Se
vogliamo dare un minimo di considerazione agli insegnamenti di Cristo, io ci
andrei piano col definire cristiane le vittime degli attentati terroristici di
Lahore. Laddove lo fossero allo stesso modo di chi ha pensato giusto vendicarle
linciando e bruciando vivi due disgraziati che erano solo sospettati di essere
complici degli attentatori, che fine mi fa il Cristo che ripetutamente
raccomanda, dal lago Tiberiade all’orto di Getsemani, di non opporre violenza a
violenza? Cristiani come Cristo comanda non dovrebbero limitarsi a pregare per
i propri nemici? Qui, invece, le cronache parlano di feroci scontri tra
manifestanti e polizia, di negozi devastati, di auto in fiamme. Atti
poco commendevoli, anche se possiamo spingerci a
ritenere comprensibile la reazione, frutto di un’esasperazione che non si fa fatica a
compatire, certo, ma così che fine fa la tanto blaterata «differenza
cristiana»? Non tanto per darle un minimo di sostanza, che sappiamo essere di
per sé cosa assai ardua, ma almeno per evitare che una mancata condanna dei
torbidi di piazza che hanno fatto seguito agli attentati ne possa essere
considerata avallo, urge che le massime autorità religiose delle confessioni
cristiane li stigmatizzino tempestivamente. Non dovrebbero mancar loro gli
argomenti, perché Vangeli, Atti degli Apostoli e Patristica abbondano di
esortazioni a farsi massacrare in letizia. Chessò, basterebbe rammentare ai
cristiani di Lahore che «il sangue dei martiri è seme di cristiani», e dove mai
s’è visto un seme lamentarsi della semina?
lunedì 16 marzo 2015
domenica 15 marzo 2015
«Ma serve ancora votare?»
Può
darsi che l’editoriale di Angelo Panebianco sia scritto «in modo tale da
renderne possibile la comprensione a nessun altro che non sia un lettore
estremamente attento», sfruttando quella «particolare tecnica letteraria»,
illustrataci da Leo Strauss in Persecution and the art of writing (1952), «in
cui la verità delle questioni cruciali appare esclusivamente tra le righe»,
come espediente cui «gli uomini capaci di un pensiero davvero indipendente»
sono costretti a ricorrere quando non siano disposti «ad accettare le opinioni
ispirate dal governo», ma nemmeno vogliano subirne la persecuzione per il
rifiuto di «commisurare il proprio discorso a quanto il governo giudichi
conveniente». Può darsi, dico, perché, anche a leggerlo con tutta l’attenzione
di cui son capace, l’editoriale non mi pare altro che l’ennesimo compitino
sulla questione greca. Peccato, perché il titolo era allettante, sembrava
aprisse ad una riflessione più ampia e più profonda sulla democrazia, che invece qui lambisce appena la questione nel considerare che, «se il compromesso
[tra Grecia e Ue] sarà letto come una sconfitta del governo greco, allora il
messaggio generale sarà che la democrazia, in Europa, non conta nulla, che è
irrilevante ciò che gli elettori vogliono mandando al governo questo o quello».
Con quello che si prepara in Italia grazie al combinato disposto di una riforma
costituzionale e di una legge elettorale come quelle che sono in avanzata
gestazione in un Parlamento eletto col Porcellum, per porsi la questione se serva
ancora votare, Angelo Panebianco ha bisogno di andare in Grecia, come se in
Italia la questione non si ponesse.
sabato 14 marzo 2015
«Siamo pronti»
Sarà
il Giubileo straordinario annunciato a sorpresa da Bergoglio a mettere in
ginocchio Roma, non l’assalto delle milizie del Califfo, che peraltro ha avuto
la buona educazione di darne avviso con largo anticipo, perché non è
necessario, qui, spiegare quale impatto abbia a comportare un evento del genere
per una città che vanta uno sviluppo urbanistico tra i più disordinati al
mondo, una cronica debolezza delle sue infrastrutture, un debito che ammonta a
svariati miliardi di euro, basta riandare con la memoria a 15 anni fa, al
Giubileo del 2000, che era ordinario, e dunque poté godere di un minimo di organizzazione
e, già che di crisi economica non tirava ancora aria, di un vero e proprio fiume
di denaro pubblico, col quale la politica italiana comprò per sé dal Vaticano un
bel pacco di indulgenze: basta proiettare l’immane bordello che fu il Giubileo
del 2000 sulle condizioni odierne, levando soldi e programmazione, aggiungendoci
qualche milione in più di pellegrini, visto che questo papa è tanto, ma tanto,
tanto simpatico.
E il signor sindaco? Prontamente: «Siamo pronti». Se ne prenda nota.
venerdì 13 marzo 2015
Per affettuosità
Qualche
tempo fa, su queste pagine, consumai una polemicuzza con Francesco Maria Colombo, critico musicale del Corriere della Sera, prima, direttore d’orchestra, dopo, in merito alle puttanate che aveva scritto in un «manifesto antiaborto» apparso su Il Foglio del 17 agosto 2011 (1, 2, 3, 4). Come sempre accade in casi analoghi, per affettuosità, affidai a Google alert l’incarico di tenermi informato su sue eventuali e ulteriori puttanate in tema e, giacché son troppo pigro per imparare come si rimuove, l’alert è ancora lì, e di tanto in tanto mi fa sapere che Francesco Maria Colombo si è fatto fare dal sarto un frac da dio, che il giorno tot e all’ora tot dirige la tale orchestra, che ha letto con commozione questo o quel libro di autore regolarmente esotico, che una pupa fatale gliel’ha data, che a Kiev il clima è piacevolmente temperato, che è tentato dal lasciare il mondo della musica per quello della fotografia... Robe così, insomma, da dandy un po’ fuori dal tempo, ma in fondo tanto simpatiche, e poi estremamente riposanti tra le noiose news di licenziati qui e decapitati lì, come tempura di petali di rosa tra una bistecca al sangue e l’altra. Genetica? Bioetica? Mai più sfiorate, e questo è quello che più conta. Di tanto in tanto, questo sì, uno sguardo al mondo di sotto, col sopracciglio alzato, questo sì, ma sempre ben disposto a tirare brioches dal balcone alla plebaglia che strepita di sotto. Così anche ieri, sui ragazzacci che avevano da ridire sulla riforma della scuola, perdindirindina, gli hanno causato uno spiacevolissimo disguido ferroviario impedendogli di andare a Parma. «Ignorantissimi,
sgraziati, incapaci di parlare in italiano... però
cerco di capire, e mi leggo [sic] sul Corriere online le loro motivazioni, le loro
proposte...». E dunque? «Buffonate». Soluzione? «A
casa (dopo aver ripulito lo scempio), a fare i compiti, a imparare a memoria
l’Adelchi, a impegnarsi a testa bassa, e se non si ottengono risultati si va a
letto senza cena, oppure si lascia la scuola e si va a bottega a lavorare. Poi
non lamentiamoci se, mentre noi ci balocchiamo con la vernice rosa e le
autovalutazioni, il mondo del lavoro verrà monopolizzato dai cinesi». Potrà piacere o non piacere, ma, via, s’intona perfettamente al frac. Nulla da eccepire, se non fosse che il post chiude col consiglio: «leggansi
le memorie di Lang Lang, e i metodi didattici che si usavano con lui». E qui sorge il problema. Perché non sappiamo dei metodi didattici che si usavano con Lang Lang, però, a sentire come suona, c’è da supporre siano buoni a formare degli ottimi operai addetti alla pressa, non pianisti.
Mi sembra così semplice
Ottimo
esempio della differenza che c’è tra verità storica e verità giuridica, quello
del cosiddetto caso Ruby, ce ne sarebbe per mettere d’accordo tutti, amici e
nemici di Berlusconi, ma le passioni sono cieche anche davanti all’evidenza:
anche il peggio del peggio, con quanto di relativo resta nel superlativo, può
restare penalmente irrilevante, per la semplice ragione che la legge non può
mai del tutto penetrare nei fatti, come invece è agevole per l’opinione personale,
che vi entra e li risistema al meglio del meglio, con quanto di relativo resta nel superlativo. Berlusconi è innocente, ma colpevole, ma innocente, ma colpevole, via, mi sembra così semplice.
giovedì 12 marzo 2015
La voce del padrone
Solo
«la forma repubblicana non può essere
oggetto di revisione costituzionale», per tutto il resto basta
la «maggioranza assoluta dei componenti
di ciascuna Camera», e io ce l’ho, che cazzo avete da obiettare? Come? Deriva autoritaria? Ma fatemi il piacere, «la
sovranità appartiene al popolo», certo, che però «la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione»,
quindi, basta che la repubblica resti repubblica e non diventi monarchia, forme
e limiti della sovranità popolare li decido io, cioè, pardon, la maggioranza parlamentare,
tanto è la stessa cosa, visto che con l’Italicum la tengo per le palle. Non vi
sta bene? Sbraitate pure, è tutto regolare. Come, non è regolare? Calamandrei?
E chi è? Ah, vabbe’, un parruccone. E che diceva? Vabbe’, ma era un secolo fa.
Ovvìa, tagliamo corto, ché fra mezz’ora ho squash. Mettiamola così: vi assicuro
che ci sarà un referendum anche se dovessi avere i due terzi dei voti alla
Camera e al Senato, tanto non ce li ho. Basterebbe un quinto dei deputati o
dei senatori a chiederlo, ci si arriverebbe comunque, dunque che mi costa dire
che lo voglio io? Vi concedo il referendum, ok? Mica mi fa paura, anzi, al
pensiero già godo come un porco. Mi ci vedo già. «Italiani, volete mica continuare
a buttare soldi nel Cnel? No, eh? Bravi. E che ne dite di un Senato che non vi
costi nulla perché i senatori hanno già uno stipendio da amministratori locali?
Fighissimo, no? Eh, lo so, è un’ideona, comprendo l’entusiasmo. Anzi, già che state lì a spellarvi le mani, potreste prolungarmi l’applauso per la legge elettorale che ho pensato giustappunto per voi? Occhio alla slide, si
tratta di una cosina che semplifica tutto alla grande: basta che mi
votiate e per cinque anni penso io a tutto, ma proprio a tutto. Provare per
credere, come diceva Bacone». Chi è che mormora lì in fondo? Come? Non era
Bacone? Aiazzone? Non stiamo a sottilizzare, l’importante è la pregnanza del
concetto.
[...]
Se
la generalizzazione è quello strumento della conoscenza del reale che sfrutta la
funzione del cosiddetto attenuatore di varietà per semplificare e velocizzare
il processo cognitivo ma per dare risultati spesso assai insoddisfacenti e
talvolta tragici, c’è una condizione del reale che ha in sé un intrinseco attenuatore di varietà che fa della generalizzazione lo strumento più efficace a coglierla,
e questo è il caso, sempre tragico, in cui la varietà si pone a ostacolo della
necessità di semplificare e velocizzare la costruzione della norma che si
ritenga necessario informi il reale. Accade quando il reale pone un problema di
difficile soluzione, con la tentazione di trovarla nella ridefinizione del
problema, adeguandolo a una soluzione già pronta, considerata quella buona per
ogni problema, e che si è soliti chiamare «soluzione di forza», dove la «forza»
non è quella che risolve il problema, ma quella che impone come migliore
soluzione quella di ridefinirlo, per lo più eludendone il senso, poco importa se in buona o in cattiva fede, per mera ignoranza o per disonestà intellettuale. Quando questa «forza» risulti efficace, il
cosiddetto attenuatore di varietà avrà per tempo avuto effetti su quanti si
saranno persuasi che questa sia la migliore soluzione: la generalizzazione sarà
nei fatti, non nel processo cognitivo che li prende a oggetto. Ecco perché è possibile
generalizzare, e dire, senza far loro alcun torto, che, al netto della faccia
più o meno di cazzo, i renziani sono tutti uguali: in essi la «soluzione di
forza» non è tanto agente, ma agita. Presto ancora, invece, per dire renziana la
stagione politica che attraversiamo: sarebbe una generalizzazione, che tuttavia
potrebbe realizzarsi nei fatti, se entrasse a regime l’attenuatore di varietà
ancora in fase di collaudo.
mercoledì 11 marzo 2015
Un’alta onda di merda
I
357 deputati che ieri hanno votato la più schifosa delle riforme costituzionali
possibili rappresentano meno di un terzo degli aventi diritto al voto, ma nella
Camera sono maggioranza in virtù di una legge elettorale che li ha portati in
Parlamento neanche da eletti, ma da nominati. Ricattabili come tutti i gregari
che non hanno altro peso se non quello che dà loro omogeneità di massa, oggi,
alle viste della legge elettorale che sostituirà quella vecchia, già dichiarata
incostituzionale, sono ancora più ricattabili di quanto lo fossero al momento
di entrare in Parlamento, buoni solo a dire sì quando gli è chiesto, meglio se
mostrandosi entusiasti, sennò giusto a mugugnare un poco e a dire sì lo stesso,
in nome della fedeltà alla banda, se non al capobanda. Solo per questo
dovrebbero vergognarsi di aver stravolto una Carta scritta da una Costituente
eletta col proporzionale, e che dunque era espressione di tutto il Paese, nella
quale peraltro sedevano uomini di cui un solo pelo del cazzo valeva più quanto oggi
valgano tre dozzine di renziani. E tuttavia si sa che i gregari sono capaci di
tutto tranne che di vergognarsi, sicché è del tutto inutile rammentare al
grosso di questi scellerati che nel loro programma elettorale non vi fosse
traccia di alcuna riforma costituzionale, men che meno di una che facesse tanto
schifo quanto quella votata ieri. Un’alta onda di merda passa sul Paese, sulla
sua cresta una tavola da surf, e sopra, al momento in perfetto equilibrio, un
imbecille drogato di autostima.
lunedì 9 marzo 2015
domenica 8 marzo 2015
[...]
Ecco l’ennesimo
cretino, stavolta prestigiosissimo, a sostenere che don Giussani odorava di giaggiolo
e di mughetto, mentre Cl ormai puzza di cacca. Oddio, non proprio in questi
termini, ma insomma, tenuto conto che l’occasione era un’udienza concessa ai
ciellini nel decimo anniversario della morte di don Giussani, sentirsi dire da
Bergoglio che «io sono di Cl» fa «spiritualità di etichetta» è come beccarsi l’aspersorio
sui denti.
Sia chiaro, almeno qui si è solidali con Cl: avendo letto tutto ciò
che don Giussani ha scritto, troviamo che la dolce mafiosità di Cl, a metà tra
holding e setta, sia fedelmente conseguente al suo
insegnamento. E perciò esprimiamo il nostro più sincero apprezzamento a Luigi
Amicone, che, intervistato da Virginia Della Sala per Il Fatto Quotidiano, con
le gengive ancora gonfie, abbozza come si conviene e molto giussanianamente ribadisce:
«Ci sono stati scandali, però non rinunciamo al potere». Che poi, alla faccia di ’sti cafoni che arrivano dalla fine del mondo a propinarci la loro catechesi da buzzurri, è sintesi perfetta di ciò che don Giussani ha misteriosoficamente celato in All’origine della pretesa cristiana (Jaka Book, 1988). Bravo Amicone! Io ci avrei messo pure un «a la mierda, hijo de puta», ma pure così va benone, ché i papi passano, ma la Compagnia delle Opere resta.
[...]
C’è
una vulgata di pretto stampo reazionario che in chi contesta i guasti e le ingiustizie
di un sistema vuole sia prudente sospettare il malintenzionato che vuole
costruirsene uno nuovo, a sua misura, non meno ingiusto, forse ancor più
guasto, e che perciò sui suoi argomenti debba pesare sempre il sospetto che un
domani migliore dell’oggi possa costare un dopodomani assai peggiore. È vulgata
che assume ruolo ancillare nella difesa dello status quo, e come tale, al pari
di ogni vulgata di pretto stampo reazionario, fa leva sulla diffidenza che è
propria di una visione pessimistica della natura umana, libera solo di
decadere, degradare, con ciò svelando la pericolosità, prim’ancora che l’illusorietà,
del progredire. Tutto molto tetro, non c’è dubbio, d’altronde l’esperienza ci
insegna che tanti fasulli innovatori sarebbe stato meglio abortirli quand’erano
ancora in pancia allo status quo, ma poi si sa che l’esperienza serve sempre a
poco o a niente, sicché non resta che far finta possa tornarci utile in un’altra
occasione, che peraltro non ci è data mai.
Il
lettore smaliziato avrà capito che queste riflessioni nascono a margine di una
lettura, e probabilmente si starà chiedendo chi sia l’autore di un libro capace
di istigare pensieri tanto insalubri. Dávila? Evola? Strauss? Macché, leggevo A viso aperto (Polistampa, 2008), di
Matteo Renzi: «Le norme di selezione per
i parlamentari – scriveva – assomigliano
pericolosamente ai criteri di alcune trasmissioni tv, ma la casa degli italiani
non è la casa del Grande Fratello, è il Parlamento della Repubblica. Ridateci
le preferenze, tenetevi la vostra Isola dei Famosi». E poco oltre: «Dentro al partito farò una battaglia per il
ritorno delle preferenze. È un diritto dei cittadini scegliere le persone e non
vedersele imposte». A quei tempi sarebbe bastato un ferro da calza, oggi
non basterebbe una divisione di alabardieri.
venerdì 6 marzo 2015
[...]
Riprendendo
la via per non so più quale paesino papà aveva deciso valesse la pena andare a
villeggiare – mi pare fosse Allumiere – gli chiesi perché non avesse dato un
cazzotto sul naso a quello scostumato che ci aveva trattato peggio che se
fossimo stati dei criminali. Si sarà espresso sicuramente con altre parole, ma la
risposta fu più o meno questa: «Lui’, fino a due giorni fa quello portava le pezze
al culo, e oggi indossa una divisa da carabiniere: non c’è da stupirsi che sia
un poco screanzato quando chiede libretto e patente: la vertiginosa ascesa da
morto di fame a rappresentante dello stato gli ha fatto perdere il controllo
della misura. Più che indispettire, intenerisce, via». Ripensandoci, a un
bimbetto di sette o otto anni sarebbe stato meglio dire che un cazzotto a quel carabiniere ci avrebbe rovinato la villeggiatura, e spiegando il perché. Voglio immaginare
dipenda da questa esperienza infantile il fatto che dinanzi all’arroganza e
alla prepotenza di chi rappresenta lo stato, prima di indignarmi e protestare,
io sia portato a cercare di spiegarmi quale sia il problema psicologico che le
genera. Questo mi pare possa essere il motivo per cui da queste pagine non ho
mai contestato nulla alla Boldrini: fino a due giorni fa era una comunistella
di Sel, e oggi è alla Presidenza della Camera, c’è da capirla quando sbaglia, passando oltre.
Lo stile
Ieri
sera, da Santoro, Faraone somigliava in modo impressionante al Cuffaro che in
un Maurizio Costanzo Show d’annata polemizzava con Falcone. Dev’esserci una
scuola che sforna quello stile, e lo stile è il manico della brocca.
giovedì 5 marzo 2015
In entrambi i casi, anche se per vie diverse
Ho
voluto che passasse qualche giorno dalla diffusione del video che documenta la distruzione delle opere d’arte conservate nel Museo di Mosul ad opera degli
uomini dell’Isis, perché quello che avevo da dire era fuori tema rispetto alle
questioni sollevate, che d’altronde erano pienamente legittime, ma a mio
modesto avviso superficiali, e per superficiali non intendo dire vacue o
frivole, ma – letteralmente – poste in superficie al problema vero, che –
voglio dirlo subito – è relativo all’esegesi biblica di Es 20, 4.
Innanzitutto c’era da descrivere, più che discutere,
tutte le sfumature dell’orrore che un occidentale prova alla sola idea che un’opera
d’arte dell’antichità vada distrutta per mano d’uomo. Sacrosanto orrore,
indubbiamente. Fatta eccezione per il movimento futurista, infatti, e al
momento non mi viene in mente altro, tutta la storia dell’occidente è storia di
un vero e proprio culto delle opere d’arte del passato. E tuttavia mi è parso
che questo orrore sia stato solo la trama emozionale sulla quale venivano
intessute le questioni ritenute degne di attenzione. Erano originali, quelle
statue, o copie? Qual era il fine ultimo di quel video? E appena un po’ più sotto
a quell’orrore, ma ancora ben distante dal cuore del problema: tanta barbarie poteva
dirsi aderente al dettato coranico, dunque propria della natura dell’islam, o invece
era da considerare come ennesimo saggio di una lettura fondamentalista del Corano? Questione
un po’ più seria, questa, ma solo in apparenza, perché il Museo di Mosul è
stato costruito da musulmani, e da musulmani è sempre stato gestito, il che
naturalmente ci dice poco o nulla sulla correttezza della lettura che essi
hanno fatto del Corano relativamente al punto che vieterebbe la rappresentazione
di persone e animali («O voi che credete,
in verità, il vino, il gioco d’azzardo, gli idoli, le frecce divinatorie, sono
immonde opere di Satana» - Corano 5, 90), anche se un’idea possiamo farcela
sapendo che «idoli» è espresso dal
termine «ansab», che letteralmente è «pietra eretta» (statua, stele, obelisco),
e che nel Libro questa relativa agli «idoli»
non trova la solita ripetizione che è tipica di tutte le più importanti prescrizioni.
La faccenda è ancora più ambigua alla lettura degli hadith, che, com’è noto, sono
le sentenze che cercano di far chiarezza sui versetti del Corano che si
prestano ad interpretazioni controverse: secondo epoca e luogo, «ansab» conserva il significato
restrittivo del termine o accoglie estensivamente tutto ciò che è «immagine», con un ventaglio normativo relativamente
ampio, dalla tolleranza dell’«ansab»,
ma col divieto di produrlo, alla sua condanna, fino all’ordine di distruggerlo
(e in quest’ultimo caso siamo nella piena tradizione degli hadith di scuola
salafita).
Ciò detto, occorre chiederci donde possa trarre giustificazione
esegetica la distruzione delle immagini di persone e animali. Qui, senza entrare
troppo nello specifico, possiamo limitarci a dire ciò che vale in innumerevoli
altre occasioni: il Dio del musulmano è lo stesso Dio dell’ebreo e del
cristiano, come d’altra parte ebrei e cristiani non fanno fatica a riconoscere,
anche se le differenze – e significative – sorgono quando si tratta di dargli i
connotati del legislatore. L’islam, poi, si sente momento compiuto della vera fede che nell’ebraismo e nel cristianesimo vede stadi anteriori e ancora imperfetti.
Bene, nel caso del divieto di produrre «immagini», la primigenia fonte islamica è il Vecchio Testamento («Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra» - Es 20, 4). Si tratta del passaggio della consegna delle Tavole della Legge a Mosè, ed è stranoto che, mentre la tradizione che da Filone Alessandrino e Giuseppe Flavio è passata alla Chiesa antica, e dunque a quella greca-ortodossa e a quella riformata, fa del versetto un comandamento a sé stante, quella che la tradizione cattolica romana prende dalla lettura biblica di Agostino d’Ippona lo incorpora nel primo comandamento («Non avrai altri dei di fronte a me» - Es 20, 3), sicché «idolo» e «immagine» diventano «riproduzione di altra divinità che non sia io», e questo pone qualche problema con «quanto è quaggiù sulla terra» e «ciò che è nelle acque sotto la terra», laddove non si tratti di entità divinizzate. D’altronde è questa problematicità a prestarsi come argomento alla furia degli iconoclasti cristiani del VII e dell’VIII secolo. C’è da pensare che distruggessero opere d’arte antiche come abbiamo visto gli uomini dell’Isis distruggere quelle custodite nel Museo di Mosul. In entrambi i casi, anche se per vie diverse, l’ordine veniva dal Monte Sinai.
Bene, nel caso del divieto di produrre «immagini», la primigenia fonte islamica è il Vecchio Testamento («Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra» - Es 20, 4). Si tratta del passaggio della consegna delle Tavole della Legge a Mosè, ed è stranoto che, mentre la tradizione che da Filone Alessandrino e Giuseppe Flavio è passata alla Chiesa antica, e dunque a quella greca-ortodossa e a quella riformata, fa del versetto un comandamento a sé stante, quella che la tradizione cattolica romana prende dalla lettura biblica di Agostino d’Ippona lo incorpora nel primo comandamento («Non avrai altri dei di fronte a me» - Es 20, 3), sicché «idolo» e «immagine» diventano «riproduzione di altra divinità che non sia io», e questo pone qualche problema con «quanto è quaggiù sulla terra» e «ciò che è nelle acque sotto la terra», laddove non si tratti di entità divinizzate. D’altronde è questa problematicità a prestarsi come argomento alla furia degli iconoclasti cristiani del VII e dell’VIII secolo. C’è da pensare che distruggessero opere d’arte antiche come abbiamo visto gli uomini dell’Isis distruggere quelle custodite nel Museo di Mosul. In entrambi i casi, anche se per vie diverse, l’ordine veniva dal Monte Sinai.
martedì 3 marzo 2015
Vicienzo ’a Funtanella
Sorprende,
se non è di maniera, la sorpresa che i media riservano alla vittoria riportata
alle primarie del Pd da Vincenzo De Luca (Vicienzo ’a Funtanella, per gli amici, a
causa dei ridondanti spruzzetti di saliva che schizza quando il tono gli va
sullo stentoreo): tenuto conto di cosa siano le primarie in una regione come la
Campania, anche quando siano regolari, visto che le primarie, di per se stesse,
hanno regole così lasche che tra l’una e l’altra ci passa pure un cane di
grossa taglia portando una scopa in bocca; tenuto conto di chi erano i
concorrenti, vuoi quello che s’è ritirato, più che altro per non inaugurare l’entrata nel Pd con una figura di merda, vuoi quello che ci ha provato, più
che altro sacrificandosi per dare un minimo di pathos a una partita che tutti
sapevano non avesse storia; tenuto conto di chi è Vicienzo, inteso come mito, e
di come sono fatti gli elettori ai quali chiedeva il voto, inteso come tributo al
mito; tenuto conto, soprattutto, di come butta la politica di questi ultimi tempi, la sua vittoria era largamente
prevista, alla faccia della legge Severino, alla faccia del partito che lo
implorava di fare un passo indietro, alla faccia della faccia di Gennaro
Migliore, che per calarsi al meglio nella parte del candidato unitario unico s’era
pure cambiato la montatura degli occhiali, che manco più sembrava un comunista,
ma un amico d’infanzia di Matteo Renzi, quello che gli passava il compito di
matematica. Una furia, Vicienzo, e cotanta cazzimma, cotanta guapparia, cotanta
sfaccimma d’uomo – uomo, per giunta, di cotanta conseguenza – in Campania fanno
il deus ex machina. Interdetto dai pubblici uffici, ma, come il tizio cui fai
presente che corre come un pazzo e contromano, «e che è, ho acciso a quaccuno?».
Benemerito della caccia alla puttana e al rom, piglio da federale col bastone
animato, patrono dell’urbanistica in scala 1:1, mandibola da pugile, retorica
ipertiroidea – e come poteva non vincere, Vicienzo? Non resta che vederlo menar
le mani con Stefano Caldoro, ma già sembra di vederlo. «Giovinotto, ma è vero
che andate coi trans? Non vi offendete, ohinè, era voce che girava tra i vostri
amici di partito, io mi limito a darvi modo di smentirla».
lunedì 2 marzo 2015
Corrispondenze
Questo
post è una lettera aperta in risposta a chi mi ha scritto dicendo che mi stima
tanto, mi legge sempre con piacere, bla bla bla, ma s’incazza quando nego che
le radici d’Europa siano cristiane, perché gli sembra che io voglia chiudere gli
occhi su una realtà di fatto, e questo gli dispiace, perché gli pare che in
questo modo io faccia torto alla mia intelligenza. Capirete bene che non posso
lasciare nell’afflizione un lettore che mi insulta in modo così carino, dunque eccomi
qui. Sarà un post lungo e noioso, che almeno a chi mi legge già da tempo
consiglio di
saltare senza indugio, perché qui ripeterò cose già dette.
Ciò
premesso, caro ***, vogliamo innanzitutto metterci d’accordo su quello che
debba intendersi con «cristiano»? Da quello che mi scrivi («in Europa ogni due
passi c’è una chiesa, l’arte è piena di cristi e di madonne…») devo supporre tu
voglia intendere quanto attiene al cristianesimo, dunque si tratterebbe di
radici non più vecchie di venti secoli. Ammesso e non concesso che prima, col
mondo greco e con quello romano, non si potesse propriamente parlare di Europa
o che, in subordine, il mondo greco e quello romano siano stati solo il terreno
dal quale le radici di cui parliamo abbiano tratto un qualche nutrimento, di
quale cristianesimo parliamo?
Non
di quello primitivo, suppongo, che nasce in Palestina, terra che con l’Europa
c’entra assai poco, come corrente dell’ebraismo, in opposizione alla gerarchia
che reggeva il Tempio di Gerusalemme, e nemmeno è detto ancora cristianesimo.
Ti risparmio la sinossi delle convinzioni che nutrivano i primi seguaci del
movimento, d’altronde ci sarebbe da perderci la testa per le differenze anche
marcate riscontrabili tra una comunità e l’altra. Mi limito a dirti che solo un
buontempone potrebbe intravvedere in quell’embrione qualcosa che abbia a che
fare con quella che a quei tempi già si chiamava Europa, men che meno con
quella che sarà l’Europa nei secoli successivi, e perfino con lo stesso cristianesimo
di là a qualche decennio.
E
allora sarà che le radici cristiane dell’Europa debbano essere cercate nel cristianesimo
del II secolo? Nemmeno. In quel secolo il cristianesimo è ben diverso da quello
che verrà dopo: è religione di classi agiate che si predispongono alla fine dei
tempi, che è attesa da un momento all’altro. Ha già avuto qualche
contaminazione con l’ellenismo, ma rimane ancora una profezia biblica, nella
quale nessuna Europa precedente o da venire è neppure rappresentabile. Solo
verso l’inizio del III secolo, visto che la fine dei tempi non arriva, i
cristiani tornano a una vita più o meno normale, mentre si dovrà aspettare
ancora un altro secolo perché il cristianesimo si faccia cristianità, comunità
unitaria e gerarchizzata che mira a un’espansione senza limiti e a un controllo
pieno di tutte le attività sociali. Fino a qualche decennio prima, i cristiani
si disponevano sereni al martirio pur di non essere reclutati in un esercito,
mentre da qui in poi sarà prevista la scomunica per quelli che abbandonano il
servizio militare.
È
in questo periodo, con Costantino, che il cristianesimo si fa europeo,
innestandosi sul mondo romano, sulle sue tradizioni, la sua cultura, la sua
storia, parassitando radici che erano già lì da almeno una dozzina di secoli. A
parte, potremmo discutere di quanto il cristianesimo sia realmente cosa nuova o
originale: in realtà, nasce già come momento sincretico tra l’ebraismo e i movimenti
religiosi del più vicino oriente. Altrettanto a lungo si potrebbe discutere di
quanto questo parassitamento abbia cambiato la natura delle radici greche e
romane dell’Europa, ma, se dobbiamo leggere la storia senza usare la lente dal
verso sbagliato, dal III secolo in poi troviamo più romanità nel cristianesimo
che viceversa, d’altronde tutta la Patristica altro non è esegesi evangelica funzionale
alla sovrapposizione della Chiesa sull’Impero.
È
da questo punto in poi che viene meno la tolleranza verso le innumerevoli
varianti dottrinarie che convivono nel mondo cristiano e che inizia la lotta a
quelle che così diventano eresie. Di pari passo comincia a prender forma quella
imperializzazione del cristianesimo che sarà fatto compiuto solo tra il V e il
VI secolo, quando, neutralizzato per assorbimento quanto è riutilizzabile e non
sopprimibile del paganesimo, la cristianità assume i caratteri distintivi che,
con gli aggiustamenti del caso, manterrà fino a quando non si comincerà a
metterla in discussione.
Il
cristianesimo impone il suo segno sulle bandiere d’Europa per soli dieci
secoli, dodici a volerci mantenere larghi. Dieci-dodici secoli nei quali può godere della pienezza dei mezzi necessari a
impregnare di sé la vita di milioni di individui, dalla culla alla tomba, con
la pervasività di una violenza che non risparmia niente. Non si tratta di
«radici», caro ***, si tratta di rami e foglie che non lasciano spazio ad
altro, e fra i quali ogni nido assume la forma del bozzolo, fuori dal quale è
semplicemente negata la possibilità di vita e di pensiero. Nessuno nega che lo
spazio storico e geografico detto Europa sia ingombro di questa vegetazione –
non io, mai fatto, anzi – ma affermare che l’Europa o sia cristiana o non sia,
onestamente, mi pare una bestialità.
In
quanto al fatto che la sostanza antropologica solitamente detta Europa rechi il
segno indelebile del cristianesimo, che neanche il suo avanzato stadio di
secolarizzazione è fin qui riuscito a rendere indistinguibile, nulla quaestio:
si tratta di quanto resta di una conquista, di tratta nel marchio a fuoco
impresso sulle carni dell’animale. Cosa diversa è voler dare a questo segno un
senso diverso: le assurdità, le ambiguità e le contraddizioni che usque ab ovo
troviamo nel cristianesimo, e che pure acquistano una loro logica nel darsi in
elementi dialettici all’interno di una storia, restano quel che sono anche nel
loro precipitato, e dunque prefigurano la crisi del cristianesimo per cause che
gli sono intrinseche, prima fra tutte il nodo tra immanenza e trascendenza
stretto nel dogma dell’incarnazione, perché un Dio che s’incarna non può che
fare una brutta fine, anche dichiarandone la resurrezione. In secondo luogo, dare
al Dio unico un carattere trinitario: torna utile a inverare nella storia il
suo corpo mistico, ma lo espone pure a pulsioni disgreganti.
Come
vedi, caro ***, parlare di «radici cristiane dell’Europa» è un’operazione
storiografica – insieme – ingenua e strumentale. Che di tanto in tanto venga riproposta, francamente, che palle.
P.S.
Ho cercato di contattarti per avere il permesso di riprodurre il testo della
tua lettera insieme a questa risposta, ma non mi hai dato cenno, così mi sono
risolto a sintetizzarne il contenuto della premessa e a lasciarti nell’anonimato.
domenica 1 marzo 2015
[...]
Quarantaquattro
tra deputati e senatori dei gruppi del Pd (trentadue), di Area popolare
(cinque), di Per l’Italia-Cd (cinque), di Scelta civica (uno) e di Lega Nord e
autonomie (uno) scrivono una lunga lettera a Matteo Renzi, oggi sulle pagine di
Avvenire, perché nel «Piano per la buona scuola» che il governo si appresta a
portare in Parlamento vi siano misure di sostegno economico alla scuola privata,
rammentandogli che fanno parte della maggioranza che sostiene il governo e
producendo gli argomenti, i soliti, che fin qui sono bastati ad eludere l’art. 33 della
Costituzione, laddove esso recita che «enti e privati hanno il diritto di
istituire scuole ed istituti di educazione, [ma] senza oneri per lo Stato».
Non
c’è dubbio che analoga iniziativa sarà presa anche da un nutrito numero di
parlamentari del centrodestra, e che gli argomenti saranno identici, non
escluso quello usato ogni volta che al governo c’è una coalizione almeno
nominalmente di centrosinistra, e che torna anche in questa lettera, preso di
peso da un articolo di Antonio Gramsci, pubblicato su Il Grido del Popolo il 14
settembre 1918, come ad ingiungere di onorare la fedeltà ad una prestigiosa tradizione
culturale e politica: «Noi socialisti – scriveva Antonio Gramsci – dobbiamo
essere propugnatori della scuola libera, della scuola lasciata all’iniziativa
privata e ai comuni. La libertà nella scuola [è possibile solo se la scuola] è indipendente
dal controllo dello Stato» (tra parentesi quanto è tagliato nella lettera
pubblicata su Avvenire).
Orbene, occorre far presente che di denaro pubblico in
favore di questa libertà non v’è traccia, né in questo passaggio, né nel resto
dell’articolo. Anzi, a dire il vero, quanto precede il brano citato dagli
appellanti chiarisce il contesto dal quale è estrapolata l’affermazione di
Antonio Gramsci, dandole il suo corretto significato: «Ferve nei giornali e
nelle riviste cattoliche la discussione sulla scuola libera. I cattolici
propugnano l’abolizione del monopolio di stato sulla scuola, perché sperano che
il monopolio passi nelle loro mani. Noi crediamo che i cattolici sbaglino nel
fare i conti: è vero che i preti, in quanto godono di uno stipendio e hanno
tutta la giornata libera, si troverebbero in condizione di partenza privilegiata
nel gioco della concorrenza. Ma appunto il pericolo di un assorbimento dell’attività
scolastica da parte dei cattolici metterebbe automaticamente in discussione il
problema del fondo culti e porterebbe all’abolizione di questo istituto feudale».
Niente denaro pubblico alle scuole private, dunque, ma addirittura necessità di
mettere in discussione l’erogazione dei fondi che per altre ragioni lo stato concede
al clero, ad evitare che tale privilegio lo possa avvantaggiare in una
concorrenza che altrimenti sarebbe sleale. E tuttavia è probabile che Matteo
Renzi accoglierà gli argomenti degli appellanti e tra tutti troverà che quello
più forte, almeno sul piano della comunicazione ai gonzi di cui si parlava nel post qui sotto, sia proprio quello di Antonio Gramsci, dai firmatari della lettera
usato in modo mistificatorio, ma da Matteo Renzi riusato per mera ignoranza. A
stento avrà letto il Manuale delle Giovani Marmotte, figuriamoci gli scritti di
Antonio Gramsci.
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