«Il mio partito – dice l’astensionista con un certo orgoglio – è assai più forte del tuo», e non ha importanza quale sia il partito del tizio cui si rivolge. «Alle ultime Europee – dice – eravamo più di 21 milioni, il 41,3%. Appena lo 0,5% in più del 40,8% andato a Renzi? Manco per niente, Renzi è stato votato da poco più di 11 milioni degli aventi diritto al voto, che fa il 23,3% del totale; meno di 6 milioni hanno votato Grillo, che fa poco più del 10%; e meno di 5 hanno votato Berlusconi, che dunque non ha superato il 9%; e per gli altri neanche spreco tempo a fare calcoli».
Non gli si può dar torto, e si capisce
l’orgoglio: «Negli ultimi vent’anni – dice – non siamo mai scesi al di sotto
del 15%, ma la crescita è stata costante e alle Politiche del 2013 abbiamo
sfiorato il 25%, diventando il primo partito». A renderlo tanto fiero, manco a
dirlo, sono i risultati che arrivano dalla Calabria e dall’Emilia Romagna, dove
il suo partito ha stravinto, con una maggioranza assoluta che supera di
parecchi punti il 50%, e tuttavia non dà segno di montarsi la testa, come fin
troppo spesso è dato osservare in chi si lascia andare a invereconde capriole
di giubilo per aver guadagnato appena una manciata di voti: «Erano elezioni
limitate solo a due Regioni, non ci illudiamo di poter riconfermare questo
exploit, e tuttavia – dice – si tratta di un risultato che consolida una linea
di tendenza che ci vede ormai da anni come il partito di gran lunga più amato
dagli italiani».
Non gli si può dar torto, ma provarci è un
dovere morale. Non ha importanza quale sia il partito del tizio che senta questo
dovere, ma all’astensionista arriva puntuale la regina delle obiezioni: «Quello
dell’astensionismo non è un partito». «Sì, vabbe’ – è la risposta – sarà
partito il tuo. Chiamalo comitato elettorale, chiamalo piede di porco per
forzare il coperchio dell’erario, chiamalo proprietà privata di un leader, ma
non chiamarlo partito».
«Ma il voto di chi non vota vale zero».
«Sì, perché il tuo vale qualcosa? Voti la lista bloccata di un cosiddetto
partito che non mantiene neanche la metà della metà della metà delle promesse
che ti ha fatto in campagna elettorale, e ti senti protagonista per il solo
fatto di aver lerciato una scheda con un frego?».
«Ma chi si astiene perde ogni diritto di
lamentarsi». «E uno dovrebbe votare solo per poterlo fare avendone pieno diritto?
Succede niente ad abusarne senza averne il diritto? E fa differenza col farlo
avendone il diritto? Il lamento, dico, è il premio di consolazione che spetta a
chi sa di fare una cazzata, e la fa?».
«Ma l’astensionismo è il buco nero che
inghiotte tutto e il contrario di tutto: rabbia e strafottenza, destra e
sinistra che hanno perso ogni rappresentanza, qualunquismo di andata e di
ritorno…». «Il partito che hai votato tu, invece, ha un’identità bella precisa,
vero? Non dico un’ideologia, che non si usa più. Non dico una classe o un
blocco sociale, che con lo sfarinamento generale sarebbe come parlar di fisica
delle particelle a un summit della ’ndrangheta. Mi limito a un elettorato che
abbia un minimo di omogeneità sul piano culturale… Ma che dico, culturale? Sul
piano della piana logica dove due più due fa quattro: forse che il tuo partito
ce l’ha?».
«Resta il fatto che non votare è da
irresponsabili». «E tu indicami quale sia il voto di cui un qualsiasi italiano
possa dirsi responsabile appena un istante dopo aver fatto cadere la sua scheda
nell’urna».
E prova a dargli torto.