balanoprepuziale di un marito e il fornice vaginale
posteriore di una moglie – non cambierà di una virgola, tutto si risolverà nel
mettere un asterisco accanto alla parola divorzio, scrivendo a pie’ di pagina
che, se un matrimonio cattolico fallisce, vuol dire che non era un matrimonio
valido, dunque può essere considerato nullo: pentitevi, teste di cazzo, e vi si
darà l’ostia. Andate in letizia, ordunque, e levate in alto il giubilo, ché la
Chiesa v’ha ammollato una gran bella mappazza di misericordia.
Non in quanto juventino
Di
calcio capisco poco o niente, quindi non m’azzarderò a fare alcun commento
sulla partita Juve-Roma di cui tanto si discute. A naso, tuttavia, senza aver
visto neanche un video relativo alle azioni di gioco che sollevano proteste
sulla conduzione dell’arbitraggio, senza aver buttato neanche un occhio alle consuete
rubriche sportive del lunedì, direi si possa dar ragione a chi afferma che la
Juve s’è rubata tre punti. Me ne dà motivo l’essere andato a controllare su Camillo cosa si fosse affrettato a
scrivere Christian Rocca, e aver visto che non aveva scritto niente. Non in
quanto juventino, ma in quanto Christian Rocca, penso si tratti di un dato dirimente.
[...]
Se
ancora può avere un senso non mandare a cagare il dio che ti chiede di portare
il pupo su in montagna per sgozzarlo offrendoglielo in sacrificio, e
obbedirgli, perché in fondo anche la paranoia ha un senso, che è quello di
offrirci costruzioni letterarie in cui, a piacere, goderecciamente rabbrividire
o amarognolamente sghignazzare, si fa fatica a trovarne uno, che almeno torni
buono per costruirci una barzelletta, nel mettersi in ginocchio davanti a un
sinodo di vescovi implorando lumi sul come far la moglie e la mamma, per giunta
premettendo che qualunque cosa dicano andrà bene, per principio. A chi lo vai a
chiedere, povera donnina, a chi del matrimonio e della maternità ha esperienza solo
per sentito dire, e nel chiuso di un confessionale? Ma perché ti sei sposata,
perché hai messo al mondo dei figli, se non sei in grado di assumerti la
responsabilità di decidere in prima persona? E vabbe’ che ti senti pecorella,
ma in certe cose anche gli ovini hanno una certa indipendenza.
domenica 5 ottobre 2014
Caenorhabditis (elegans)
Non
fosse che la nomenclatura binomiale gli dà l’epiteto di elegans, il Caenorhabditis sarebbe
ottima metafora dell’IdV al suo ultimo stadio: poche cellule, pochissimi neuroni,
difficile capire dove sia la testa e dove sia la coda, striscia, striscia e muore.
Riuniti a Sansepolcro, a 16 anni dalla fondazione del partito, i pochi rimasti
decidono di offrirsi al Pd. Com’è tipico di tutti i nematodi fasmidari, l’organulo
che consente all’animaletto di relazionarsi all’ambiente corrisponde al culo.
A spese di tutte le relazioni intermedie
Al
momento, il vertiginoso calo degli iscritti al Pd viene letto da gran parte dei
commentatori interni ed esterni al partito come la mutazione genetica subita da
un corpo militante che fino a ieri era tra i più fidelizzati. Inevitabile,
dunque, che si discuta in qual misura il dato sia da attribuirsi alla
segreteria di Matteo Renzi, perché pare ovvio che una correlazione debba
esservi, con l’ovvia discordanza nel giudizio di merito che è un dato costante
quando si valuta quel che si attribuisce a una personalità dal forte tratto
divisivo: di qua, chi pensa che l’emorragia di tessere sia il segno di una
grave crisi del partito come comunità di uomini e donne condividenti una pur
labile identità ideologica (ma sarebbe più corretto dire etico-estetica); di
là, chi pensa che questo, tutto sommato, non sia affatto un dato negativo in
vista della nascita di un «partito della nazione», fluido in superficie, ma in
fondo assai più solido, proprio perché includente su un programma, piuttosto che
su un modello antropologico. Può darsi che questo sia vero, in ogni caso non
può essere interpretato come fenomeno che nel Pd trova la testa, quanto la
coda: il calo degli iscritti ai partiti politici italiani è un dato costante e
trasversale da almeno trent’anni. È che l’Italia non era fatta per il
maggioritario, ancorché imperfetto: un bipolarismo basato sulla competizione ad
acquisire consenso dal centro non poteva che accelerare il processo di
deideologizzazione dei partiti tradizionali, d’altronde in atto già dagli anni
Ottanta, portando alla personalizzazione della politica, prima, e alla
confluenza dei due opposti schieramenti al venir meno di uno stabile equilibrio
tra i carismi delle leadership, poi. Era un sistema destinato a erodere
progressivamente le ali estreme per venire a creare un unico polo centripeto,
lasciando all’opposizione solo l’astensionismo elettorale. Si verifica così un’inversione
dello schema che ha caratterizzato la Prima Repubblica, quando l’astensionismo aveva
tratti prevalentemente qualunquistici e il voto era a forte impronta ideologica
(ma sarebbe più corretto dire etico-estetica): al centro va confluendo tutto
ciò che non ha più un colore, mentre ciò che residua delle vecchie culture
politiche si autoemargina, e questo è tanto più evidente nella quota che ne
rappresentava la militanza. Su quanto questo implichi in termini di
riconversione del potere, si può lasciare la parola a chi ha ben descritto il fenomeno (Colin Crouch, Postdemocrazia, Editori Laterza 2003 - pagg. 79-81):
venerdì 3 ottobre 2014
«Si ha ragione di voler avere sempre ragione»
Non
si ha ragione se non di qualcuno. È in
questa constatazione, ovvia solo quando sia palese il carattere asservente
della persuasione, che sta il riconoscimento della natura bellica della
retorica, d’altronde in premessa ad ogni sua trattazione sistematica. Anche il
folle che parlotta da solo combatte contro un avversario, ancorché immaginario,
anche il più duro cammino del saggio verso un’affermazione che egli possa
ritenere rettamente argomentata è un farsi largo tra ostilità che hanno una pur
aleatoria titolarità in fantasmatiche figure di contraddittori. Non c’è
ragionamento, senza che il foro sia campo di battaglia. E non v’è scrittura che
ne dia conto, senza che il suo registro sia – più o meno riconoscibilmente –
diario militare. Andrebbe scoraggiata, dunque, in chi la nutre, l’idea che la
meditazione intima e la discussione pubblica – tra di loro assai più simili di
quanto solitamente si pensi – siano officine in cui si costruisce pensiero: si
tratta, in realtà, di spazi in cui si consumano duelli, e non è affatto detto
che la vittoria premi chi meglio conosca la topica aristotelica o la logica
formale, anzi, tutt’altro.
Poco
più di un anno fa mi sono già intrattenuto sulla questione (Πολεμική τέχνη – Malvino, 27.9.2013), oggi ci ritorno perché in Petit traité à l’usage de ceux qui veulent toujours avoir raison di
Georges Picard (Librairie José Corti, 1999; qui in Italia: Archinto, 2002)
trovo uno straordinario equivalente di ciò che Il Principe di Niccolò Machiavelli rappresentò per la scienza del
governo, a rigettare la tesi che chi dia consigli senza farsi assistere dall’etica,
in fondo, e neanche tanto in fondo, sia un moralista che fa dell’ironia. Può
valere per L’arte di ottenere ragione in
38 stratagemmi di Arthur Schopenhauer, non per Georges Picard. In questo
delizioso libricino non v’è traccia alcuna di biasimo morale per l’uso del più
delinquenziale armamentario retorico, anzi, v’è il monito a considerare l’onestà
intellettuale un grave handicap: se «è
cosa veramente molto naturale et ordinaria desiderare di acquistare; e sempre,
quando li uomini lo fanno che possano, saranno laudati, o non biasimati; ma,
quando non possono, e vogliono farlo in ogni modo, qui è l’errore et il
biasimo» (Il Principe, III), il
fine ultimo è la persuasione, cioè la conquista dell’uditorio, ed ogni mezzo si
misura sulla capacità di ottenerla, buono solo se efficace, quand’anche sia
scorretto: «l’errore et il biasimo» solo
nell’inadeguatezza al fine.
Per
trovare assennata la lezione di Georges Picard, bisogna considerarne incontestabili
le premesse: «si ha ragione di voler
avere sempre ragione, non conosco una sola postulazione più attraente e
produttiva» (pag. 19); «non è affatto
necessario aver ragione per pretendere d’aver ragione» (pag. 31); «soltanto gli ingenui possono credere che le
discussioni mirino a risolvere un problema o a chiarire questioni, in realtà la
loro unica giustificazione è di mettere alla prova la capacità dei partecipanti
nel disarcionare gli avversari» (pag. 41); «una volta liberati dal pregiudizio di credere che occorra possedere
una parte di verità per avere ragione, ci si sente più leggeri per affrontare
il combattimento» (pag. 45). Ora, se
«la polemica non è che la continuazione
del duello con altri mezzi», come scrivevo poco più di un anno fa, nel
sostenere che l’importante è vincere, Georges Picard scoraggia dal nutrire
scrupoli, alla faccia delle candide mammolette che la denunciano come pretesa che
rivela malattia mentale, velleità dispotica o entrambe le cose, perché
pretendere di aver ragione per il solo fatto di aver ragione è altrettanto
folle, né è immune da intento prevaricatore: vantare il diritto di
redarguizione sugli argomenti invalidi o erronei, infatti, e per il solo merito
di muoversi a proprio agio tra la topica aristotelica e la logica formale, non
implica un fine diverso dall’«avvicinare
o conquistare il potere e soddisfare l’inclinazione per il dominio materiale,
ma anche per imporre al mondo dei valori intellettuali, un’idea di giustizia,
una concezione della vita sociale, delle simpatie estetiche» (pag. 27), e
pensare di poterne avanzare la pretesa con armi inappropriate a persuadere l’uditorio
non dà esito diverso da quello che si ottiene con fallacie inefficaci.
Potrà
sembrare una tautologia, ma ha in sé la forza del più inoppugnabile realismo:
la vittoria spetta a chi vince, e la posta in gioco non è proporzionata alla
resistenza che l’uditorio oppone alla persuasione, ma alla capacità competitiva
dell’avversario, perché, se è vero che voler avere sempre ragione non consente mai
di trovare piena soddisfazione, è altrettanto vero che ogni vittoria dà
abbrivio alla competizione, come è illustrato dal paradigma del «pallido notaio di provincia […] [che], vedendo crescere il suo ascendente sui
compagni di aperitivo, […] [prova a] imporre
le sue vedute in materia di politica e di morale [ad una cerchia sempre più
ampia che] si trasformerà in club, poi in
partito, inarrestabile nel quartiere, più tardi nella città e, un giorno,
chissà, nel dipartimento, nell’intero paese» (pag. 28). E qui, a ben
vedere, siamo al punto in cui la πολεμική
τέχνη assume i caratteri di campagna militare, articolandosi in segmenti di
una strategia: è il punto in cui la natura mobile e contraddittoria di ogni
uditorio di notevole ampiezza impone uno straordinario controllo di momento e
contesto. In altri termini, siamo al livello in cui la persuasione produce un consenso
che implica una fidelizzazione. Siamo al discorso politico.
Non
importa quanto il sillogismo sia corretto, d’altronde Georges Picard non
pretende che lo sia ma che ci persuada, e bisogna ammettere che è estremamente
persuasivo: «La politica – dice – è l’arte di far prendere ai cittadini
lucciole per lanterne. Visto che in questo mondo ci sono più lucciole che
lanterne, è stato ragionevole definire la politica l’arte del possibile. È così
che la necessità obbliga i politici in buona fede ad agire al di qua delle loro
promesse, mentre quelli in mala fede agiscono in modo opposto. E sono proprio
questi ultimi a persuaderci, mentre i primi agiscono considerando la realtà
delle cose e l’irrealtà delle menti. Accade che, di solito, i cittadini
pretendano l’impossibile in tempi irrealistici. In una società di saggi, i
governanti si accontenterebbero di sviluppare i loro programmi senzamai
nascondere le lacune […] I saggi ne terrebbero conto senza pretendere interessi
di sorta, […] [ma] tanta franchezza
sembra azzardata in una moderna società democratica dove gli elettori
continuano a credere […] nell’efficacia quasi magica dell’azione pubblica sulla
felicità di ciascuno e di tutti. […] Si capisce perché la maggior parte dei
dibattiti politici si riducano a semplici esercizi di contabilità sociologica,
dove gli argomenti sono scelti in base a ben precise mire elettorali. I partiti
non cercano affatto d’aver ragione in assoluto: vogliono piuttosto aver ragione
di una ben determinata categoria di votanti» (pagg. 57-59). E qui possiamo
aggiungere: categoria in continuo rimodellamento plastico. Con quanto ne
consegue sulla scelta degli argomenti e sui modi e i tempi di proporli: la
vittoria spetterà a chi vincerà, e toccherà a chi meglio sappia usare mezzi
efficaci in un determinato momento, ma inefficaci prima o dopo, e per un lasso
di tempo di estensione congrua a farsi stagione.
[segue]
mercoledì 1 ottobre 2014
[...]
Per
il cadavere di cui si sia ormai estinto anche il ricordo di quanto già puzzasse
di morto quand’era ancora in vita, il parce
sepulto dovrebbe valere doppio, se non fosse che di tanto in tanto qualcuno
va a scoperchiarne la tomba, dalla quale allora si sprigionano entrambi i
fetori, che affievoliscono ogni pietas. Quand’è per dar riassetto ai resti,
operazione che il necroforo esperto sbriga in poche ore, si è disposti a
chiudere un occhio, anche se forse sarebbe più corretto dire che si è disposti
a chiudere una narice, così com’è nel caso in cui si faccia indispensabile un
pur tardivo esame necroscopico del medico legale e, se non si lesina sull’incenso,
perfino all’ostensione della carogna, una volta canonizzata. Tutt’un altro paio di
maniche quando a scoperchiare la tomba è il necrofilo, e tira fuori il morto, e
lo sbaciucchia, e lo stropiccia, e se lo scopa: lì il voltastomaco è d’obbligo,
sennò vuol dire che si ha qualcosa di marcio dentro.
Fuor di metafora: che
Benedetto Croce fosse già morto prima di morire, e che in vita puzzasse del più
putrefatto degli hegelismi, è stranoto; che la macchina mediatica degli anniversari
non possa fare a meno di sostituirgli il coperchio della bara, passi; che
qualche avanzo di biblioteca possa concedergli qualche attenzione, perché no;
che qualche nostalgico dell’idealismo nostrano vada a sniffarne le esalazioni
mollemente appoggiato alla lapide, e vabbe’; ma che si organizzino convegni
come sedute spiritiche per rievocarlo, rianimarlo e incularselo romanticamente,
è cosa schifosa. Se poi fra tanti depravati si fa l’errore di invitare pure uno
che abbia uno stomaco da persona sana, c’è il rischio che lo dica.
lunedì 29 settembre 2014
[...]
Il
corsivo di Pierluigi Battista sul Corriere
della Sera di lunedì 29 settembre (Della
Valle faccia solo l’imprenditore) chiude in questo modo: «Robert Musil ha narrato nell’Uomo senza
qualità le velleità politiche del magnate dell’industria Arnheim nella
costruzione di una maestosa “Azione Parallela”. Finì male: facile profezia».
Tre perplessità. La prima è relativa al fatto che Arnheim comincia a frequentare
le riunioni in casa Tuzzi, dove si discute dell’organizzazione dell’“Azione
Parallela”, solo perché è invaghito di Diotima: quello che cerca di sfruttare l’impresa,
di cui peraltro è il promotore, per assecondare le sue velleità politiche è il
conte Leinsdorf. La seconda è relativa a quel «finì male»: in realtà Robert Musil morì prima di portare a termine
L’uomo senza qualità e al punto in
cui lasciò la narrazione degli eventi non c’è traccia di alcun fallimento,
né del progetto dell’“Azione Parallela”, né dei disegni personali del conte
Lainsdorf. Ma la perplessità più forte è relativa a quel «© RIPRODUZIONE RISERVATA» in calce al corsivo: chi si sognerebbe mai di appropriarsi delle
cazzate scritte da Pierluigi Battista?
Da fetenti
Il
78% dei napoletani è dell’idea che Luigi De Magistris farebbe bene a
dimettersi, ma l’attenzione va posta al restante 22%, solidale al suo
fottersene di una legge dello Stato che invece gli impone di farlo. Tra chi
pensa faccia bene dev’esserci chi ha apprezzato le sue parole al funerale di
Ciro Esposito, quando deplorando chi sospettava proprio ciò che le indagini
avrebbero successivamente accertato, e cioè che il giovane fosse del manipolo
di ultras che alla finale di Coppa Italia era arrivato armato di bastoni e di
coltelli, intenzionato a provocare disordini, prese le difese della teppaglia e
lanciò un’accusa ai responsabili dell’ordine pubblico: «Ciro si è messo tra l’odio
e chi voleva solo vedere una partita… Chi non ha garantito l’ordine paghi». Ma
in quel 22% ci sarà pure chi ha apprezzato l’elogio funebre in morte di Davide
Bifolco: «È inaccettabile che un ragazzo possa morire in questo modo, a 17
anni. Non accetto la teoria colpevolista, fondata sul fatto che il ragazzo
fosse napoletano e provenisse da un quartiere difficile. Il sindaco è vicino ai
suoi familiari e ai suoi amici». Da fetenti, come non essere solidale al caro
Giggino che ha sempre trovato una parola buona per i fetenti? Aspettiamo che al decreto di sospensione dica: «A me ’u Prefette m’adda fa’ sule ’nu bucchine», e sentiremo un’ovazione.
domenica 28 settembre 2014
sabato 27 settembre 2014
La vista da lì
Lo
schema riprodotto qui sopra è tratto da Elementi
per una teoria dei media (1970) di Hans Magnus Enzenberger (insieme ad
altri saggi, in: Palaver, Einaudi
1976 – pagg. 79-113), e costringe a un riso amaro: ai tempi in cui internet non
c’era, si immaginava che qualcosa come internet avrebbe emancipato le masse.
Prima di ogni altra considerazione, però, c’è da chiedersi se questa inferenza
sia lecita. È un medium, internet? Mi pare sia impossibile negarlo. Risponde
alle caratteristiche descritte nella colonna a destra nello schema? Direi di
sì. Bene, ha emancipato le masse? Qui la risposta non può essere altrettanto
scontata. In fondo, è solo da vent’anni che internet è alla portata di chi
voglia servirsene, dunque potrebbe essere troppo presto per escludere che sia
in grado di farlo. Ma si ha qualche indizio che lo stia facendo o che almeno
stia preparando il terreno? E poi: emancipare le masse da cosa? Qual è il
mancipium dal quale dovrebbe/potrebbe liberarci? C’è da attendersi che possa
favorire la democrazia?
A dispetto del fatto che l’avvento di internet sia stato coincidente al progressivo estendersi di quella cui Colin Crouch diede il nome di postdemocrazia, c’è chi ne è convinto, rigettando ogni correlazione d’ordine causale tra i due fenomeni ed anzi suggerendo che il primo sia una reazione al secondo. Può darsi, e tuttavia l’antidoto che internet sarebbe allo svuotamento della forma democratica da ogni sua sostanza, verso derive populistiche, fin qui non ha assunto tratti sostanzialmente analoghi? Dobbiamo credere che la sua azione possa essere efficace per meccanismo di tipo omeopatico? L’emancipazione delle masse è da pensare come vittoria di una demagogia su un’altra? In altri termini: non c’è da sospettare che internet non abbia in sé alcun potenziale liberatorio, ma sia semplicemente un’estensione, una duplicazione, dell’agorà in cui la democrazia – com’è per sua natura – degenera in dispotismo plebiscitario? Se è così, dovremmo rivedere la tesi di Marshall McLuhan per la quale «il medium è il messaggio» o convenire che internet non è niente di nuovo.
A dispetto del fatto che l’avvento di internet sia stato coincidente al progressivo estendersi di quella cui Colin Crouch diede il nome di postdemocrazia, c’è chi ne è convinto, rigettando ogni correlazione d’ordine causale tra i due fenomeni ed anzi suggerendo che il primo sia una reazione al secondo. Può darsi, e tuttavia l’antidoto che internet sarebbe allo svuotamento della forma democratica da ogni sua sostanza, verso derive populistiche, fin qui non ha assunto tratti sostanzialmente analoghi? Dobbiamo credere che la sua azione possa essere efficace per meccanismo di tipo omeopatico? L’emancipazione delle masse è da pensare come vittoria di una demagogia su un’altra? In altri termini: non c’è da sospettare che internet non abbia in sé alcun potenziale liberatorio, ma sia semplicemente un’estensione, una duplicazione, dell’agorà in cui la democrazia – com’è per sua natura – degenera in dispotismo plebiscitario? Se è così, dovremmo rivedere la tesi di Marshall McLuhan per la quale «il medium è il messaggio» o convenire che internet non è niente di nuovo.
A
me basta questo per chiudere La vista da qui di Massimo Mantellini (minimum fax, 2014) con la netta convinzione che l’ottimismo
che parrebbe voler infondere al lettore – ottimismo temperato da un sano
realismo, ovviamente, perché l’autore è persona amabilmente posata – sia lo
stesso di Hans Magnus Enzenberger. Per star lì, più di quaranta anni dopo, a consigliarci
di aver fiducia nell’irresistibile pulsione che la plebe avrebbe a farsi popolo, è
da considerare libro più che coraggioso: direi quasi temerario.
venerdì 26 settembre 2014
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