lunedì 24 novembre 2014
[...]
In
premessa alla sua deliziosa Antologia
apocrifa (Bompiani, 1978) Paolo Vita-Finzi afferma che per una efficace
parodia letteraria è necessario innanzitutto individuare il «codice d’uso» dell’autore che si
intende scimmiottare. Questa raccomandazione mi è tornata in mente nell’apprestarmi a scrivere un editoriale à la Ferrara,
ispirato dal suo Quando la libertà è una
procedura schifosa e comoda di annientamento (Il Foglio, 24.11.2014), pezzullo in cui il suo «codice d’uso» è più scoperto del solito, come capita a chi si
segga dinanzi alla pagina bianca senza sapere di che cazzo scrivere e, per
chiudere il pezzo in tempo utile, ricorra ai suoi più collaudati automatismi,
meglio se su un tema già affrontato mille volte: ça va sans dire, qui, l’aborto, e usando i consueti frattali di perifrasi
che per modulo hanno la geremiade dell’anziana signora sull’autobus («non c’è più religione», «chissà di questo passo dove andremo a finire», «questa non è libertà, è
libertinaggio», ecc.). Tutto così
scontato, in questo suo editoriale, che mi è sembrato si parodiasse da solo,
sicché m’è passata la voglia di farlo io, tanto più che, sul mugugno che chiude il pezzo, l’anziana
signora m’ha dato un brivido: «Ogni tanto
mi sorprendo a sognare che questa libertà venga sommersa dal sacro islam, in mancanza
di argomenti migliori. E non escludo, io che non ho una fede confessionale, che
finisca proprio così, in uno scontro di assoluti in cui l’assoluto dell’io soccomba
di fronte all’assoluto di Dio». Passi dar del debosciato al giovanotto che
non le cede il posto a sedere, ma qui siamo al «le auguro di perdere le gambe sotto un treno» e al «ciu-ciuf, ciu-ciuf, ciu-ciuf» che dovrebbe farlo cagare addosso. Non è bello, ecco.
Prova a dargli torto
«Il mio partito – dice l’astensionista con un certo orgoglio – è assai più forte del tuo», e non ha importanza quale sia il partito del tizio cui si rivolge. «Alle ultime Europee – dice – eravamo più di 21 milioni, il 41,3%. Appena lo 0,5% in più del 40,8% andato a Renzi? Manco per niente, Renzi è stato votato da poco più di 11 milioni degli aventi diritto al voto, che fa il 23,3% del totale; meno di 6 milioni hanno votato Grillo, che fa poco più del 10%; e meno di 5 hanno votato Berlusconi, che dunque non ha superato il 9%; e per gli altri neanche spreco tempo a fare calcoli».
Non gli si può dar torto, e si capisce
l’orgoglio: «Negli ultimi vent’anni – dice – non siamo mai scesi al di sotto
del 15%, ma la crescita è stata costante e alle Politiche del 2013 abbiamo
sfiorato il 25%, diventando il primo partito». A renderlo tanto fiero, manco a
dirlo, sono i risultati che arrivano dalla Calabria e dall’Emilia Romagna, dove
il suo partito ha stravinto, con una maggioranza assoluta che supera di
parecchi punti il 50%, e tuttavia non dà segno di montarsi la testa, come fin
troppo spesso è dato osservare in chi si lascia andare a invereconde capriole
di giubilo per aver guadagnato appena una manciata di voti: «Erano elezioni
limitate solo a due Regioni, non ci illudiamo di poter riconfermare questo
exploit, e tuttavia – dice – si tratta di un risultato che consolida una linea
di tendenza che ci vede ormai da anni come il partito di gran lunga più amato
dagli italiani».
Non gli si può dar torto, ma provarci è un
dovere morale. Non ha importanza quale sia il partito del tizio che senta questo
dovere, ma all’astensionista arriva puntuale la regina delle obiezioni: «Quello
dell’astensionismo non è un partito». «Sì, vabbe’ – è la risposta – sarà
partito il tuo. Chiamalo comitato elettorale, chiamalo piede di porco per
forzare il coperchio dell’erario, chiamalo proprietà privata di un leader, ma
non chiamarlo partito».
«Ma il voto di chi non vota vale zero».
«Sì, perché il tuo vale qualcosa? Voti la lista bloccata di un cosiddetto
partito che non mantiene neanche la metà della metà della metà delle promesse
che ti ha fatto in campagna elettorale, e ti senti protagonista per il solo
fatto di aver lerciato una scheda con un frego?».
«Ma chi si astiene perde ogni diritto di
lamentarsi». «E uno dovrebbe votare solo per poterlo fare avendone pieno diritto?
Succede niente ad abusarne senza averne il diritto? E fa differenza col farlo
avendone il diritto? Il lamento, dico, è il premio di consolazione che spetta a
chi sa di fare una cazzata, e la fa?».
«Ma l’astensionismo è il buco nero che
inghiotte tutto e il contrario di tutto: rabbia e strafottenza, destra e
sinistra che hanno perso ogni rappresentanza, qualunquismo di andata e di
ritorno…». «Il partito che hai votato tu, invece, ha un’identità bella precisa,
vero? Non dico un’ideologia, che non si usa più. Non dico una classe o un
blocco sociale, che con lo sfarinamento generale sarebbe come parlar di fisica
delle particelle a un summit della ’ndrangheta. Mi limito a un elettorato che
abbia un minimo di omogeneità sul piano culturale… Ma che dico, culturale? Sul
piano della piana logica dove due più due fa quattro: forse che il tuo partito
ce l’ha?».
«Resta il fatto che non votare è da
irresponsabili». «E tu indicami quale sia il voto di cui un qualsiasi italiano
possa dirsi responsabile appena un istante dopo aver fatto cadere la sua scheda
nell’urna».
E prova a dargli torto.
domenica 23 novembre 2014
[...]
Poco
prima di dimettersi, un Presidente della Repubblica va a conferire dal Papa, proprio
come, poco prima di dimettersi, un Presidente del Consiglio va a conferire dal
Presidente della Repubblica. Certe notizie sono così disgustose che si possono
punire solo negando loro ogni commento.
venerdì 21 novembre 2014
mercoledì 19 novembre 2014
Grattarsi il culo
Grattarsi
il culo è operazione che implica il movimento combinato di almeno tre dozzine
di muscoli, dal cingolo scapolare alle punte delle dita, e l’attivazione di almeno
sette aree neuronali, tra corteccia motoria, cervelletto e gangli della base. Per
grattarselo, tuttavia, non c’è bisogno di conoscere tutto il complesso
meccanismo che coordina le fasi dell’operazione, né a conoscerlo ce lo si
gratta meglio.
Le
cose vanno a questo modo anche con certi mezzucci retorici: volgari quanto
grattarsi il culo, non hanno minore complessità strutturale, che tuttavia non c’è
bisogno di conoscere per farne uso, perché quasi sempre vengono impiegati come risposta
immediata a un stimolo cogente, d’impulso, con lo stesso automatismo che porta la
mano al culo, quando prude.
Un
esempio: «Ci sono due modi di stare in un
talk show televisivo. Il primo è quello prono al pubblico […] Poi c’è il
secondo modo. Provare a dire la verità. […]
Quando vado in un talk show in tv o alla radio io scelgo sempre la
seconda strada. […] Non ho mai cercato il consenso per il consenso. Preferisco la
verità». Si tratta della struttura portante di un lunghissimo post col quale
Mario Adinolfi prova a trarsi d’impaccio dalle obiezioni che gli sono state
rivolte dal pubblico in studio a L’aria
che tira (La7, 18.11.2014).
È
il mezzuccio retorico che mira a neutralizzare la sostanza delle obiezioni
eludendole e opponendo ad esse una «verità»
che sarebbe tale solo perché trova dissenso in quanto irritante, e che perciò
non avrebbe bisogno di altro argomento. In pratica: ho ragione per il solo
fatto di essere irritante. Espediente retorico tutt’altro che lineare, ma il
cui impiego non necessita di alcuna conoscenza del meccanismo che può renderlo efficace: ti prude, te lo gratti, ti passa.
martedì 18 novembre 2014
[...]
Un
tempo le organizzazioni criminali avevano altro stile. Se volevano qualcosa da
te, prima di passare alle brutte maniere ti mandavano un omino mite che
esponeva la richiesta con allusioni sfuggenti e con modi perfino eccessivamente
cortesi. Tutto è cambiato, oggi mandano un energumeno che prima ti rompe il
muso e poi ti espone la richiesta, e non c’è cosca che faccia eccezione, tutt’al
più ti mandano uno che sembrerebbe un omino mite, ma che in realtà è un
energumeno.
Beh, questa era la presentazione, adesso ecco l’intervista che
Sandro Magister ha concesso a ItaliaOggi. Da brividi. Alla prossima, Bergoglio
si ritrova il cianuro nel mate.
«Qualunque cosa sia»
In
Io e Annie (Usa, 1977) c’è una scena
che ho utilizzato mille volte per un sogno ad occhi aperti. Alvy (Woody Allen)
e Annie (Diane Keaton) sono in coda per entrare al cinema e proprio dietro di
loro c’è un tizio insopportabile che, parlando ad alta voce con la tizia che le
è affianco, spara senza sosta sentenze su sentenze – sui film di Fellini, sul
teatro di Beckett, sulle tesi di Marshall McLuhan – irritando visibilmente Alvy,
che finisce per sbottare: «Che cosa non darei
per avere un’enorme palata di cacca di cavallo», provocando così le
proteste del tizio: «Ma per caso è
vietato esprimere le proprie opinioni?». E Alvy: «No, ma deve esprimerle ad alta voce? Insomma, non si vergogna di
pontificare così? E la cosa più buffa è Marshall McLuhan… Ma lei sa niente di
Marshall McLuhan?». Al che il tizio ribatte che insegna alla Columbia
University, tiene un corso su Tv, media e
cultura. «Beh, poco male –
risponde Alvy – perché il signor McLuhan
è qui». E Marshall McLuhan – proprio lui in persona – appare all’improvviso
e al tizio dice: «Ho sentito quello che
ha detto. Lei non sa niente del mio lavoro. Come sia arrivato a tenere un corso
alla Columbia è cosa che desta meraviglia». E Alvy chiosa: «Ah, ragazzi, se la realtà fosse così!».
Non
è un caso, penso, che Woody Allen abbia scelto un critico come deus ex machina, perché un artista poteva
uscirsene con qualcosa del tipo: «Credo
che nel mio lavoro il signore abbia visto quello che forse già pensava di suo,
che non è assolutamente la verità,
perché io una verità assoluta non ce l’ho e non credo possa esistere quando si
parla di problematiche così complesse come quelle che affronto io. Quello che
so è che il mio lavoro è stato accolto bene da chi ci ha visto una cosa, ma
anche il suo contrario. Io stesso, d’altra parte, non mi sono posto il problema
di capire cosa stessi cercando di dire, quale fosse il messaggio».
È che all’artista interessa più essere apprezzato che essere capito? Se si accetta che egli non debba porsi il problema di cosa voglia dire ciò che crea, anzi non debba neanche porsi il problema di capire cosa esattamente abbia intenzione di fargli dire, questo non è affatto grave: l’importante è che la sua creazione trovi apprezzamento, poco importa che sia tanto ambigua da trovarlo presso chi la legge in un modo e presso chi la legge in modo opposto – anzi, tanto più ambigua, tanto meglio – perché l’unico modo sbagliato di leggerla sarà quella che non le farà trovare apprezzamento, unico caso, questo, in cui l’artista potrà lamentare un fraintendimento. Ma a questo punto mi auguro che il lettore abbia colto l’ironia nell’uso del termine artista, mentre mi auguro che l’artista non l’abbia colta, perché questo di bello ha l’ironia: mette d’accordo chi capisce e chi fraintende.
Forse, però, è meglio ricorrere a un esempio.
È che all’artista interessa più essere apprezzato che essere capito? Se si accetta che egli non debba porsi il problema di cosa voglia dire ciò che crea, anzi non debba neanche porsi il problema di capire cosa esattamente abbia intenzione di fargli dire, questo non è affatto grave: l’importante è che la sua creazione trovi apprezzamento, poco importa che sia tanto ambigua da trovarlo presso chi la legge in un modo e presso chi la legge in modo opposto – anzi, tanto più ambigua, tanto meglio – perché l’unico modo sbagliato di leggerla sarà quella che non le farà trovare apprezzamento, unico caso, questo, in cui l’artista potrà lamentare un fraintendimento. Ma a questo punto mi auguro che il lettore abbia colto l’ironia nell’uso del termine artista, mentre mi auguro che l’artista non l’abbia colta, perché questo di bello ha l’ironia: mette d’accordo chi capisce e chi fraintende.
Forse, però, è meglio ricorrere a un esempio.
Qual
è il messaggio che vi pare trasmetta questo corto? Una «esplosiva verità», cioè che l’Italia sia piena di gioventù «improduttiva, cazzeggiona, scioperaiola,
protetta, corporativa, e per di più travestita da organismo protestatario
minaccioso violento radicale antagonista»? Se l’avete inteso a questo modo,
siete d’accordo con Giuliano Ferrara, al quale proprio perciò è piaciuto tanto
e dice che «dovrebbe essere premiato, trasmesso
nelle scuole, e ritrasmesso in tv a cura della Presidenza del Consiglio, con abbondanti
sovvenzioni pubbliche e di Confindustria perché le menti libere che lo hanno
concepito e realizzato possano insistere nel filone d’oro della presa per il
culo dei miti italiani poveraccisti».
O pensate piuttosto che il corto volesse essere un ironico ribaltamento di quella realtà di fatto che in Italia sta bruciando un’intera generazione tra disoccupazione e precarietà? Vi verrebbe voglia di chiederlo all’autore, vero? Beh, non lo fate, potreste rimanere delusi, e poi l’ho fatto io per voi. Capirete che, col miraggio di abbondanti sovvenzioni dalla Presidenza del Consiglio e dalla Confindustria, l’ironia, se c’era al momento di scrivere la sceneggiatura, ora può anche andare a farsi benedire. E allora, sì, «non è stato accolto come un video che sfotte i bamboccioni, anzi, molti hanno scritto di non sapere se ridere o piangere, lo hanno definito divertente e drammatico, comico e triste», però «potrebbe anche essere vero che certi giovani sono sfaticati e mammomi», e tuttavia «ciò non toglie che lo stato è assente, il lavoro è precario e mal pagato, ecc.». Insomma, «credo che nel mio lavoro Ferrara abbia visto quello che forse già pensava di suo, che non è assolutamente la verità, perché io una verità assoluta non ce l’ho e non credo possa esistere quando si parla di problematiche così complesse. Io stesso, d’altra parte, non mi sono posto il problema di capire cosa stessi cercando di dire, quale fosse il messaggio. L’ironia era solo il mezzo per raccontare qualcosa di vero, qualsiasi cosa sia».
«Qualunque cosa sia»: e poi c’è pure qualche cretino che afferma che i giovani italiani non siano ormai disposti a tutto pur di portare a casa qualche soldo?
O pensate piuttosto che il corto volesse essere un ironico ribaltamento di quella realtà di fatto che in Italia sta bruciando un’intera generazione tra disoccupazione e precarietà? Vi verrebbe voglia di chiederlo all’autore, vero? Beh, non lo fate, potreste rimanere delusi, e poi l’ho fatto io per voi. Capirete che, col miraggio di abbondanti sovvenzioni dalla Presidenza del Consiglio e dalla Confindustria, l’ironia, se c’era al momento di scrivere la sceneggiatura, ora può anche andare a farsi benedire. E allora, sì, «non è stato accolto come un video che sfotte i bamboccioni, anzi, molti hanno scritto di non sapere se ridere o piangere, lo hanno definito divertente e drammatico, comico e triste», però «potrebbe anche essere vero che certi giovani sono sfaticati e mammomi», e tuttavia «ciò non toglie che lo stato è assente, il lavoro è precario e mal pagato, ecc.». Insomma, «credo che nel mio lavoro Ferrara abbia visto quello che forse già pensava di suo, che non è assolutamente la verità, perché io una verità assoluta non ce l’ho e non credo possa esistere quando si parla di problematiche così complesse. Io stesso, d’altra parte, non mi sono posto il problema di capire cosa stessi cercando di dire, quale fosse il messaggio. L’ironia era solo il mezzo per raccontare qualcosa di vero, qualsiasi cosa sia».
«Qualunque cosa sia»: e poi c’è pure qualche cretino che afferma che i giovani italiani non siano ormai disposti a tutto pur di portare a casa qualche soldo?
domenica 16 novembre 2014
[...]
Quanto
si lucra in Italia col cosiddetto volontariato? E chi lucra di più? E su quali
strumenti può contare? Consiglio la lettura di un post che mi pare dia ottimo
spunto a un’inchiesta giornalistica che risponda a queste domande.
Già che mi trovo, ne consiglio pure un altro che ha il pregio della sintesi e della chiarezza su una faccenda terribilmente complessa come il riassetto delle forze in campo sullo scenario internazionale.
Già che mi trovo, ne consiglio pure un altro che ha il pregio della sintesi e della chiarezza su una faccenda terribilmente complessa come il riassetto delle forze in campo sullo scenario internazionale.
Gabriella Goat
Che
il mondo sia impazzito è sensazione che ha sempre accompagnato tutti i disadattati,
fin dalla notte dei tempi. Converrà, dunque, non farci cogliere in castagna dinanzi
a quanto ci fa trasalire perché brutalmente o miserevolmente assurdo, facendo
finta di averne colto la ratio, di trovarla in qualche modo sensata o per lo
meno divertente, così sembreremo ottimamente incardinati nel secolo, che fin
dalla notte dei tempi è segno di un buon metabolismo. Evitiamo di strabuzzare
gli occhi, quindi, dinanzi alla notizia che la signora Gabriella Capra, in ciò
appoggiata dalla Fondazione Nazionale Consumatori, sia intenzionata a portare
in tribunale la Astley Baker Davies per ottenere un risarcimento di 100.000
euro perché in una delle puntate di Peppa Pig è comparso un personaggio che
aveva proprio il suo nome, e da allora tutti la sfottono. Evitiamo di star lì a
considerare che nella striscia originale Gabriella Capra era Gabriella Goat,
perché al pari di tutti i personaggi che vi compaiono il surname indica la specie animale e il name ne ha quasi sempre in comune l’iniziale (Delphine Donkey, Kylie
Kangaroo, Emily Elephant, Wendy Wolf, ecc.), e allertiamo la francese Gabrielle
Chèvre, la spagnola Gabriela Cabra, la tedesca Gabri Ziege, se esistono: hanno
danni da lamentare, non tardassero a farlo. E tanta solidarietà alle poverette,
nel caso i rispettivi tribunali non ne accogliessero le richieste mandandole a
depositare qua e là, in Francia, in Spagna, in Germania – insieme alla signora Gabriella
Capra qui in Italia – le note feci a palline.
[...]
Tra
scienza politica e arte del governo passa tutta la distanza che c’è tra studio
e mestiere: si vorrebbe che il primo sia indispensabile al secondo, ma di fatto
non è affatto vero, anzi, come non si è mai visto un grande economista
diventare miliardario grazie a tutta la sua scienza – ma si sarebbe tentati a
un altro parallelo, assai più feroce: si ricava più denaro dal vendere numeri
da giocare al lotto che dalle vincite ottenute grazie alle puntate su quei
numeri – così non s’è mai visto un Platone tornare di qualche utilità a un
Dionigi, né un Tocqueville più fortunato di un Talleyrand. Sconcerta, può
arrivare a infondere sgomento, ma è di piana evidenza che, almeno in certi
campi, sia impossibile trasporre con qualche profitto le regole che fanno il
metodo della più perfetta scienza. Dovrebbe essere la prova che ogni scienza
sociale abbia un limite nel fatto stesso d’essere – appunto – scienza, ma più
probabilmente – e qui la probabilità si carica dell’investimento emotivo che
sta in una scommessa – è che nessuna scienza sociale ha ragion d’essere se non
accetta come irriducibile la grossolanità di ciò che ne è oggetto. Quando
apprendiamo che un mestierante di successo ascolta con la massima attenzione
tutto il collegio di illustri ed autorevoli periti ai quali ha chiesto parere, per
poi decidere di testa sua, spesso contro quanto consigliato da quei saggi, e il
risultato della decisione premia il mestiere contro la scienza, non dobbiamo trarre
l’affrettata conclusione che non ci sia squadra o pialla per il legno storto: è
nella più perfetta scienza politica che la più furba arte del governo trova le ragioni
di ciò che è da evitare, perché il miglior daffare raramente è un ottimo affare.
sabato 15 novembre 2014
Accedine
Può
darsi ch’io m’inganni e stia per dirne una tanto bestiale da dovermene vergognare
per mesi, perciò faccio affidamento, senza neanche contarci troppo, sull’indulgenza
di chi non avrà alcuna difficoltà nel dimostrarmi che lo stato d’animo che qui
mi appresto a descrivere – il mio, da qualche tempo a questa parte, quasi tutte
le volte che decido che questa pagina vada aggiornata, sennò che sia meglio
chiudere il blog – non sia affatto singolare, men che meno necessiti di un neologismo,
perché è di questo che si tratta: non è certo singolare la sensazione che nulla
valga la pena di un commento, questo lo so; né è singolare quella che induca a
credere che un commento, ancorché sprezzantemente liquidatorio o meticolosamente
decostruttivo, offenderebbe più chi lo fa, per il semplice fatto che così si
abbasserebbe a farlo, che quanto ne sia l’oggetto, così elevato dalla bassezza
della sua piatta insulsaggine o della sua brutale volgarità all’immeritata dignità
di un qualche interesse, e so anche questo; come so bene che nemmeno è
singolare che questa sensazione possa riguardare molto o tutto, per qualche
tempo, a tratti, o per un lungo periodo, senza remissioni; però dico che senza
dubbio abbia un connotato peculiare – un quid
con tanto di sui generis – il
sentire che tanta insulsaggine e tanta volgarità non possano scorrere senza
apporvi sopra il marchio dell’infamia, e nel contempo il sentire che sia
inutile, e soprattutto avvilente. Lo si sente necessario, quasi indispensabile,
ma si avverte che sarebbe fatica enorme, e mortificante, e vana. Si aggiunga,
inoltre, che non sarebbe fatica dovuta, se non a ciò che rende intollerabile la
fatica di lasciar perdere, far finta di non aver visto e di non aver sentito:
non è mestiere di scrivere, quello del commento, tutt’al più è abitudine affine
alla mania. Un guazzabuglio di malesseri, insomma, in cui si possono trovare –
variamente dosate e composte – una frenesia d’urgenza e una noia del ripetersi,
un’indignazione che può degenerare nella maniera e una spossatezza da
inconcludenza, una rabbia sorda da risentito e una resa che cerca nobiltà nella
sconfitta, alle quali va ad aggiungersi quel tanto di ridicolo che sta nel
poterne fare a meno, ma non volerlo, però costringersi a farlo, e poi non farlo:
evitare di scriverne, però sentendone in colpa, ma traendo una sorta di
sollievo da questa mancanza nel considerare quanto peserebbe l’accollarsene il
dovere, che poi è tutto verso se stessi. La direi accedine, un misto di accidia e acredine, ma il termine non mi
sembra del tutto adeguato, perché almeno nel caso di specie – il mio – è
relativo a uno stato d’animo che mi assale solo quando scorro la cronaca: tutto
mi sembra futile e mi irrita, a cominciare dal fatto che la futilità non
meriterebbe tanta irritazione, e tutto mi spinge a sputar bile ma sei volte su
sette me lo risparmio, e m’acconcio a una posa di disgustata alterigia, che io
stesso sento falsa, che io stesso mi rinfaccio.
Prendete
il caso della lettera che la Diocesi di Milano ha inviato a seimila insegnanti
di religione, stipendiati dallo Stato, ma idonei all’insegnamento solo se graditi
alla Chiesa, e inidonei quando le diventano sgraditi. Lettera che sollecita una
schedatura di quanti siano impegnati a combattere nella scuola pregiudizi e discriminazioni
relative alle libere e responsabili scelte di genere. Lettera che ha sollevato
qualche protesta e di cui subito la Diocesi di Milano si è scusata. Ora c’è chi
le manda lettere per farle presente che ha sbagliato a scusarsi. Quanto ci
sarebbe da scrivere sulla faccenda. E quanto sarebbe inutile. E quanto sarebbe
noioso ripetere quello che comunque sarebbe necessario ripetere, nel caso. E
quanto mi irrita il non volerlo fare. Più mi irrita quanto accade, e più è irritante il fatto che finirò per ritenerlo degno di disinteressarmene, metà soddisfatto per aver lasciato perdere e metà pentito per non averne scritto. È accedine, direi.
martedì 11 novembre 2014
lunedì 10 novembre 2014
[...]
All’apertura
dei lavori dell’Assemblea generale dei vescovi italiani, che oggi ha preso
avvio ad Assisi, il cardinale Angelo Bagnasco ha lamentato la persecuzione di
cui son fatti vittime i cristiani, «a
volte evidente e brutale, altre volte subdola e mascherata, ma non per questo
meno violenta», e si è chiesto se per caso questo non accada «perché i cristiani sono una presenza
scomoda». Non scomoda, Eminenza, ma molesta. Vada a qualche capoverso
indietro, rilegga ciò che ha detto riguardo alla «creazione di nuove figure» alternative alla famiglia tradizionale:
ha detto che vengono create «con
distinguo pretestuosi che hanno l’unico scopo di confondere la gente», con
ciò mettendo in discussione che possa esserci famiglia dove non ci sia famiglia
cristiana, e questo non è bello, perché è offensivo, puzza di intolleranza e di
prepotenza. Che ha da stupirsi, dunque? A questo voler dettar legge sulle vite
altrui, mi pare naturale che chi abbia zotico profilo antropologico s’irriti
come una bestia, e ci scappi il martire. A chi ha l’animo gentile, invece,
scappa tutt’al più un «vada a cagare»,
e questa, lei, me la chiama violenza? Via, sia cortese, non rompa il cazzo.
[...]
Sulle
voci di dimissioni che Giorgio Napolitano sarebbe intenzionato a dare entro la
fine di quest’anno, Marzio Breda, che in più di un’occasione si è prestato a
farsi portavoce di ciò che il Quirinale intendeva comunicare in modo ufficioso,
ci informa che «non vuole sciogliere lui le Camere nel caso di voto anticipato»
(Corriere della Sera, 9.11.2014), ipotesi che evidentemente considera assai
probabile, e con molti solidi motivi data la buona vista che si gode da quel
Colle. In pratica, rifiuta di ammettere il fallimento del mandato suppletivo
che si è dato dalla metà del primo settennato, rinnovandolo e ampliandolo
nell’accettare la rielezione: nessun Presidente della Repubblica è mai stato
tanto attivo quanto lui alla sceneggiatura, al casting e alla regia di quanto
andava in scena e, ora che la commedia rivela tutta l’inconsistenza della trama
e l’inadeguatezza degli attori, pare voglia svignarsela dall’uscita di
servizio, per non beccarsi i fischi, con ciò onorando la definizione che ne
diede chi di lui disse che «il suo stemma araldico dovrebbe essere un coniglio
bianco in campo bianco». Niente della grandezza d’un altro commediografo
napoletano, l’Eduardo De Filippo di cui proprio in questi giorni ricorre il
trentennale della morte, che una sera s’alzò dal posto che occupava in platea,
interruppe la commedia di cui era l’autore e il regista, e disse: «Signori
spettatori, l’attore qui ha recitato la battuta in modo diverso da come l’avevo
scritta e da come gli avevo spiegato andasse recitata: vogliate scusarmi,
adesso la ripeterà come si deve».
sabato 8 novembre 2014
[...]
La
descrizione che ne dà il giornale dei vescovi (Avvenire, 6.11.2014 – pag. 17)
fa della Casa di Cura «Santa Famiglia» il miglior esempio di quanto la dottrina
cattolica consente come soluzione all’infertilità: (1) «studiare il momento
della fertilità della donna per poterla aiutare, in assenza di farmaci e senza
diagnostiche invasive, a gestire al meglio la propria vita sessuale»; (2)
«individuare quelle persone per le quali, con un criterio non invasivo, ci sia
una reale possibilità di gravidanza»; (3) «insegnare metodi naturali per
aumentare le possibilità di concepimento» (tutto in virgolettato perché si
tratta di quanto illustra il responsabile di questo «centro per il concepimento
naturale»).
Eviteremo, qui, di contestare il principio etico che informa questa
strategia di attacco all’infertilità, peraltro ampiamente noto (Catechismo
della Chiesa Cattolica, 2373-2379). Ci limiteremo solo a chiederci a cosa serva
una Casa di Cura se non può andare oltre a quanto, come sopra esposto, è
consentito dalla dottrina cattolica: (1) per studiare i giorni fertili di un
ciclo, non basta un test per l’ovulazione, di quelli che a pochi euro si
possono reperire in ogni farmacia? (2) e non è con questo solo studio che,
dovendo rinunciare a metodiche non invasive, si possono individuare i casi in
cui ci sia una reale possibilità di gravidanza? (3) in quanto ai metodi
naturali per aumentare le possibilità di concepimento, poi, non bastano banali
conoscenze empiriche?
Può darsi che queste perplessità ci assalgano perché ci sfugge qualcosa. Per esempio, cosa sarà mai la «chirurgia medica non invasiva» che viene contemplata tra le prestazioni offerte alle coppie infertili? Può darsi che il giornalista abbia riportato in modo infedele le parole di chi ha intervistato, di fatto in ginecologia ogni momento chirurgico è invasivo. Peraltro, nel corpo dell’intervista, si fa cenno ad «approcci naturali di ridotta invasività», senza specificare quali siano: sarà mica che per «non invasività» si voglia intendere «ridotta invasività»? Ed è possibile, in tal caso, che così seri professionisti e così seri cattolici siano così trasandati nell’uso di termini attinenti ad argomenti così delicati? Ci rifiutiamo di crederlo. Per nostri limiti, ovviamente, dev’esserci qualcosa che ci sfugge. Conviene cercare lumi nelle parole di monsignor Zygmunt Zimowski, presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari, dunque responsabile delle 117.467 strutture sanitarie cattoliche attive in tutto il mondo, compresa la Casa di Cura «Santa Famiglia».
Può darsi che queste perplessità ci assalgano perché ci sfugge qualcosa. Per esempio, cosa sarà mai la «chirurgia medica non invasiva» che viene contemplata tra le prestazioni offerte alle coppie infertili? Può darsi che il giornalista abbia riportato in modo infedele le parole di chi ha intervistato, di fatto in ginecologia ogni momento chirurgico è invasivo. Peraltro, nel corpo dell’intervista, si fa cenno ad «approcci naturali di ridotta invasività», senza specificare quali siano: sarà mica che per «non invasività» si voglia intendere «ridotta invasività»? Ed è possibile, in tal caso, che così seri professionisti e così seri cattolici siano così trasandati nell’uso di termini attinenti ad argomenti così delicati? Ci rifiutiamo di crederlo. Per nostri limiti, ovviamente, dev’esserci qualcosa che ci sfugge. Conviene cercare lumi nelle parole di monsignor Zygmunt Zimowski, presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari, dunque responsabile delle 117.467 strutture sanitarie cattoliche attive in tutto il mondo, compresa la Casa di Cura «Santa Famiglia».
Sua Eccellenza ha detto: «La
Chiesa si fa vicina a questi nostri fratelli che soffrono, incoraggiando fortemente
la ricerca scientifica, volta al superamento naturale della sterilità. Ecco
perché questi centri sono molto importanti». Ricerca scientifica volta al superamento naturale, ecco, ora tutto è chiaro.
Proprio
Fin dall’adolescenza mi accompagna un imbarazzo che col tempo è diventato sempre più
tollerabile. Ma forse imbarazzo è termine improprio, e anche tollerabile non rende
a dovere. Per farla breve: tutte le volte che sento dei maschi parlare di
questa o quella femmina, e con pressoché unanime benevolenza di giudizio, soprattutto quando la benevolenza è espressa in modo particolarmente enfatico, non mi ritrovo quasi
mai in quel che dicono. Ma forse ritrovarsi non esprime bene il concetto, e perfino maschio e femmina sono locuzioni inadeguate. Potrei spiegarmi meglio con qualche esempio, forse. Potrei dire di Moana Pozzi: ho visto, e ancora vedo, che tutti le son devoti come fosse una dea dell’amor carnale, ma a me è sempre sembrata un pesce lesso, anche un po’ scotto. Per tenerci nel settore, dico, Luce Caponegro non la surclassava? Ma forse non ho scelto l’esempio migliore, potrei raccontare della volta che opposi Françoise Hardy a Rachel Welch – eravano nei primi anni Settanta – e fui sepolto dagli sghignazzi: «Ma che dici? Quella non ha neanche due etti di tette». Potrei stendere un elenco senza fine di casi analoghi, ma mi risolvo a dire di aver passato la vita intera a non trovare convincenti gli entusiastici elogi che praticamente tutti rivolgevano alle grazie di certe femmine che
a me non dicevano niente o addirittura sembravano dei veri cessi, e vengo ai
nostri giorni, e (mi) chiedo: ma la Madia può a qualche titolo sollecitare
fantasie sessuali? e la Boschi, con quel culone basso e quella faccia da
cavallo, è bella? e, giusto per tornare indietro a qualche capannello di
arrapati della passata stagione, la Minetti era ’sta gran cosa? Insomma, non ci siamo proprio.
giovedì 6 novembre 2014
Napolitano e l’amnistia
Il
Corriere della Sera pubblica brani dall’ennesimo
libro di Vespa, da oggi in libreria. Stralciando
quanto è irrilevante a porre i termini della questione che qui intendo
sollevare, riporto un passaggio che nel testo è attribuito in virgolettato ad Alfano.
«Nel
settembre 2013 chiesi un appuntamento al presidente della Repubblica e gli
preannunciai al telefono che volevo parlargli della grazia [a Berlusconi]. […] L’incontro […] avvenne nella tarda
mattinata del 24 […]. Il presidente mi dice quattro cose. 1) Se Berlusconi si
dimette prima del voto sulla decadenza evitando al Senato un grande trauma, lui
è pronto a concedergli la grazia, ovviamente secondo le norme di legge. 2) È
disponibile anche a rivederne le condizioni. Mentre finora Napolitano aveva
detto che avrebbe esaminato una domanda, ora si dimostra disponibile a riconsiderare
l’ipotesi di un gesto unilaterale. 3) Aggiunge di essere pronto a diffondere un
comunicato in cui dice che il giudizio penale sul caso Mediatrade riguarda il
Berlusconi imprenditore, ma la sua biografia è molto articolata e va valutata
nel suo complesso. 4) Si dice anche disponibile a fare un appello al Parlamento
in favore di un provvedimento generale di amnistia e indulto».
Ritengo
che quanto esposto al primo e al secondo punto non sollevi alcun problema: se la
condanna è definitiva, il presidente della Repubblica può concedere la grazia a
chi vuole; e può arrivare a volerlo per le vie che meglio crede; e non è tenuto
a concederla solo se gliene viene fatta domanda; e, nel caso sia inizialmente intenzionato
a farlo solo se gliene viene fatta domanda, può cambiare idea, anche in questo
caso senza dover rendere conto del perché l’abbia cambiata.
Anche
il terzo punto non solleva particolari problemi: il presidente della Repubblica
può diffondere tutti i comunicati che ritiene utile diffondere, tanto più se intende
spiegare le ragioni di una grazia che si appresta a concedere e che potrebbe
sollevare perplessità, sconcerto o contrarietà nell’opinione pubblica. Non ne
ha l’obbligo, né è detto che le spiegazioni possano soddisfare il fine, ma il fatto che ci provi, via, può perfino ritenersi encomiabile.
È
il quarto punto, invece, che dà da pensare, e sotto diversi aspetti. In
primo luogo, perché tirare in ballo un provvedimento generale di amnistia e
indulto nell’ambito di una discussione che verte sulle sorti personali e
politiche di un condannato in via definitiva, se non come alternativa alla grazia,
al fine di dargli quell’agibilità che di lì a poco la legge Severino gli
potrebbe sottrarre? L’indulto non estingue le pene accessorie come la prescrizione
dai pubblici uffici, ma l’amnistia estingue anche il reato, sicché, se
amnistiato, Berlusconi non sarebbe andato incontro alla decadenza da
parlamentare e soprattutto avrebbe potuto ricandidarsi in caso di elezioni
politiche. Non mi pare ci sia altra spiegazione per motivare la promessa di
interessamento che Napolitano offre ad Alfano in ordine all’attivazione di un
iter parlamentare per arrivare a un indulto e
a un’amnistia.
Qui
occorre tornare un attimo a ciò che Alfano racconta a Vespa: «Ero letteralmente entusiasta e corsi a
palazzo Grazioli, convinto di portare a Berlusconi una notizia clamorosa. […]
Berlusconi mi ascoltò senza formulare un giudizio definitivo. In quel momento entrò
Ghedini. Disse che, di fatto, la proposta di Napolitano equivaleva a far ritirare Berlusconi dalla politica e che
quello che a me appariva un grande risultato in realtà era il nulla. […] Berlusconi
disse: “Andiamo a pranzo”. E non se ne parlò più».
Sembra
pacifico che, in mancanza di una risposta positiva da palazzo Grazioli, Napolitano
dovesse ritenere chiuso il discorso sulla grazia. E tuttavia, dodici giorni
dopo, il tempo di scriverlo, arriva il suo messaggio alle Camere, nel quale, tra l’altro, solleva la
questione di eventuali «rimedi
straordinari» alla «drammatica
questione carceraria»: indulto e amnistia che si auspica siano «di sufficiente ampiezza, ad esempio pari a tre anni di reclusione». Incidentalmente, Berlusconi ne godrebbe i benefici.
Con l’occhio del dietrologo sembrerebbe che Napolitano offra a Berlusconi un’alternativa alla grazia, che, alle condizioni poste, non sembra riscuotere entusiasmo a palazzo Grazioli, fatta eccezione per Alfano. Ma noi non abbiamo l’occhio del dietrologo e vogliamo credere che il messaggio alle Camere fosse già pronto e che Napolitano l’abbia voluto spendere come offerta che non gli costava niente. Una notevole cazzimma, ma insomma.
Certo che l’occhio del dietrologo, anche quando non ce l’hai, te lo fanno venire. C’era, infatti, chi chiedeva quel messaggio a Napolitano da più di due anni – e chiedere è eufemismo, perché arrivò a dargli del criminale per il fatto che non esaudisse quella richiesta, arrivò a minacciare la messa in stato d’accusa per tradimento della Costituzione – e per due anni quel messaggio non arrivò. La questione carceraria era d’un tratto diventata ineludibile grazie all’incontro con Alfano. E poi c’è chi dice che è un uomo inutile?
Con l’occhio del dietrologo sembrerebbe che Napolitano offra a Berlusconi un’alternativa alla grazia, che, alle condizioni poste, non sembra riscuotere entusiasmo a palazzo Grazioli, fatta eccezione per Alfano. Ma noi non abbiamo l’occhio del dietrologo e vogliamo credere che il messaggio alle Camere fosse già pronto e che Napolitano l’abbia voluto spendere come offerta che non gli costava niente. Una notevole cazzimma, ma insomma.
Certo che l’occhio del dietrologo, anche quando non ce l’hai, te lo fanno venire. C’era, infatti, chi chiedeva quel messaggio a Napolitano da più di due anni – e chiedere è eufemismo, perché arrivò a dargli del criminale per il fatto che non esaudisse quella richiesta, arrivò a minacciare la messa in stato d’accusa per tradimento della Costituzione – e per due anni quel messaggio non arrivò. La questione carceraria era d’un tratto diventata ineludibile grazie all’incontro con Alfano. E poi c’è chi dice che è un uomo inutile?
mercoledì 5 novembre 2014
E così va bene
Non
sapevo che Mario Adinolfi scrivesse su Il
Mattino, d’altronde leggo raramente il quotidiano di via Chiatamone, e
quasi esclusivamente per consultare la pagina degli spettacoli, le rare volte
che mi prende l’uzzolo di andare al cinema o al teatro. La sorpresa, tuttavia,
non è stata quella di trovarvi un articolo di Mario Adinolfi, ma di dover
constatare una significativa metamorfosi stilistica nella sua scrittura, tanto
più sorprendente perché repentina e inattesa. Mario Adinolfi sembra aver messo
da parte il suo patognomonico becerume e mostra un tratto fine, perfino colto, da professorino di liceo classico. È sempre
lui, sia chiaro, le idee son sempre quelle, però bisogna dire che ora le
argomenta senza scoreggiare rumorosamente, flautando quasi, e con un
sorvegliato e affabile impiego della formula dubitativa che direi quasi
maieutico. Nel fondo, insomma, rimane il troglodita dal marcato profilo
comunitarista e organicista, ma occorre dire che i modi si sono sensibilmente
ingentiliti e l’utensileria retorica ha perso la volgare grossolanità che lo ha
sempre caratterizzato, peraltro accentuandosi proprio negli ultimi mesi, come non
potrà aver evitato di constatare chi abbia letto il suo Voglio la mamma, pamphlet che sembra quasi essere stato dettato dal
cardinal Ruini, sì, ma a un villico gradasso che si è concesso notevoli licenze.
Non so se questo articolo – segnalatomi da F.M., che ringrazio – debba essere
considerato un’eccezione, semmai dovuta al fatto che il lettore de Il Mattino è per lo più un borghesuccio strafottente,
pusillanime e conformista, che è meglio non turbare troppo con eccessi di
liberalismo o di illiberalismo, tenendolo a bagnomaria in un rassicurante
paternalismo, sennò arriva alle pagine sportive tutto imbarazzato, e non so nemmeno se a Mario Adinolfi potrà tornare utile la
svolta che questo articolo potrebbe voler annunciare, di fatto c’è che, a
leggere La dolce morte non è una
performance, il chiattone ferocemente ostile ai più elementari diritti
civili sembra morto e seppellito.
Parla di Brittany Maynard, Mario Adinolfi, e
con notevole furbizia non spara il solito no all’eutanasia perché la vita
appartiene a Dio, ma insinua il dubbio sul «come
bilanciare le determinazioni dell’individuo, la sua libertà e autonomia, con la
responsabilità e l’interesse della società, che non può rimanere indifferente –
se e finché è una società umana – al modo in cui i suoi membri muoiono»,
dando per scontato che il modo in cui un suo membro muore son pure cazzi suoi – della società, intendo dire – ed è dunque in diritto di metterci becco. Contrario, quindi, ad una legge che
consenta a ciascuno di decidere quando e come morire, perché «non sarebbe nel perimetro della legge che
troverebbe soluzione il problema del significato che ha la morte per l’uomo [visto che]
quel significato, come del resto ogni
significato, ogni parola, ogni concetto non è affatto nella disponibilità di
ciascuno», e qui io aggiungerei – perché Mario Adinolfi ha la tutta nuova delicatezza di non dirlo – che non può essere nella disponibilità di ciascuno se è alla società che spetta dare un senso a
vita, morte, eccetera, mentre a chi non vuole far la figuraccia di asociale spetta conformarvisi, giacché «la costruzione
del senso umano di una vita richiede qualcosa di più di un impegno meramente
individuale».
Ce n’è quanto basta per negare all’individuo la libertà e la
responsabilità di scegliere, ma in nome di un valore nobile – la socialità – e
chi vorrà mai essere così bestia da calpestarlo? Giusto chi è segnato da una tara psicologica. Perché Mario Adinolfi, qui, non fa
uso della sua solita arroganza dando della cretina a Brittany Maynard – e questo ci fa quasi dimenticare
tutte le sue sparate omofobe e antiabortiste – ma con l’acuminato strumento del
sofista solleva il dubbio se ella «abbia
voluto o no [dare pubblicità al suo gesto] per far avanzare la coscienza del problema dei malati terminali e dei loro
diritti» o per soddisfare un suo malsano esibizionismo con quella «spettacolarità che richiede necessariamente
un pubblico».
Roba da sputargli in faccia, se non fosse graziosamente offerta
in forma di dilemma etico. E qui il capolavoro: «È giusto naturalmente che il legislatore cerchi la misura, insegua il problema
morale, si interroghi circa il modo di non perdere definitivamente di vista il
destino dell’uomo, ma è un inseguimento su un terreno sul quale non può più
riuscire, avendo rinunciato ad ogni fondazione religiosa e non avendo altra legittimazione,
in sede politica, che quella individuale, a cui però non appartiene, non può
appartenere qualcosa come un senso».
Dio, insomma, può darsi non esista, ma cazzarola quanto tornerebbe comodo in questi casi. Fatto sta che, invece, il legislatore ha rinunciato a
farsi ispirare dai preti, non è riuscito a costruire un edificio etico in cui
stipare a forza, volenti o nolenti, gli individui e tutto va in vacca,
puttana Eva. Non c’è che dire: sempre lo stesso Mario Adinolfi, ma assai più
figlio di puttana.
Aggiornamento A pochi minuti dalla
pubblicazione di questo post, mi arriva un’altra email da F.M., il quale, costernato
per avermi inviato il testo dell’articolo che qui ho commentato aggiungendo
solo «leggi un po’ che dice Adinolfi»,
si affretta a farmi presente che il pezzo non è firmato «Mario Adinolfi», ma «Massimo
Adinolfi». Gli rispondo da qui: non ti preoccupare, ormai è fatta, e in più
non cambia niente, perché prima di scrivere il post sono andato a controllare
il testo originale, e avevo letto chi fosse l’autore dell’articolo, ma è
proprio grazie al fatto che avevi omesso il nome, citando solo il cognome, che
ho potuto costruire il commento nel modo in cui poi l’ho steso. E così va bene.
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