Non
sapevo che Mario Adinolfi scrivesse su Il
Mattino, d’altronde leggo raramente il quotidiano di via Chiatamone, e
quasi esclusivamente per consultare la pagina degli spettacoli, le rare volte
che mi prende l’uzzolo di andare al cinema o al teatro. La sorpresa, tuttavia,
non è stata quella di trovarvi un articolo di Mario Adinolfi, ma di dover
constatare una significativa metamorfosi stilistica nella sua scrittura, tanto
più sorprendente perché repentina e inattesa. Mario Adinolfi sembra aver messo
da parte il suo patognomonico becerume e mostra un tratto fine, perfino colto, da professorino di liceo classico. È sempre
lui, sia chiaro, le idee son sempre quelle, però bisogna dire che ora le
argomenta senza scoreggiare rumorosamente, flautando quasi, e con un
sorvegliato e affabile impiego della formula dubitativa che direi quasi
maieutico. Nel fondo, insomma, rimane il troglodita dal marcato profilo
comunitarista e organicista, ma occorre dire che i modi si sono sensibilmente
ingentiliti e l’utensileria retorica ha perso la volgare grossolanità che lo ha
sempre caratterizzato, peraltro accentuandosi proprio negli ultimi mesi, come non
potrà aver evitato di constatare chi abbia letto il suo Voglio la mamma, pamphlet che sembra quasi essere stato dettato dal
cardinal Ruini, sì, ma a un villico gradasso che si è concesso notevoli licenze.
Non so se questo articolo – segnalatomi da F.M., che ringrazio – debba essere
considerato un’eccezione, semmai dovuta al fatto che il lettore de Il Mattino è per lo più un borghesuccio strafottente,
pusillanime e conformista, che è meglio non turbare troppo con eccessi di
liberalismo o di illiberalismo, tenendolo a bagnomaria in un rassicurante
paternalismo, sennò arriva alle pagine sportive tutto imbarazzato, e non so nemmeno se a Mario Adinolfi potrà tornare utile la
svolta che questo articolo potrebbe voler annunciare, di fatto c’è che, a
leggere La dolce morte non è una
performance, il chiattone ferocemente ostile ai più elementari diritti
civili sembra morto e seppellito.
Parla di Brittany Maynard, Mario Adinolfi, e
con notevole furbizia non spara il solito no all’eutanasia perché la vita
appartiene a Dio, ma insinua il dubbio sul «come
bilanciare le determinazioni dell’individuo, la sua libertà e autonomia, con la
responsabilità e l’interesse della società, che non può rimanere indifferente –
se e finché è una società umana – al modo in cui i suoi membri muoiono»,
dando per scontato che il modo in cui un suo membro muore son pure cazzi suoi – della società, intendo dire – ed è dunque in diritto di metterci becco. Contrario, quindi, ad una legge che
consenta a ciascuno di decidere quando e come morire, perché «non sarebbe nel perimetro della legge che
troverebbe soluzione il problema del significato che ha la morte per l’uomo [visto che]
quel significato, come del resto ogni
significato, ogni parola, ogni concetto non è affatto nella disponibilità di
ciascuno», e qui io aggiungerei – perché Mario Adinolfi ha la tutta nuova delicatezza di non dirlo – che non può essere nella disponibilità di ciascuno se è alla società che spetta dare un senso a
vita, morte, eccetera, mentre a chi non vuole far la figuraccia di asociale spetta conformarvisi, giacché «la costruzione
del senso umano di una vita richiede qualcosa di più di un impegno meramente
individuale».
Ce n’è quanto basta per negare all’individuo la libertà e la
responsabilità di scegliere, ma in nome di un valore nobile – la socialità – e
chi vorrà mai essere così bestia da calpestarlo? Giusto chi è segnato da una tara psicologica. Perché Mario Adinolfi, qui, non fa
uso della sua solita arroganza dando della cretina a Brittany Maynard – e questo ci fa quasi dimenticare
tutte le sue sparate omofobe e antiabortiste – ma con l’acuminato strumento del
sofista solleva il dubbio se ella «abbia
voluto o no [dare pubblicità al suo gesto] per far avanzare la coscienza del problema dei malati terminali e dei loro
diritti» o per soddisfare un suo malsano esibizionismo con quella «spettacolarità che richiede necessariamente
un pubblico».
Roba da sputargli in faccia, se non fosse graziosamente offerta
in forma di dilemma etico. E qui il capolavoro: «È giusto naturalmente che il legislatore cerchi la misura, insegua il problema
morale, si interroghi circa il modo di non perdere definitivamente di vista il
destino dell’uomo, ma è un inseguimento su un terreno sul quale non può più
riuscire, avendo rinunciato ad ogni fondazione religiosa e non avendo altra legittimazione,
in sede politica, che quella individuale, a cui però non appartiene, non può
appartenere qualcosa come un senso».
Dio, insomma, può darsi non esista, ma cazzarola quanto tornerebbe comodo in questi casi. Fatto sta che, invece, il legislatore ha rinunciato a
farsi ispirare dai preti, non è riuscito a costruire un edificio etico in cui
stipare a forza, volenti o nolenti, gli individui e tutto va in vacca,
puttana Eva. Non c’è che dire: sempre lo stesso Mario Adinolfi, ma assai più
figlio di puttana.
Aggiornamento A pochi minuti dalla
pubblicazione di questo post, mi arriva un’altra email da F.M., il quale, costernato
per avermi inviato il testo dell’articolo che qui ho commentato aggiungendo
solo «leggi un po’ che dice Adinolfi»,
si affretta a farmi presente che il pezzo non è firmato «Mario Adinolfi», ma «Massimo
Adinolfi». Gli rispondo da qui: non ti preoccupare, ormai è fatta, e in più
non cambia niente, perché prima di scrivere il post sono andato a controllare
il testo originale, e avevo letto chi fosse l’autore dell’articolo, ma è
proprio grazie al fatto che avevi omesso il nome, citando solo il cognome, che
ho potuto costruire il commento nel modo in cui poi l’ho steso. E così va bene.