martedì 18 novembre 2014

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Un tempo le organizzazioni criminali avevano altro stile. Se volevano qualcosa da te, prima di passare alle brutte maniere ti mandavano un omino mite che esponeva la richiesta con allusioni sfuggenti e con modi perfino eccessivamente cortesi. Tutto è cambiato, oggi mandano un energumeno che prima ti rompe il muso e poi ti espone la richiesta, e non c’è cosca che faccia eccezione, tutt’al più ti mandano uno che sembrerebbe un omino mite, ma che in realtà è un energumeno.
Beh, questa era la presentazione, adesso ecco l’intervista che Sandro Magister ha concesso a ItaliaOggi. Da brividi. Alla prossima, Bergoglio si ritrova il cianuro nel mate.  

«Qualunque cosa sia»

In Io e Annie (Usa, 1977) c’è una scena che ho utilizzato mille volte per un sogno ad occhi aperti. Alvy (Woody Allen) e Annie (Diane Keaton) sono in coda per entrare al cinema e proprio dietro di loro c’è un tizio insopportabile che, parlando ad alta voce con la tizia che le è affianco, spara senza sosta sentenze su sentenze – sui film di Fellini, sul teatro di Beckett, sulle tesi di Marshall McLuhan – irritando visibilmente Alvy, che finisce per sbottare: «Che cosa non darei per avere un’enorme palata di cacca di cavallo», provocando così le proteste del tizio: «Ma per caso è vietato esprimere le proprie opinioni?». E Alvy: «No, ma deve esprimerle ad alta voce? Insomma, non si vergogna di pontificare così? E la cosa più buffa è Marshall McLuhan… Ma lei sa niente di Marshall McLuhan?». Al che il tizio ribatte che insegna alla Columbia University, tiene un corso su Tv, media e cultura. «Beh, poco male – risponde Alvy – perché il signor McLuhan è qui». E Marshall McLuhan – proprio lui in persona – appare all’improvviso e al tizio dice: «Ho sentito quello che ha detto. Lei non sa niente del mio lavoro. Come sia arrivato a tenere un corso alla Columbia è cosa che desta meraviglia». E Alvy chiosa: «Ah, ragazzi, se la realtà fosse così!».
Non è un caso, penso, che Woody Allen abbia scelto un critico come deus ex machina, perché un artista poteva uscirsene con qualcosa del tipo: «Credo che nel mio lavoro il signore abbia visto quello che forse già pensava di suo, che non è assolutamente la verità, perché io una verità assoluta non ce l’ho e non credo possa esistere quando si parla di problematiche così complesse come quelle che affronto io. Quello che so è che il mio lavoro è stato accolto bene da chi ci ha visto una cosa, ma anche il suo contrario. Io stesso, d’altra parte, non mi sono posto il problema di capire cosa stessi cercando di dire, quale fosse il messaggio»
È che all’artista interessa più essere apprezzato che essere capito? Se si accetta che egli non debba porsi il problema di cosa voglia dire ciò che crea, anzi non debba neanche porsi il problema di capire cosa esattamente abbia intenzione di fargli dire, questo non è affatto grave: l’importante è che la sua creazione trovi apprezzamento, poco importa che sia tanto ambigua da trovarlo presso chi la legge in un modo e presso chi la legge in modo opposto – anzi, tanto più ambigua, tanto meglio – perché l’unico modo sbagliato di leggerla sarà quella che non le farà trovare apprezzamento, unico caso, questo, in cui l’artista potrà lamentare un fraintendimento. Ma a questo punto mi auguro che il lettore abbia colto l’ironia nell’uso del termine artista, mentre mi auguro che l’artista non l’abbia colta, perché questo di bello ha l’ironia: mette d’accordo chi capisce e chi fraintende.
Forse, però, è meglio ricorrere a un esempio.


Qual è il messaggio che vi pare trasmetta questo corto? Una «esplosiva verità», cioè che l’Italia sia piena di gioventù «improduttiva, cazzeggiona, scioperaiola, protetta, corporativa, e per di più travestita da organismo protestatario minaccioso violento radicale antagonista»? Se l’avete inteso a questo modo, siete d’accordo con Giuliano Ferrara, al quale proprio perciò è piaciuto tanto e dice che «dovrebbe essere premiato, trasmesso nelle scuole, e ritrasmesso in tv a cura della Presidenza del Consiglio, con abbondanti sovvenzioni pubbliche e di Confindustria perché le menti libere che lo hanno concepito e realizzato possano insistere nel filone d’oro della presa per il culo dei miti italiani poveraccisti».
O pensate piuttosto che il corto volesse essere un ironico ribaltamento di quella realtà di fatto che in Italia sta bruciando un’intera generazione tra disoccupazione e precarietà? Vi verrebbe voglia di chiederlo all’autore, vero? Beh, non lo fate, potreste rimanere delusi, e poi l’ho fatto io per voi. Capirete che, col miraggio di abbondanti sovvenzioni dalla Presidenza del Consiglio e dalla Confindustria, l’ironia, se c’era al momento di scrivere la sceneggiatura, ora può anche andare a farsi benedire. E allora, sì, «non è stato accolto come un video che sfotte i bamboccioni, anzi, molti hanno scritto di non sapere se ridere o piangere, lo hanno definito divertente e drammatico, comico e triste», però «potrebbe anche essere vero che certi giovani sono sfaticati e mammomi», e tuttavia «ciò non toglie che lo stato è assente, il lavoro è precario e mal pagato, ecc.». Insomma, «credo che nel mio lavoro Ferrara abbia visto quello che forse già pensava di suo, che non è assolutamente la verità, perché io una verità assoluta non ce l’ho e non credo possa esistere quando si parla di problematiche così complesse. Io stesso, d’altra parte, non mi sono posto il problema di capire cosa stessi cercando di dire, quale fosse il messaggio. Lironia era solo il mezzo per raccontare qualcosa di vero, qualsiasi cosa sia».
«Qualunque cosa sia»: e poi c’è pure qualche cretino che afferma che i giovani italiani non siano ormai disposti a tutto pur di portare a casa qualche soldo?

domenica 16 novembre 2014

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Quanto si lucra in Italia col cosiddetto volontariato? E chi lucra di più? E su quali strumenti può contare? Consiglio la lettura di un post che mi pare dia ottimo spunto a un’inchiesta giornalistica che risponda a queste domande.

Già che mi trovo, ne consiglio pure un altro che ha il pregio della sintesi e della chiarezza su una faccenda terribilmente complessa come il riassetto delle forze in campo sullo scenario internazionale.

Gabriella Goat

Che il mondo sia impazzito è sensazione che ha sempre accompagnato tutti i disadattati, fin dalla notte dei tempi. Converrà, dunque, non farci cogliere in castagna dinanzi a quanto ci fa trasalire perché brutalmente o miserevolmente assurdo, facendo finta di averne colto la ratio, di trovarla in qualche modo sensata o per lo meno divertente, così sembreremo ottimamente incardinati nel secolo, che fin dalla notte dei tempi è segno di un buon metabolismo. Evitiamo di strabuzzare gli occhi, quindi, dinanzi alla notizia che la signora Gabriella Capra, in ciò appoggiata dalla Fondazione Nazionale Consumatori, sia intenzionata a portare in tribunale la Astley Baker Davies per ottenere un risarcimento di 100.000 euro perché in una delle puntate di Peppa Pig è comparso un personaggio che aveva proprio il suo nome, e da allora tutti la sfottono. Evitiamo di star lì a considerare che nella striscia originale Gabriella Capra era Gabriella Goat, perché al pari di tutti i personaggi che vi compaiono il surname indica la specie animale e il name ne ha quasi sempre in comune l’iniziale (Delphine Donkey, Kylie Kangaroo, Emily Elephant, Wendy Wolf, ecc.), e allertiamo la francese Gabrielle Chèvre, la spagnola Gabriela Cabra, la tedesca Gabri Ziege, se esistono: hanno danni da lamentare, non tardassero a farlo. E tanta solidarietà alle poverette, nel caso i rispettivi tribunali non ne accogliessero le richieste mandandole a depositare qua e là, in Francia, in Spagna, in Germania – insieme alla signora Gabriella Capra qui in Italia – le note feci a palline. 

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Tra scienza politica e arte del governo passa tutta la distanza che c’è tra studio e mestiere: si vorrebbe che il primo sia indispensabile al secondo, ma di fatto non è affatto vero, anzi, come non si è mai visto un grande economista diventare miliardario grazie a tutta la sua scienza – ma si sarebbe tentati a un altro parallelo, assai più feroce: si ricava più denaro dal vendere numeri da giocare al lotto che dalle vincite ottenute grazie alle puntate su quei numeri – così non s’è mai visto un Platone tornare di qualche utilità a un Dionigi, né un Tocqueville più fortunato di un Talleyrand. Sconcerta, può arrivare a infondere sgomento, ma è di piana evidenza che, almeno in certi campi, sia impossibile trasporre con qualche profitto le regole che fanno il metodo della più perfetta scienza. Dovrebbe essere la prova che ogni scienza sociale abbia un limite nel fatto stesso d’essere – appunto – scienza, ma più probabilmente – e qui la probabilità si carica dell’investimento emotivo che sta in una scommessa – è che nessuna scienza sociale ha ragion d’essere se non accetta come irriducibile la grossolanità di ciò che ne è oggetto. Quando apprendiamo che un mestierante di successo ascolta con la massima attenzione tutto il collegio di illustri ed autorevoli periti ai quali ha chiesto parere, per poi decidere di testa sua, spesso contro quanto consigliato da quei saggi, e il risultato della decisione premia il mestiere contro la scienza, non dobbiamo trarre l’affrettata conclusione che non ci sia squadra o pialla per il legno storto: è nella più perfetta scienza politica che la più furba arte del governo trova le ragioni di ciò che è da evitare, perché il miglior daffare raramente è un ottimo affare.  

sabato 15 novembre 2014

Accedine

Può darsi ch’io m’inganni e stia per dirne una tanto bestiale da dovermene vergognare per mesi, perciò faccio affidamento, senza neanche contarci troppo, sull’indulgenza di chi non avrà alcuna difficoltà nel dimostrarmi che lo stato d’animo che qui mi appresto a descrivere – il mio, da qualche tempo a questa parte, quasi tutte le volte che decido che questa pagina vada aggiornata, sennò che sia meglio chiudere il blog – non sia affatto singolare, men che meno necessiti di un neologismo, perché è di questo che si tratta: non è certo singolare la sensazione che nulla valga la pena di un commento, questo lo so; né è singolare quella che induca a credere che un commento, ancorché sprezzantemente liquidatorio o meticolosamente decostruttivo, offenderebbe più chi lo fa, per il semplice fatto che così si abbasserebbe a farlo, che quanto ne sia l’oggetto, così elevato dalla bassezza della sua piatta insulsaggine o della sua brutale volgarità all’immeritata dignità di un qualche interesse, e so anche questo; come so bene che nemmeno è singolare che questa sensazione possa riguardare molto o tutto, per qualche tempo, a tratti, o per un lungo periodo, senza remissioni; però dico che senza dubbio abbia un connotato peculiare – un quid con tanto di sui generis – il sentire che tanta insulsaggine e tanta volgarità non possano scorrere senza apporvi sopra il marchio dell’infamia, e nel contempo il sentire che sia inutile, e soprattutto avvilente. Lo si sente necessario, quasi indispensabile, ma si avverte che sarebbe fatica enorme, e mortificante, e vana. Si aggiunga, inoltre, che non sarebbe fatica dovuta, se non a ciò che rende intollerabile la fatica di lasciar perdere, far finta di non aver visto e di non aver sentito: non è mestiere di scrivere, quello del commento, tutt’al più è abitudine affine alla mania. Un guazzabuglio di malesseri, insomma, in cui si possono trovare – variamente dosate e composte – una frenesia d’urgenza e una noia del ripetersi, un’indignazione che può degenerare nella maniera e una spossatezza da inconcludenza, una rabbia sorda da risentito e una resa che cerca nobiltà nella sconfitta, alle quali va ad aggiungersi quel tanto di ridicolo che sta nel poterne fare a meno, ma non volerlo, però costringersi a farlo, e poi non farlo: evitare di scriverne, però sentendone in colpa, ma traendo una sorta di sollievo da questa mancanza nel considerare quanto peserebbe l’accollarsene il dovere, che poi è tutto verso se stessi. La direi accedine, un misto di accidia e acredine, ma il termine non mi sembra del tutto adeguato, perché almeno nel caso di specie – il mio – è relativo a uno stato d’animo che mi assale solo quando scorro la cronaca: tutto mi sembra futile e mi irrita, a cominciare dal fatto che la futilità non meriterebbe tanta irritazione, e tutto mi spinge a sputar bile ma sei volte su sette me lo risparmio, e m’acconcio a una posa di disgustata alterigia, che io stesso sento falsa, che io stesso mi rinfaccio.

Prendete il caso della lettera che la Diocesi di Milano ha inviato a seimila insegnanti di religione, stipendiati dallo Stato, ma idonei all’insegnamento solo se graditi alla Chiesa, e inidonei quando le diventano sgraditi. Lettera che sollecita una schedatura di quanti siano impegnati a combattere nella scuola pregiudizi e discriminazioni relative alle libere e responsabili scelte di genere. Lettera che ha sollevato qualche protesta e di cui subito la Diocesi di Milano si è scusata. Ora c’è chi le manda lettere per farle presente che ha sbagliato a scusarsi. Quanto ci sarebbe da scrivere sulla faccenda. E quanto sarebbe inutile. E quanto sarebbe noioso ripetere quello che comunque sarebbe necessario ripetere, nel caso. E quanto mi irrita il non volerlo fare. Più mi irrita quanto accade, e più è irritante il fatto che finirò per ritenerlo degno di disinteressarmene, metà soddisfatto per aver lasciato perdere e metà pentito per non averne scritto. È accedine, direi.

martedì 11 novembre 2014

lunedì 10 novembre 2014

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All’apertura dei lavori dell’Assemblea generale dei vescovi italiani, che oggi ha preso avvio ad Assisi, il cardinale Angelo Bagnasco ha lamentato la persecuzione di cui son fatti vittime i cristiani, «a volte evidente e brutale, altre volte subdola e mascherata, ma non per questo meno violenta», e si è chiesto se per caso questo non accada «perché i cristiani sono una presenza scomoda». Non scomoda, Eminenza, ma molesta. Vada a qualche capoverso indietro, rilegga ciò che ha detto riguardo alla «creazione di nuove figure» alternative alla famiglia tradizionale: ha detto che vengono create «con distinguo pretestuosi che hanno l’unico scopo di confondere la gente», con ciò mettendo in discussione che possa esserci famiglia dove non ci sia famiglia cristiana, e questo non è bello, perché è offensivo, puzza di intolleranza e di prepotenza. Che ha da stupirsi, dunque? A questo voler dettar legge sulle vite altrui, mi pare naturale che chi abbia zotico profilo antropologico s’irriti come una bestia, e ci scappi il martire. A chi ha l’animo gentile, invece, scappa tutt’al più un «vada a cagare», e questa, lei, me la chiama violenza? Via, sia cortese, non rompa il cazzo.

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Sulle voci di dimissioni che Giorgio Napolitano sarebbe intenzionato a dare entro la fine di quest’anno, Marzio Breda, che in più di un’occasione si è prestato a farsi portavoce di ciò che il Quirinale intendeva comunicare in modo ufficioso, ci informa che «non vuole sciogliere lui le Camere nel caso di voto anticipato» (Corriere della Sera, 9.11.2014), ipotesi che evidentemente considera assai probabile, e con molti solidi motivi data la buona vista che si gode da quel Colle. In pratica, rifiuta di ammettere il fallimento del mandato suppletivo che si è dato dalla metà del primo settennato, rinnovandolo e ampliandolo nell’accettare la rielezione: nessun Presidente della Repubblica è mai stato tanto attivo quanto lui alla sceneggiatura, al casting e alla regia di quanto andava in scena e, ora che la commedia rivela tutta l’inconsistenza della trama e l’inadeguatezza degli attori, pare voglia svignarsela dall’uscita di servizio, per non beccarsi i fischi, con ciò onorando la definizione che ne diede chi di lui disse che «il suo stemma araldico dovrebbe essere un coniglio bianco in campo bianco». Niente della grandezza d’un altro commediografo napoletano, l’Eduardo De Filippo di cui proprio in questi giorni ricorre il trentennale della morte, che una sera s’alzò dal posto che occupava in platea, interruppe la commedia di cui era l’autore e il regista, e disse: «Signori spettatori, l’attore qui ha recitato la battuta in modo diverso da come l’avevo scritta e da come gli avevo spiegato andasse recitata: vogliate scusarmi, adesso la ripeterà come si deve».

sabato 8 novembre 2014

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La descrizione che ne dà il giornale dei vescovi (Avvenire, 6.11.2014 – pag. 17) fa della Casa di Cura «Santa Famiglia» il miglior esempio di quanto la dottrina cattolica consente come soluzione all’infertilità: (1) «studiare il momento della fertilità della donna per poterla aiutare, in assenza di farmaci e senza diagnostiche invasive, a gestire al meglio la propria vita sessuale»; (2) «individuare quelle persone per le quali, con un criterio non invasivo, ci sia una reale possibilità di gravidanza»; (3) «insegnare metodi naturali per aumentare le possibilità di concepimento» (tutto in virgolettato perché si tratta di quanto illustra il responsabile di questo «centro per il concepimento naturale»).
Eviteremo, qui, di contestare il principio etico che informa questa strategia di attacco all’infertilità, peraltro ampiamente noto (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2373-2379). Ci limiteremo solo a chiederci a cosa serva una Casa di Cura se non può andare oltre a quanto, come sopra esposto, è consentito dalla dottrina cattolica: (1) per studiare i giorni fertili di un ciclo, non basta un test per l’ovulazione, di quelli che a pochi euro si possono reperire in ogni farmacia? (2) e non è con questo solo studio che, dovendo rinunciare a metodiche non invasive, si possono individuare i casi in cui ci sia una reale possibilità di gravidanza? (3) in quanto ai metodi naturali per aumentare le possibilità di concepimento, poi, non bastano banali conoscenze empiriche?
Può darsi che queste perplessità ci assalgano perché ci sfugge qualcosa. Per esempio, cosa sarà mai la «chirurgia medica non invasiva» che viene contemplata tra le prestazioni offerte alle coppie infertili? Può darsi che il giornalista abbia riportato in modo infedele le parole di chi ha intervistato, di fatto in ginecologia ogni momento chirurgico è invasivo. Peraltro, nel corpo dell’intervista, si fa cenno ad «approcci naturali di ridotta invasività», senza specificare quali siano: sarà mica che per «non invasività» si voglia intendere «ridotta invasività»? Ed è possibile, in tal caso, che così seri professionisti e così seri cattolici siano così trasandati nell’uso di termini attinenti ad argomenti così delicati? Ci rifiutiamo di crederlo. Per nostri limiti, ovviamente, dev’esserci qualcosa che ci sfugge. Conviene cercare lumi nelle parole di monsignor Zygmunt Zimowski, presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari, dunque responsabile delle 117.467 strutture sanitarie cattoliche attive in tutto il mondo, compresa la Casa di Cura «Santa Famiglia».
Sua Eccellenza ha detto: «La Chiesa si fa vicina a questi nostri fratelli che soffrono, incoraggiando fortemente la ricerca scientifica, volta al superamento naturale della sterilità. Ecco perché questi centri sono molto importanti». Ricerca scientifica volta al superamento naturale, ecco, ora tutto è chiaro. 

Proprio

Fin dall’adolescenza mi accompagna un imbarazzo che col tempo è diventato sempre più tollerabile. Ma forse imbarazzo è termine improprio, e anche tollerabile non rende a dovere. Per farla breve: tutte le volte che sento dei maschi parlare di questa o quella femmina, e con pressoché unanime benevolenza di giudizio, soprattutto quando la benevolenza è espressa in modo particolarmente enfatico, non mi ritrovo quasi mai in quel che dicono. Ma forse ritrovarsi non esprime bene il concetto, e perfino maschio e femmina sono locuzioni inadeguate. Potrei spiegarmi meglio con qualche esempio, forse. Potrei dire di Moana Pozzi: ho visto, e ancora vedo, che tutti le son devoti come fosse una dea dellamor carnale, ma a me è sempre sembrata un pesce lesso, anche un po scotto. Per tenerci nel settore, dico, Luce Caponegro non la surclassava? Ma forse non ho scelto lesempio migliore, potrei raccontare della volta che opposi Françoise Hardy a Rachel Welch – eravano nei primi anni Settanta – e fui sepolto dagli sghignazzi: «Ma che dici? Quella non ha neanche due etti di tette»Potrei stendere un elenco senza fine di casi analoghi, ma mi risolvo a dire di aver passato la vita intera a non trovare convincenti gli entusiastici elogi che praticamente tutti rivolgevano alle grazie di certe femmine che a me non dicevano niente o addirittura sembravano dei veri cessi, e vengo ai nostri giorni, e (mi) chiedo: ma la Madia può a qualche titolo sollecitare fantasie sessuali? e la Boschi, con quel culone basso e quella faccia da cavallo, è bella? e, giusto per tornare indietro a qualche capannello di arrapati della passata stagione, la Minetti era ’sta gran cosa? Insomma, non ci siamo proprio.


giovedì 6 novembre 2014

Napolitano e l’amnistia

Il Corriere della Sera pubblica brani dall’ennesimo libro di Vespa, da oggi  in libreria. Stralciando quanto è irrilevante a porre i termini della questione che qui intendo sollevare, riporto un passaggio che nel testo è attribuito in virgolettato ad Alfano.  «Nel settembre 2013 chiesi un appuntamento al presidente della Repubblica e gli preannunciai al telefono che volevo parlargli della grazia [a Berlusconi]. […] L’incontro […] avvenne nella tarda mattinata del 24 […]. Il presidente mi dice quattro cose. 1) Se Berlusconi si dimette prima del voto sulla decadenza evitando al Senato un grande trauma, lui è pronto a concedergli la grazia, ovviamente secondo le norme di legge. 2) È disponibile anche a rivederne le condizioni. Mentre finora Napolitano aveva detto che avrebbe esaminato una domanda, ora si dimostra disponibile a riconsiderare l’ipotesi di un gesto unilaterale. 3) Aggiunge di essere pronto a diffondere un comunicato in cui dice che il giudizio penale sul caso Mediatrade riguarda il Berlusconi imprenditore, ma la sua biografia è molto articolata e va valutata nel suo complesso. 4) Si dice anche disponibile a fare un appello al Parlamento in favore di un provvedimento generale di amnistia e indulto».
Ritengo che quanto esposto al primo e al secondo punto non sollevi alcun problema: se la condanna è definitiva, il presidente della Repubblica può concedere la grazia a chi vuole; e può arrivare a volerlo per le vie che meglio crede; e non è tenuto a concederla solo se gliene viene fatta domanda; e, nel caso sia inizialmente intenzionato a farlo solo se gliene viene fatta domanda, può cambiare idea, anche in questo caso senza dover rendere conto del perché l’abbia cambiata.
Anche il terzo punto non solleva particolari problemi: il presidente della Repubblica può diffondere tutti i comunicati che ritiene utile diffondere, tanto più se intende spiegare le ragioni di una grazia che si appresta a concedere e che potrebbe sollevare perplessità, sconcerto o contrarietà nell’opinione pubblica. Non ne ha l’obbligo, né è detto che le spiegazioni possano soddisfare il fine, ma il fatto che ci provi, via, può perfino ritenersi encomiabile.
È il quarto punto, invece, che dà da pensare, e sotto diversi aspetti. In primo luogo, perché tirare in ballo un provvedimento generale di amnistia e indulto nell’ambito di una discussione che verte sulle sorti personali e politiche di un condannato in via definitiva, se non come alternativa alla grazia, al fine di dargli quell’agibilità che di lì a poco la legge Severino gli potrebbe sottrarre? L’indulto non estingue le pene accessorie come la prescrizione dai pubblici uffici, ma l’amnistia estingue anche il reato, sicché, se amnistiato, Berlusconi non sarebbe andato incontro alla decadenza da parlamentare e soprattutto avrebbe potuto ricandidarsi in caso di elezioni politiche. Non mi pare ci sia altra spiegazione per motivare la promessa di interessamento che Napolitano offre ad Alfano in ordine all’attivazione di un iter parlamentare per arrivare a un indulto e  a un’amnistia.
Qui occorre tornare un attimo a ciò che Alfano racconta a Vespa: «Ero letteralmente entusiasta e corsi a palazzo Grazioli, convinto di portare a Berlusconi una notizia clamorosa. […] Berlusconi mi ascoltò senza formulare un giudizio definitivo. In quel momento entrò Ghedini. Disse che, di fatto, la proposta di Napolitano equivaleva a far ritirare Berlusconi dalla politica e che quello che a me appariva un grande risultato in realtà era il nulla. […] Berlusconi disse: “Andiamo a pranzo”. E non se ne parlò più».
Sembra pacifico che, in mancanza di una risposta positiva da palazzo Grazioli, Napolitano dovesse ritenere chiuso il discorso sulla grazia. E tuttavia, dodici giorni dopo, il tempo di scriverlo, arriva il suo messaggio alle Camere, nel quale, tra l’altro, solleva la questione di eventuali «rimedi straordinari» alla «drammatica questione carceraria»: indulto e amnistia che si auspica siano «di sufficiente ampiezza, ad esempio pari a tre anni di reclusione». Incidentalmente, Berlusconi ne godrebbe i benefici.
Con l’occhio del dietrologo sembrerebbe che Napolitano offra a Berlusconi un’alternativa alla grazia, che, alle condizioni poste, non sembra riscuotere entusiasmo a palazzo Grazioli, fatta eccezione per Alfano. Ma noi non abbiamo l’occhio del dietrologo e vogliamo credere che il messaggio alle Camere fosse già pronto e che Napolitano l’abbia voluto spendere come offerta che non gli costava niente. Una notevole cazzimma, ma insomma.
Certo che l’occhio del dietrologo, anche quando non ce l’hai, te lo fanno venire. C’era, infatti, chi chiedeva quel messaggio a Napolitano da più di due anni – e chiedere è eufemismo, perché arrivò a dargli del criminale per il fatto che non esaudisse quella richiesta, arrivò a minacciare la messa in stato d’accusa per tradimento della Costituzione – e per due anni quel messaggio non arrivò. La questione carceraria era d’un tratto diventata ineludibile grazie all’incontro con Alfano. E poi c’è chi dice che è un uomo inutile? 

mercoledì 5 novembre 2014

E così va bene

Non sapevo che Mario Adinolfi scrivesse su Il Mattino, d’altronde leggo raramente il quotidiano di via Chiatamone, e quasi esclusivamente per consultare la pagina degli spettacoli, le rare volte che mi prende l’uzzolo di andare al cinema o al teatro. La sorpresa, tuttavia, non è stata quella di trovarvi un articolo di Mario Adinolfi, ma di dover constatare una significativa metamorfosi stilistica nella sua scrittura, tanto più sorprendente perché repentina e inattesa. Mario Adinolfi sembra aver messo da parte il suo patognomonico becerume e mostra un tratto fine, perfino colto, da professorino di liceo classico. È sempre lui, sia chiaro, le idee son sempre quelle, però bisogna dire che ora le argomenta senza scoreggiare rumorosamente, flautando quasi, e con un sorvegliato e affabile impiego della formula dubitativa che direi quasi maieutico. Nel fondo, insomma, rimane il troglodita dal marcato profilo comunitarista e organicista, ma occorre dire che i modi si sono sensibilmente ingentiliti e l’utensileria retorica ha perso la volgare grossolanità che lo ha sempre caratterizzato, peraltro accentuandosi proprio negli ultimi mesi, come non potrà aver evitato di constatare chi abbia letto il suo Voglio la mamma, pamphlet che sembra quasi essere stato dettato dal cardinal Ruini, sì, ma a un villico gradasso che si è concesso notevoli licenze.
Non so se questo articolo – segnalatomi da F.M., che ringrazio – debba essere considerato un’eccezione, semmai dovuta al fatto che il lettore de Il Mattino è per lo più un borghesuccio strafottente, pusillanime e conformista, che è meglio non turbare troppo con eccessi di liberalismo o di illiberalismo, tenendolo a bagnomaria in un rassicurante paternalismo, sennò arriva alle pagine sportive tutto imbarazzato, e non so nemmeno se a Mario Adinolfi potrà tornare utile la svolta che questo articolo potrebbe voler annunciare, di fatto c’è che, a leggere La dolce morte non è una performance, il chiattone ferocemente ostile ai più elementari diritti civili sembra morto e seppellito.
Parla di Brittany Maynard, Mario Adinolfi, e con notevole furbizia non spara il solito no all’eutanasia perché la vita appartiene a Dio, ma insinua il dubbio sul «come bilanciare le determinazioni dell’individuo, la sua libertà e autonomia, con la responsabilità e l’interesse della società, che non può rimanere indifferente – se e finché è una società umana – al modo in cui i suoi membri muoiono», dando per scontato che il modo in cui un suo membro muore son pure cazzi suoi – della società, intendo dire  ed è dunque in diritto di metterci becco. Contrario, quindi, ad una legge che consenta a ciascuno di decidere quando e come morire, perché «non sarebbe nel perimetro della legge che troverebbe soluzione il problema del significato che ha la morte per l’uomo [visto che] quel significato, come del resto ogni significato, ogni parola, ogni concetto non è affatto nella disponibilità di ciascuno», e qui io aggiungerei – perché Mario Adinolfi ha la tutta nuova delicatezza di non dirlo – che non può essere nella disponibilità di ciascuno se è alla società che spetta dare un senso a vita, morte, eccetera, mentre a chi non vuole far la figuraccia di asociale spetta conformarvisi, giacché «la costruzione del senso umano di una vita richiede qualcosa di più di un impegno meramente individuale».
Ce n’è quanto basta per negare all’individuo la libertà e la responsabilità di scegliere, ma in nome di un valore nobile – la socialità – e chi vorrà mai essere così bestia da calpestarlo? Giusto chi è segnato da una tara psicologica. Perché Mario Adinolfi, qui, non fa uso della sua solita arroganza dando della cretina a  Brittany Maynard – e questo ci fa quasi dimenticare tutte le sue sparate omofobe e antiabortiste – ma con l’acuminato strumento del sofista solleva il dubbio se ella «abbia voluto o no [dare pubblicità al suo gesto] per far avanzare la coscienza del problema dei malati terminali e dei loro diritti» o per soddisfare un suo malsano esibizionismo con quella «spettacolarità che richiede necessariamente un pubblico».
Roba da sputargli in faccia, se non fosse graziosamente offerta in forma di dilemma etico. E qui il capolavoro: «È giusto naturalmente che il legislatore cerchi la misura, insegua il problema morale, si interroghi circa il modo di non perdere definitivamente di vista il destino dell’uomo, ma è un inseguimento su un terreno sul quale non può più riuscire, avendo rinunciato ad ogni fondazione religiosa e non avendo altra legittimazione, in sede politica, che quella individuale, a cui però non appartiene, non può appartenere qualcosa come un senso».
Dio, insomma, può darsi non esista, ma cazzarola quanto tornerebbe comodo in questi casi. Fatto sta che, invece, il legislatore ha rinunciato a farsi ispirare dai preti, non è riuscito a costruire un edificio etico in cui stipare a forza, volenti o nolenti, gli individui e tutto va in vacca, puttana Eva. Non c’è che dire: sempre lo stesso Mario Adinolfi, ma assai più figlio di puttana.


Aggiornamento A pochi minuti dalla pubblicazione di questo post, mi arriva un’altra email da F.M., il quale, costernato per avermi inviato il testo dell’articolo che qui ho commentato aggiungendo solo «leggi un po’ che dice Adinolfi», si affretta a farmi presente che il pezzo non è firmato «Mario Adinolfi», ma «Massimo Adinolfi». Gli rispondo da qui: non ti preoccupare, ormai è fatta, e in più non cambia niente, perché prima di scrivere il post sono andato a controllare il testo originale, e avevo letto chi fosse l’autore dell’articolo, ma è proprio grazie al fatto che avevi omesso il nome, citando solo il cognome, che ho potuto costruire il commento nel modo in cui poi l’ho steso. E così va bene.

Wissenschaft der Logik

«Qualcosa è vitale solo in quanto contiene in sé la contraddizione.
Solo quando sono stati spinti all’estremo della contraddizione,
i molteplici diventano attivi e viventi l’uno di fronte all’altro,
acquistando la pulsazione immanente dell’attività e della vitalità»

Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Wissenschaft der Logik



Quando tutto degenera al punto che la cultura di governo trova la sua più congrua espressione in uno come Matteo Renzi, l’opposizione non può trovare più congrua espressione che nella cultura di uno come Matteo Salvini. C’è bisogno di un piano comune perché tesi e antitesi facciano dialettica, perciò non c’è alcun margine di manovra per gli altri oppositori, tutti – anche se solo di un millimetro – a un piano superiore.

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Non capisco perché il rinvio a giudizio di Verdini dovrebbe mettere a rischio il patto del Nazareno, come si va cianciando. Se Renzi non si è fatto alcuno scrupolo nel cercare e trovare accordo con un condannato in via definitiva, perché dovrebbe farsene ora che il fiduciario della controparte è appena appena imputato?

martedì 4 novembre 2014

Nemmeno vola

Tra i 250 e i 230 milioni d’anni fa, mentre i grandi rettili del Paleozoico si avviavano all’estinzione, dalla famiglia dei Dromeosauridi, cui appartenevano terribili predatori come il Velociraptor, si staccò un ramo destinato a evolversi in Archaeopteryx, che i paleontologi dicono essere il progenitore della gran parte dei pennuti. Robe da dare le vertigini, a rifletterci: vedi un pollo, e mai immagineresti che era un dinosauro, ma il tempo è un inesausto lavoratore, e riplasma ogni cosa, e spesso sembra farlo solo per stupirci.
Così accade con monsignor Carrasco de Paula. Non più di due o tre anni fa, quando la morale cattolica lasciava impronte grosse e profonde ad ogni passo e a ogni roarrr! scopriva dozzine e dozzine di denti aguzzi, di una suicida come Brittany Maynard avrebbe fatto un sol boccone, ruttando una sonora condanna: «Siamo gli amministratori, non i proprietari della vita che Dio ci ha affidato: non ne disponiamo. […] L’eutanasia volontaria, qualunque ne siano le forme e i motivi, costituisce un omicidio. È gravemente contraria alla dignità della persona umana e al rispetto del Dio vivente, suo Creatore» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2280, 2324).
Potenza dell’evoluzione: l’artiglio a falcetto oggi è una misera zampa di gallina, piume dov’era la pellaccia, e al posto delle orride fauci c’è un simpatico becco giallo, corto, e quando s’apre scopre una linguetta pallida, e coco-cocodè, «il gesto in sé è da condannare, non giudichiamo la persona». Certo, lo scheletro rivela analogie, ma che simpatico volatile. Nemmeno vola, ma quanta tenerezza quelle alucce.

domenica 2 novembre 2014

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Immaginate d’essere ospite di un’anziana signora che vi infligge la tortura dei suoi album di foto ingiallite, e su nessuna sorvola, e per ciascuna ha una parola, anzi due, tre, quattro, perché è ciarliera oltre misura, devota assai all’uncinetto del pettegolezzo. Pesanti tende un po’ tarmate, statuette di santi e di madonne sotto campane di vetro, una lipsanoteca, un grammofono che gracchia in sottofondo, e lì, sul tavolo, il bicchierino di rosolio che vi ha offerto con un piattino in cui ci sono tre biscottini, su un centrino. Storie su storie, in cui ovviamente è al centro anche quando i fatti l’hanno appena sfiorata, e facce, nomi, ninnoli, manie ed idiosincrasie, e che tette aveva, quand’era giovane, e quanti giovinotti l’hanno ingroppata – increspa le labbra vizze sulle quali il rossetto s’aggruma a forma di cuoricino – e poi la carrellata di chi le ha baciato la mano (tutti gran signori) e quella di chi non le ha ceduto il posto sul filobus (rozzi villani, tutti), e mammà ch’era una gran donna, e papà ch’era un gentiluomo come non ce ne sono più…

Questa, più o meno, la sensazione che si ha leggendo La virtù dell’elefante di Paolo Isotta (Marsilio, 2014), libro pletorico, tristissimo, noioso e, quel che è peggio, zuppo d’ammicchi, sospiri e improvvisi allucchi. Un chiattillo invecchiato male, si direbbe. 

sabato 1 novembre 2014

Segnalibro

In dubio pro reo

Credo di aver capito che la sentenza che manda assolti quanti erano a vario titolo imputati per la morte di Stefano Cucchi abbia come cardine d’argomentazione l’art. 530 c.c.p., al coma 2: «Il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile». In pratica, se ho capito bene, il giudice, che poi è il solo legittimato a dare un peso alle prove prodotte dall’accusa, le ha considerate insufficienti e ha deciso per l’assoluzione. Non ha importanza cosa pensi io di questa sentenza, pongo solo una domanda: chi si dice garantista non dovrebbe apprezzare che sia stato applicato il principio per il quale in dubio pro reo?
Sia ben chiaro che non metto in discussione quanto d’altronde è autoevidente – un uomo è entrato vivo in carcere e ne è uscito morto, qualcuno dev’esserne responsabile, almeno per condotta omissiva – quello che mi preme sottolineare è il fatto che la responsabilità penale è personale e che per accertarla in modo inequivocabile è necessario che se ne riesca a produrre prova certa nel corso del processo. In questo caso, il giudice ritiene che quella prodotta non sia certa, e assolve: dov’è lo scandalo? Visto che della morte di Stefano Cucchi è altissimamente probabile che la responsabilità sia da addebitare ad uno o a più d’uno degli imputati, avrebbe dovuto condannarli tutti? Solo alcuni o almeno uno? E chi? Sulla base di quale prova, se nessuna di quelle prodotte nel corso del processo gli è parsa certa?


Alle più alte vette dell’espressione artistica...

Alle più alte vette dell’espressione artistica si osserva non di rado un dato che alle cime anche di poco inferiori per altezza quasi mai è dato osservare: l’artista rinuncia a ogni rispetto per se stesso, se necessario, per farsi semplice strumento della sua  arte, come a dimostrare che la sua vera vita, con quanto di prezioso ciascuno allega alla propria, sia interamente trasfusa nella sua creazione. Poco al di sotto di questi eccelsi livelli altimetrici troviamo l’artista che sa annullarsi, sì, ma solo nel suo gesto creativo. Scendendo, poi, va sempre peggio, per giungere alla quota dove l’artista è solito nutrire un gran rispetto per la propria persona, spesso arrivando a farlo diventare un ossequioso culto che tributa a se stesso, traendolo esclusivamente da  ciò che crea. Sia chiaro, anche a tali livelli l’arte può essere di grande qualità e tuttavia la creazione artistica mancherà sempre di un’anima a muoverla dal di dentro. D’altro canto, non è affatto detto che per essere animata in questo modo l’artista debba necessariamente mettersi totalmente in gioco fino allo sprezzo di se stesso. Ciò che intendo dire è che una connaturata propensione ad annullarsi fino al sommo sacrificio, che per l’artista sta nel ridursi a mero tramite di quel che vuole esprimere, rende l’opera d’arte virtualmente sublime anche quando non è indispensabile pagare questo prezzo, e tuttavia, se lo si paga, vuol dire che l’artista l’ha considerato necessario, e con ciò stesso la sua creazione tocca il sublime.

Convince? No, eh? Vabbe’, io ci ho provato. Era per presentarvi questo mio acrilico su tela (180 x 180 cm - 2014) – lo so, sembra una foto, ma è che io sono di scuola iperrealista – che vuol comunicare a chi lo osserva quanto di malsano ci sia in un selfie, in ogni selfie.