È Antonio Socci (Libero, 29.3.2015), e non è tutto.
Sciacallaggio,
senza dubbio, e senza il benché minimo cenno al fatto che Andreas Lubitz fosse
cattolico. Certo, fosse stato musulmano, il pezzo sarebbe venuto meglio.
Dinanzi a quanto ci fa orrore sentiamo
l’istintivo bisogno di tenercene a distanza, fuggendolo, se ci è troppo
d’accanto. Quando però l’orrore nasce da quanto ci è assai prossimo, la fuga
impone come l’abbandono di qualcosa che a torto o a ragione pensavamo ci
appartenesse, e che d’un tratto ci appare estraneo. Lì torna utile immaginarlo come contaminato, e il primo esempio che mi viene in mente è quello del piede che
con orrore scopriamo ci stia andando in gangrena: per salvarci siamo costretti
ad accettare ci sia amputato, perdita comprensibilmente dolorosa ma altrettanto
comprensibilmente necessaria, che però assumiamo come scelta di separarci da
qualcosa che già non sentiamo più nostro, ma del Clostridium perfrigens.
Le
cose stanno messe un po’ diversamente quando il corpo è quello sociale e
l’orrore nasce dal constatare che chi fino a ieri abbiamo considerato simile a noi,
in realtà, non lo sia affatto: stanno messe un po’ diversamente perché quello
sociale è corpo solo in modo figurato (è solo una figura retorica, infatti, a
ridarcelo come organismo) ed è nostro con molta confusione circa la titolarità
dell’appartenenza (dovremmo, eventualmente, essere noi ad appartenergli, ma
un’altra figura retorica, la metonimia, troppo spesso riesce a darci l’illusione
che esso ci appartenga: concepirlo come vorremmo fosse, dunque, ce lo ridà come
proiezione del nostro corpo).
Direi che sia per questo che la scoperta che il
nostro vicino di casa è un mostro che nel frigo colleziona teste di bambini sia
destinata a darci tanto più orrore quanto più l’abbiamo percepito simile a noi,
cosa possibile solo se l’attenzione che gli abbiamo potuto dedicare era
giocoforza limitata al poco che egli ci mostrava di se stesso, ma nello stesso
tempo ci sembrava potesse bastare ad assumerlo come nostro proiettato. In altri
termini, ci vuol poco per inorridire all’idea di un terrorista salafita che si
faccia saltare in aria in una moschea yemenita, ma ce ne vuole assai di meno
per inorridire all’idea di un copilota tedesco che mandi un aerobus imbottito
di passeggeri a sfracellarsi contro una montagna francese: l’orrore sarà tanto
maggiore quanto minore sarà la distanza che immaginavo esistesse tra me e l’autore
della strage.
Centocinquanta morti in entrambi i casi, ma solitamente io vado
in aereo, non in moschea, e poi Andreas Lubitz mi somiglia molto di più
rispetto a quel cazzo d’un Mohamed o di un Alì di cui non so neanche il
cognome: sempre gangrena è, ma quando il piede è mio, consentirete, l’orrore
sarà più intenso. Per la stessa ragione, le atrocità commesse in Iraq da un
foreign fighter che viene da Verona mi turberanno assai di più di quelle
commesse da uno che viene da Londra, e ancor di più di quelle commesse da uno
che viene da Tunisi. Direi che, quando le ragioni che motivano una strage hanno
preso le mosse da un universo che ritengo estraneo al mio, l’orrore mi turba,
ma non mi dà troppi problemi. Quando, al contrario, l’autore della strage è uno che fino a ieri avrei detto mio fratello, non mi basta sapere che fosse folle: ho bisogno di appioppargli una gangrena metafisica.