martedì 17 marzo 2015

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… 
per cause climateriche
danzando col Peceuta
lesioni trocanteriche
e accorre il terapeuta


«E c’hai detto, Giulia’?»


Nessuno meglio di Corrado Guzzanti ha colto la topica delle cosiddette battaglie culturali di Giuliano Ferrara e il passaggio che gli dedicò qualche anno fa nei panni di padre Pizzarro (Parla con me – Raitre, 2011) ne illustra il paradigma sul quale è costruito anche il pezzullo che oggi è su Il Foglio, a commento della nota polemica tra Elton John, da un lato, e i titolari del marchio Dolce&Gabbana, dall’altro, e che in sostanza è tutta sull’affermazione contenuta in un’intervista rilasciata da questi ultimi: Domenico Dolce ha detto che «non [lo] convincono quelli che [egli] chiam[a] i figli della chimica, i bambini sintetici».
Chiamarli così è di tutta evidenza un discriminarli, fatto sta che essi sono in tutto simili a quelli procreati grazie a un «atto d’amore», dunque risulta quanto meno problematico affermare che vengano al mondo con un di più o un di meno dovuto al modo in cui sono stati concepiti. A ben vedere, il problema nasce solo dal voler dichiarare inviolabile la norma che allega necessariamente la procreazione ad un particolare «atto d’amore» (con la stessa logica si dovrebbe declassare la relazione tra Dolce e Gabbana a mero commercio sessuale), per poi dover ammettere che è possibile procreare anche violandola, e che il risultato di questa procreazione contro natura è altrettanto naturale.
In altri termini, affermare che «tu nasci e hai un padre e una madre, o almeno dovrebbe essere così», solleva la questione di cosa faccia la differenza tra un bambino che sia nato «così» e uno che non sia nato «così». Sembra non essercene alcuna, ma Domenico Dolce la vede nel fatto che il secondo sarebbe un «figlio della chimica», un «bambino sintetico»: nel rispetto della norma che egli non vorrebbe fosse violata, si tratta di un bambino che non dovrebbe esistere, e tuttavia esiste, sicché occorre che di fatto, se non di diritto, si riconosca il discrimine che lo rende necessariamente diverso. Logica feroce, ma pianamente conseguente. Arcaica, come Elton John l’ha definita trovando un termine felice.
C’è che però Giuliano Ferrara fa un’enorme fatica a fare i conti con le conseguenze di una logica che è in tutto identica a quella di Domenico Dolce: «Hai prodotto un bambino in provetta? – scrive – E che c’entra? Non è mica lui in questione». E invece è proprio lui ad essere in questione, ed è con lui che occorre fare i conti, come con la donna che abortisce quando si parla dellaborto, e Domenico Dolce non si pone alcun problema a farli con i «bambini sintetici», come non se lo pone padre Pizzarro con le donne che abortiscono. Con quanto entrambi ne ricavano, ma li fanno. Giuliano Ferrara non ci riesce, e la questione gli si complica non meno di quanto gli si complica con l’aborto, col voler sostenere che è un omicidio, ma che le donne che abortiscono non sono assassine, e che la legge 194 è responsabile di una vera e propria strage di innocenti, e tuttavia non va abrogata, e che una donna non può essere costretta a portare avanti una gravidanza, però non dovrebbe interromperla.
Si tratta di una malintesa applicazione del principio che distingue tra errore ed errante, tra peccato e peccatore, con l’enorme differenza che l’applicazione corretta del principio non salva dalla condanna chi sbaglia, al più gli concede il perdono, se si pente. Ma come si può pretendere che si penta chi voleva un figlio, non poteva averlo nel rispetto delle norme arcaiche e lo ha ottenuto violandole? In fondo, anche la Chiesa non ha esitato a discriminare come bastardi i figli nati fuori dal matrimonio: il peccato originale era uguale per tutti, ovviamente, ma nel loro caso acquistava una peculiarità tutta speciale, che tornava di grande utilità a ribadire la sacramentalità del matrimonio, poi la misericordia appianava tutto, e un bastardo poteva pure diventare papa, ma intanto da bastardo era servito alla causa. Il fatto è che per concedersi il lusso di questa assurdità occorre avere quella fede che un ateo, anche se devoto, non ha. In Domenico Dolce l’equivalenza è data dal non volere figli. Resta il problema che, come sull’aborto padre Pizzarro, qui è Domenico Dolce ad aver tutto il diritto di chiedergli: «E c’hai detto, Giulia’?».   

lunedì 16 marzo 2015

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Non ho letto integralmente le motivazioni della sentenza che lo scorso 17 dicembre ha condannato in secondo grado Alberto Stasi a 16 anni di reclusione per l’omicidio di Chiara Poggi, sono state depositate oggi, ne ho a disposizione solo gli stralci riportati da ansa.it, che tuttavia non ho alcun motivo di ritenere inattendibili nella sintesi di ciò ha portato i giudici alla convinzione che l’imputato fosse colpevole.
Bene, c’è da trasecolare: «Alberto Stasi – si legge – ha brutalmente ucciso la fidanzata, che evidentemente era diventata, per un motivo rimasto sconosciuto, una presenza pericolosa e scomoda, come tale da eliminare per sempre dalla sua vita di ragazzo “per bene” e studente “modello”, da tutti concordemente apprezzato». Se la costruzione di ogni frase risponde ad una logica, quella che informa questa affermazione è quanto mai bislacca. L’omicidio avrebbe avuto «un motivo rimasto sconosciuto», che tuttavia «evidentemente» è da individuare nel fatto che la vittima fosse diventata per l’assassino «una presenza pericolosa e scomoda», e da cosa trae forza, questo assunto? Semplice: dal fatto che Chiara Poggi è stata ammazzata.
In sostanza, non si sa per quale motivo sia stata ammazzata, ma giacché non può essere stato altri che Alberto Stasi ad ammazzarla – non si aveva sottomano altro imputato a disposizione, dunque chi altri? – il motivo non può essere diverso da quello, perché un altro non reggerebbe altrettanto bene. Da non credere.
Le perplessità finiscono per emergere perfino dal commento dato dalla madre della vittima, che pure definisce la sentenza un «passo importante»: «Non so cosa è successo – dice – ma se c’era un problema tra di loro, era proprio necessario arrivare a toglierle la vita?». Già, perché si deve ritenere che quella fosse la sola soluzione, ammesso e non concesso che «c’era un problema tra di loro», di cui peraltro non cè prova? Nessun dubbio, per i giudici: visto che Chiara Poggi è stata uccisa, non c’era alternativa, almeno per chi sicuramente è l’assassino perché dev’esserlo. Ma per quale motivo Chiara Poggi sarebbe diventata una persona da eliminare? Non si sa, non s’è trovato, ma si può provare a immaginarlo e, dopo averlo immaginato, dargli cogenza, anche senza dargli alcun elemento circostanziale: Chiara Poggi poteva rovinare la reputazione di Alberto Stasi, rivelando la sua passione per la pornografia. E sì che la sentenza attribuisce alla vittima delle «vedute larghe». E poi può darsi che la passione per la pornografia potesse rovinare una reputazione trent’anni fa, ma oggi? Nessuna preoccupazione, a far quadrare quello che non quadra, voilà, s’avanza un’altra ipotesi, tanto cogente quanto indimostrata: il «raptus».
Prove certe che leghino i fatti ad una responsabilità? Non proprio, ma tanti indizi, via, e cucendoli addosso a chi non può non essere colpevole, gli calzano a pennello, ergo...
Ma non era meglio metterlo in galera senza dare motivazioni? 

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Se vogliamo dare un minimo di considerazione agli insegnamenti di Cristo, io ci andrei piano col definire cristiane le vittime degli attentati terroristici di Lahore. Laddove lo fossero allo stesso modo di chi ha pensato giusto vendicarle linciando e bruciando vivi due disgraziati che erano solo sospettati di essere complici degli attentatori, che fine mi fa il Cristo che ripetutamente raccomanda, dal lago Tiberiade all’orto di Getsemani, di non opporre violenza a violenza? Cristiani come Cristo comanda non dovrebbero limitarsi a pregare per i propri nemici? Qui, invece, le cronache parlano di feroci scontri tra manifestanti e polizia, di negozi devastati, di auto in fiamme. Atti poco commendevoli, anche se possiamo spingerci a ritenere comprensibile la reazione, frutto di un’esasperazione che non si fa fatica a compatire, certo, ma così che fine fa la tanto blaterata «differenza cristiana»? Non tanto per darle un minimo di sostanza, che sappiamo essere di per sé cosa assai ardua, ma almeno per evitare che una mancata condanna dei torbidi di piazza che hanno fatto seguito agli attentati ne possa essere considerata avallo, urge che le massime autorità religiose delle confessioni cristiane li stigmatizzino tempestivamente. Non dovrebbero mancar loro gli argomenti, perché Vangeli, Atti degli Apostoli e Patristica abbondano di esortazioni a farsi massacrare in letizia. Chessò, basterebbe rammentare ai cristiani di Lahore che «il sangue dei martiri è seme di cristiani», e dove mai s’è visto un seme lamentarsi della semina?

domenica 15 marzo 2015

«Ma serve ancora votare?»


Può darsi che l’editoriale di Angelo Panebianco sia scritto «in modo tale da renderne possibile la comprensione a nessun altro che non sia un lettore estremamente attento», sfruttando quella «particolare tecnica letteraria», illustrataci da Leo Strauss in Persecution and the art of writing (1952), «in cui la verità delle questioni cruciali appare esclusivamente tra le righe», come espediente cui «gli uomini capaci di un pensiero davvero indipendente» sono costretti a ricorrere quando non siano disposti «ad accettare le opinioni ispirate dal governo», ma nemmeno vogliano subirne la persecuzione per il rifiuto di «commisurare il proprio discorso a quanto il governo giudichi conveniente». Può darsi, dico, perché, anche a leggerlo con tutta l’attenzione di cui son capace, l’editoriale non mi pare altro che l’ennesimo compitino sulla questione greca. Peccato, perché il titolo era allettante, sembrava aprisse ad una riflessione più ampia e più profonda sulla democrazia, che invece qui lambisce appena la questione nel considerare che, «se il compromesso [tra Grecia e Ue] sarà letto come una sconfitta del governo greco, allora il messaggio generale sarà che la democrazia, in Europa, non conta nulla, che è irrilevante ciò che gli elettori vogliono mandando al governo questo o quello». Con quello che si prepara in Italia grazie al combinato disposto di una riforma costituzionale e di una legge elettorale come quelle che sono in avanzata gestazione in un Parlamento eletto col Porcellum, per porsi la questione se serva ancora votare, Angelo Panebianco ha bisogno di andare in Grecia, come se in Italia la questione non si ponesse.

sabato 14 marzo 2015

Segnalibro

«Siamo pronti»

Sarà il Giubileo straordinario annunciato a sorpresa da Bergoglio a mettere in ginocchio Roma, non l’assalto delle milizie del Califfo, che peraltro ha avuto la buona educazione di darne avviso con largo anticipo, perché non è necessario, qui, spiegare quale impatto abbia a comportare un evento del genere per una città che vanta uno sviluppo urbanistico tra i più disordinati al mondo, una cronica debolezza delle sue infrastrutture, un debito che ammonta a svariati miliardi di euro, basta riandare con la memoria a 15 anni fa, al Giubileo del 2000, che era ordinario, e dunque poté godere di un minimo di organizzazione e, già che di crisi economica non tirava ancora aria, di un vero e proprio fiume di denaro pubblico, col quale la politica italiana comprò per sé dal Vaticano un bel pacco di indulgenze: basta proiettare l’immane bordello che fu il Giubileo del 2000 sulle condizioni odierne, levando soldi e programmazione, aggiungendoci qualche milione in più di pellegrini, visto che questo papa è tanto, ma tanto, tanto simpatico. 

E il signor sindaco? Prontamente: «Siamo pronti». Se ne prenda nota.

venerdì 13 marzo 2015

Per affettuosità

Qualche tempo fa, su queste pagine, consumai una polemicuzza con Francesco Maria Colombo, critico musicale del Corriere della Sera, prima, direttore d’orchestra, dopo, in merito alle puttanate che aveva scritto in un «manifesto antiaborto» apparso su Il Foglio del 17 agosto 2011 (1, 2, 3, 4). Come sempre accade in casi analoghi, per affettuosità, affidai a Google alert l’incarico di tenermi informato su sue eventuali e ulteriori puttanate in tema e, giacché son troppo pigro per imparare come si rimuove, lalert è ancora lì, e di tanto in tanto mi fa sapere che Francesco Maria Colombo si è fatto fare dal sarto un frac da dio, che il giorno tot e all’ora tot dirige la tale orchestra, che ha letto con commozione questo o quel libro di autore regolarmente esotico, che una pupa fatale gliel’ha data, che a Kiev il clima è piacevolmente temperato, che è tentato dal lasciare il mondo della musica per quello della fotografia... Robe così, insomma, da dandy un po fuori dal tempo, ma in fondo tanto simpatiche, e poi estremamente riposanti tra le noiose news di licenziati qui e decapitati lì, come tempura di petali di rosa tra una bistecca al sangue e l’altra. Genetica? Bioetica? Mai più sfiorate, e questo è quello che più conta. Di tanto in tanto, questo sì, uno sguardo al mondo di sotto, col sopracciglio alzato, questo sì, ma sempre ben disposto a tirare brioches dal balcone alla plebaglia che strepita di sotto. Così anche ieri, sui ragazzacci che avevano da ridire sulla riforma della scuola, perdindirindina, gli hanno causato uno spiacevolissimo disguido ferroviario impedendogli di andare a Parma. «Ignorantissimi, sgraziati, incapaci di parlare in italiano... però cerco di capire, e mi leggo [sic] sul Corriere online le loro motivazioni, le loro proposte...» E dunque? «Buffonate». Soluzione? «A casa (dopo aver ripulito lo scempio), a fare i compiti, a imparare a memoria l’Adelchi, a impegnarsi a testa bassa, e se non si ottengono risultati si va a letto senza cena, oppure si lascia la scuola e si va a bottega a lavorare. Poi non lamentiamoci se, mentre noi ci balocchiamo con la vernice rosa e le autovalutazioni, il mondo del lavoro verrà monopolizzato dai cinesi». Potrà piacere o non piacere, ma, via, s’intona perfettamente al frac. Nulla da eccepire, se non fosse che il post chiude col consiglio: «leggansi le memorie di Lang Lang, e i metodi didattici che si usavano con lui». E qui sorge il problema. Perché non sappiamo dei metodi didattici che si usavano con Lang Lang, però, a sentire come suona, c’è da supporre siano buoni a formare degli ottimi operai addetti alla pressa, non pianisti. 

Mi sembra così semplice

Ottimo esempio della differenza che c’è tra verità storica e verità giuridica, quello del cosiddetto caso Ruby, ce ne sarebbe per mettere d’accordo tutti, amici e nemici di Berlusconi, ma le passioni sono cieche anche davanti all’evidenza: anche il peggio del peggio, con quanto di relativo resta nel superlativo, può restare penalmente irrilevante, per la semplice ragione che la legge non può mai del tutto penetrare nei fatti, come invece è agevole per l’opinione personale, che vi entra e li risistema al meglio del meglio, con quanto di relativo resta nel superlativo. Berlusconi è innocente, ma colpevole, ma innocente, ma colpevole, via, mi sembra così semplice.

giovedì 12 marzo 2015

La voce del padrone

Solo «la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale», per tutto il resto basta la «maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera», e io ce l’ho, che cazzo avete da obiettare? Come? Deriva autoritaria? Ma fatemi il piacere, «la sovranità appartiene al popolo», certo, che però «la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione», quindi, basta che la repubblica resti repubblica e non diventi monarchia, forme e limiti della sovranità popolare li decido io, cioè, pardon, la maggioranza parlamentare, tanto è la stessa cosa, visto che con l’Italicum la tengo per le palle. Non vi sta bene? Sbraitate pure, è tutto regolare. Come, non è regolare? Calamandrei? E chi è? Ah, vabbe’, un parruccone. E che diceva? Vabbe’, ma era un secolo fa. Ovvìa, tagliamo corto, ché fra mezz’ora ho squash. Mettiamola così: vi assicuro che ci sarà un referendum anche se dovessi avere i due terzi dei voti alla Camera e al Senato, tanto non ce li ho. Basterebbe un quinto dei deputati o dei senatori a chiederlo, ci si arriverebbe comunque, dunque che mi costa dire che lo voglio io? Vi concedo il referendum, ok? Mica mi fa paura, anzi, al pensiero già godo come un porco. Mi ci vedo già. «Italiani, volete mica continuare a buttare soldi nel Cnel? No, eh? Bravi. E che ne dite di un Senato che non vi costi nulla perché i senatori hanno già uno stipendio da amministratori locali? Fighissimo, no? Eh, lo so, è un’ideona, comprendo l’entusiasmo. Anzi, già che state lì a spellarvi le mani, potreste prolungarmi l’applauso per la legge elettorale che ho pensato giustappunto per voi? Occhio alla slide, si tratta di una cosina che semplifica tutto alla grande: basta che mi votiate e per cinque anni penso io a tutto, ma proprio a tutto. Provare per credere, come diceva Bacone». Chi è che mormora lì in fondo? Come? Non era Bacone? Aiazzone? Non stiamo a sottilizzare, l’importante è la pregnanza del concetto.

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Se la generalizzazione è quello strumento della conoscenza del reale che sfrutta la funzione del cosiddetto attenuatore di varietà per semplificare e velocizzare il processo cognitivo ma per dare risultati spesso assai insoddisfacenti e talvolta tragici, c’è una condizione del reale che ha in sé un intrinseco attenuatore di varietà che fa della generalizzazione lo strumento più efficace a coglierla, e questo è il caso, sempre tragico, in cui la varietà si pone a ostacolo della necessità di semplificare e velocizzare la costruzione della norma che si ritenga necessario informi il reale. Accade quando il reale pone un problema di difficile soluzione, con la tentazione di trovarla nella ridefinizione del problema, adeguandolo a una soluzione già pronta, considerata quella buona per ogni problema, e che si è soliti chiamare «soluzione di forza», dove la «forza» non è quella che risolve il problema, ma quella che impone come migliore soluzione quella di ridefinirlo, per lo più eludendone il senso, poco importa se in buona o in cattiva fede, per mera ignoranza o per disonestà intellettuale. Quando questa «forza» risulti efficace, il cosiddetto attenuatore di varietà avrà per tempo avuto effetti su quanti si saranno persuasi che questa sia la migliore soluzione: la generalizzazione sarà nei fatti, non nel processo cognitivo che li prende a oggetto. Ecco perché è possibile generalizzare, e dire, senza far loro alcun torto, che, al netto della faccia più o meno di cazzo, i renziani sono tutti uguali: in essi la «soluzione di forza» non è tanto agente, ma agita. Presto ancora, invece, per dire renziana la stagione politica che attraversiamo: sarebbe una generalizzazione, che tuttavia potrebbe realizzarsi nei fatti, se entrasse a regime l’attenuatore di varietà ancora in fase di collaudo.  

mercoledì 11 marzo 2015

Un’alta onda di merda

I 357 deputati che ieri hanno votato la più schifosa delle riforme costituzionali possibili rappresentano meno di un terzo degli aventi diritto al voto, ma nella Camera sono maggioranza in virtù di una legge elettorale che li ha portati in Parlamento neanche da eletti, ma da nominati. Ricattabili come tutti i gregari che non hanno altro peso se non quello che dà loro omogeneità di massa, oggi, alle viste della legge elettorale che sostituirà quella vecchia, già dichiarata incostituzionale, sono ancora più ricattabili di quanto lo fossero al momento di entrare in Parlamento, buoni solo a dire sì quando gli è chiesto, meglio se mostrandosi entusiasti, sennò giusto a mugugnare un poco e a dire sì lo stesso, in nome della fedeltà alla banda, se non al capobanda. Solo per questo dovrebbero vergognarsi di aver stravolto una Carta scritta da una Costituente eletta col proporzionale, e che dunque era espressione di tutto il Paese, nella quale peraltro sedevano uomini di cui un solo pelo del cazzo valeva più quanto oggi valgano tre dozzine di renziani. E tuttavia si sa che i gregari sono capaci di tutto tranne che di vergognarsi, sicché è del tutto inutile rammentare al grosso di questi scellerati che nel loro programma elettorale non vi fosse traccia di alcuna riforma costituzionale, men che meno di una che facesse tanto schifo quanto quella votata ieri. Un’alta onda di merda passa sul Paese, sulla sua cresta una tavola da surf, e sopra, al momento in perfetto equilibrio, un imbecille drogato di autostima.

domenica 8 marzo 2015

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Ecco l’ennesimo cretino, stavolta prestigiosissimo, a sostenere che don Giussani odorava di giaggiolo e di mughetto, mentre Cl ormai puzza di cacca. Oddio, non proprio in questi termini, ma insomma, tenuto conto che l’occasione era un’udienza concessa ai ciellini nel decimo anniversario della morte di don Giussani, sentirsi dire da Bergoglio che «io sono di Cl» fa «spiritualità di etichetta» è come beccarsi l’aspersorio sui denti.
Sia chiaro, almeno qui si è solidali con Cl: avendo letto tutto ciò che don Giussani ha scritto, troviamo che la dolce mafiosità di Cl, a metà tra holding e setta, sia fedelmente conseguente al suo insegnamento. E perciò esprimiamo il nostro più sincero apprezzamento a Luigi Amicone, che, intervistato da Virginia Della Sala per Il Fatto Quotidiano, con le gengive ancora gonfie, abbozza come si conviene e molto giussanianamente ribadisce: «Ci sono stati scandali, però non rinunciamo al potere». Che poi, alla faccia di ’sti cafoni che arrivano dalla fine del mondo a propinarci la loro catechesi da buzzurri, è sintesi perfetta di ciò che don Giussani ha misteriosoficamente celato in Allorigine della pretesa cristiana (Jaka Book, 1988). Bravo Amicone! Io ci avrei messo pure un «a la mierda, hijo de puta», ma pure così va benone, ché i papi passano, ma la Compagnia delle Opere resta.

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C’è una vulgata di pretto stampo reazionario che in chi contesta i guasti e le ingiustizie di un sistema vuole sia prudente sospettare il malintenzionato che vuole costruirsene uno nuovo, a sua misura, non meno ingiusto, forse ancor più guasto, e che perciò sui suoi argomenti debba pesare sempre il sospetto che un domani migliore dell’oggi possa costare un dopodomani assai peggiore. È vulgata che assume ruolo ancillare nella difesa dello status quo, e come tale, al pari di ogni vulgata di pretto stampo reazionario, fa leva sulla diffidenza che è propria di una visione pessimistica della natura umana, libera solo di decadere, degradare, con ciò svelando la pericolosità, prim’ancora che l’illusorietà, del progredire. Tutto molto tetro, non c’è dubbio, d’altronde l’esperienza ci insegna che tanti fasulli innovatori sarebbe stato meglio abortirli quand’erano ancora in pancia allo status quo, ma poi si sa che l’esperienza serve sempre a poco o a niente, sicché non resta che far finta possa tornarci utile in un’altra occasione, che peraltro non ci è data mai.

Il lettore smaliziato avrà capito che queste riflessioni nascono a margine di una lettura, e probabilmente si starà chiedendo chi sia l’autore di un libro capace di istigare pensieri tanto insalubri. Dávila? Evola? Strauss? Macché, leggevo A viso aperto (Polistampa, 2008), di Matteo Renzi: «Le norme di selezione per i parlamentari – scriveva – assomigliano pericolosamente ai criteri di alcune trasmissioni tv, ma la casa degli italiani non è la casa del Grande Fratello, è il Parlamento della Repubblica. Ridateci le preferenze, tenetevi la vostra Isola dei Famosi». E poco oltre: «Dentro al partito farò una battaglia per il ritorno delle preferenze. È un diritto dei cittadini scegliere le persone e non vedersele imposte». A quei tempi sarebbe bastato un ferro da calza, oggi non basterebbe una divisione di alabardieri. 

venerdì 6 marzo 2015

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Riprendendo la via per non so più quale paesino papà aveva deciso valesse la pena andare a villeggiare – mi pare fosse Allumiere – gli chiesi perché non avesse dato un cazzotto sul naso a quello scostumato che ci aveva trattato peggio che se fossimo stati dei criminali. Si sarà espresso sicuramente con altre parole, ma la risposta fu più o meno questa: «Lui’, fino a due giorni fa quello portava le pezze al culo, e oggi indossa una divisa da carabiniere: non c’è da stupirsi che sia un poco screanzato quando chiede libretto e patente: la vertiginosa ascesa da morto di fame a rappresentante dello stato gli ha fatto perdere il controllo della misura. Più che indispettire, intenerisce, via». Ripensandoci, a un bimbetto di sette o otto anni sarebbe stato meglio dire che un cazzotto a quel carabiniere ci avrebbe rovinato la villeggiatura, e spiegando il perché. Voglio immaginare dipenda da questa esperienza infantile il fatto che dinanzi all’arroganza e alla prepotenza di chi rappresenta lo stato, prima di indignarmi e protestare, io sia portato a cercare di spiegarmi quale sia il problema psicologico che le genera. Questo mi pare possa essere il motivo per cui da queste pagine non ho mai contestato nulla alla Boldrini: fino a due giorni fa era una comunistella di Sel, e oggi è alla Presidenza della Camera, c’è da capirla quando sbaglia, passando oltre.   

Lo stile

Ieri sera, da Santoro, Faraone somigliava in modo impressionante al Cuffaro che in un Maurizio Costanzo Show d’annata polemizzava con Falcone. Dev’esserci una scuola che sforna quello stile, e lo stile è il manico della brocca.

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Domani questo blog compie undici anni.
Grazie per l’attenzione.   

giovedì 5 marzo 2015

In entrambi i casi, anche se per vie diverse

Ho voluto che passasse qualche giorno dalla diffusione del video che documenta la distruzione delle opere d’arte conservate nel Museo di Mosul ad opera degli uomini dell’Isis, perché quello che avevo da dire era fuori tema rispetto alle questioni sollevate, che d’altronde erano pienamente legittime, ma a mio modesto avviso superficiali, e per superficiali non intendo dire vacue o frivole, ma – letteralmente – poste in superficie al problema vero, che – voglio dirlo subito – è relativo all’esegesi biblica di Es 20, 4.
Innanzitutto c’era da descrivere, più che discutere, tutte le sfumature dell’orrore che un occidentale prova alla sola idea che un’opera d’arte dell’antichità vada distrutta per mano d’uomo. Sacrosanto orrore, indubbiamente. Fatta eccezione per il movimento futurista, infatti, e al momento non mi viene in mente altro, tutta la storia dell’occidente è storia di un vero e proprio culto delle opere d’arte del passato. E tuttavia mi è parso che questo orrore sia stato solo la trama emozionale sulla quale venivano intessute le questioni ritenute degne di attenzione. Erano originali, quelle statue, o copie? Qual era il fine ultimo di quel video? E appena un po’ più sotto a quell’orrore, ma ancora ben distante dal cuore del problema: tanta barbarie poteva dirsi aderente al dettato coranico, dunque propria della natura dell’islam, o invece era da considerare come ennesimo saggio di una lettura fondamentalista del Corano? Questione un po’ più seria, questa, ma solo in apparenza, perché il Museo di Mosul è stato costruito da musulmani, e da musulmani è sempre stato gestito, il che naturalmente ci dice poco o nulla sulla correttezza della lettura che essi hanno fatto del Corano relativamente al punto che vieterebbe la rappresentazione di persone e animali («O voi che credete, in verità, il vino, il gioco d’azzardo, gli idoli, le frecce divinatorie, sono immonde opere di Satana» - Corano 5, 90), anche se un’idea possiamo farcela sapendo che «idoli» è espresso dal termine «ansab», che letteralmente è «pietra eretta» (statua, stele, obelisco), e che nel Libro questa relativa agli «idoli» non trova la solita ripetizione che è tipica di tutte le più importanti prescrizioni.
La faccenda è ancora più ambigua alla lettura degli hadith, che, com’è noto, sono le sentenze che cercano di far chiarezza sui versetti del Corano che si prestano ad interpretazioni controverse: secondo epoca e luogo, «ansab» conserva il significato restrittivo del termine o accoglie estensivamente tutto ciò che è «immagine», con un ventaglio normativo relativamente ampio, dalla tolleranza dell’«ansab», ma col divieto di produrlo, alla sua condanna, fino all’ordine di distruggerlo (e in quest’ultimo caso siamo nella piena tradizione degli hadith di scuola salafita).
Ciò detto, occorre chiederci donde possa trarre giustificazione esegetica la distruzione delle immagini di persone e animali. Qui, senza entrare troppo nello specifico, possiamo limitarci a dire ciò che vale in innumerevoli altre occasioni: il Dio del musulmano è lo stesso Dio dell’ebreo e del cristiano, come d’altra parte ebrei e cristiani non fanno fatica a riconoscere, anche se le differenze – e significative – sorgono quando si tratta di dargli i connotati del legislatore. L’islam, poi, si sente momento compiuto della vera fede che nell’ebraismo e nel cristianesimo vede stadi anteriori e ancora imperfetti.
Bene, nel caso del divieto di produrre «immagini», la primigenia fonte islamica è il Vecchio Testamento («Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra» - Es 20, 4). Si tratta del passaggio della consegna delle Tavole della Legge a Mosè, ed è stranoto che, mentre la tradizione che da Filone Alessandrino e Giuseppe Flavio è passata alla Chiesa antica, e dunque a quella greca-ortodossa e a quella riformata, fa del versetto un comandamento a sé stante, quella che la tradizione cattolica romana prende dalla lettura biblica di Agostino d’Ippona lo incorpora nel primo comandamento («Non avrai altri dei di fronte a me» - Es 20, 3), sicché «idolo» e «immagine» diventano «riproduzione di altra divinità che non sia io», e questo pone qualche problema con «quanto è quaggiù sulla terra» e «ciò che è nelle acque sotto la terra», laddove non si tratti di entità divinizzate. D’altronde è questa problematicità a prestarsi come argomento alla furia degli iconoclasti cristiani del VII e dell’VIII secolo. C’è da pensare che distruggessero opere d’arte antiche come abbiamo visto gli uomini dell’Isis distruggere quelle custodite nel Museo di Mosul. In entrambi i casi, anche se per vie diverse, l’ordine veniva dal Monte Sinai.  

martedì 3 marzo 2015

Vicienzo ’a Funtanella

Sorprende, se non è di maniera, la sorpresa che i media riservano alla vittoria riportata alle primarie del Pd da Vincenzo De Luca (Vicienzo ’a Funtanella, per gli amici, a causa dei ridondanti spruzzetti di saliva che schizza quando il tono gli va sullo stentoreo): tenuto conto di cosa siano le primarie in una regione come la Campania, anche quando siano regolari, visto che le primarie, di per se stesse, hanno regole così lasche che tra l’una e l’altra ci passa pure un cane di grossa taglia portando una scopa in bocca; tenuto conto di chi erano i concorrenti, vuoi quello che s’è ritirato, più che altro per non inaugurare l’entrata nel Pd con una figura di merda, vuoi quello che ci ha provato, più che altro sacrificandosi per dare un minimo di pathos a una partita che tutti sapevano non avesse storia; tenuto conto di chi è Vicienzo, inteso come mito, e di come sono fatti gli elettori ai quali chiedeva il voto, inteso come tributo al mito; tenuto conto, soprattutto, di come butta la politica di questi ultimi tempi, la sua vittoria era largamente prevista, alla faccia della legge Severino, alla faccia del partito che lo implorava di fare un passo indietro, alla faccia della faccia di Gennaro Migliore, che per calarsi al meglio nella parte del candidato unitario unico s’era pure cambiato la montatura degli occhiali, che manco più sembrava un comunista, ma un amico d’infanzia di Matteo Renzi, quello che gli passava il compito di matematica. Una furia, Vicienzo, e cotanta cazzimma, cotanta guapparia, cotanta sfaccimma d’uomo – uomo, per giunta, di cotanta conseguenza – in Campania fanno il deus ex machina. Interdetto dai pubblici uffici, ma, come il tizio cui fai presente che corre come un pazzo e contromano, «e che è, ho acciso a quaccuno?». Benemerito della caccia alla puttana e al rom, piglio da federale col bastone animato, patrono dell’urbanistica in scala 1:1, mandibola da pugile, retorica ipertiroidea – e come poteva non vincere, Vicienzo? Non resta che vederlo menar le mani con Stefano Caldoro, ma già sembra di vederlo. «Giovinotto, ma è vero che andate coi trans? Non vi offendete, ohinè, era voce che girava tra i vostri amici di partito, io mi limito a darvi modo di smentirla».