Non
starò ad annoiare il mio lettore, che d’altronde è coltissimo, citando gli
autori che hanno descritto e analizzato la relazione funzionale che c’è tra
aggressività e vittimismo in quel vasto dominio della psicopatologia che dalle
algide vette del narcisismo digrada nei frastagliati fiordi del borderline: mi
limiterò a illustrare un caso clinico che mi pare sia emblematico di quella
relazione, per poi avanzare una diagnosi e infine suggerire una terapia. Per farlo, tuttavia,
sarà necessario, almeno in breve, fornire gli estremi di quello che sul piano della
narrazione clinica possiamo a buon ragione definire antefatto. [Per chi ha
voglia di circostanziare in dettaglio questi estremi rimando a Er Cecato e la cecataggine (Malvino, 5.12.2014), Mondo di mezzo (Malvino, 8.12.2014) e «Carminati
invoca giustizia» (Malvino,31.12.2014), dove si argomenta quanto qui la sintesi potrebbe far sembrare
apodittico.]
In breve, dunque, diciamo che qualche mese fa scoppia lo scandalo
di Mafia Capitale e – qui cito, poco oltre vedrete per quale ragione, Carlo
Bonini (la Repubblica, 11.4.2015) – «Il Foglio di Giuliano Ferrara […] deci[de] di insufflare, per sbertucciare tra il
semi-serio e il sarcastico, “l’azzardo giuridico” del procuratore Giuseppe
Pignatone, dell’aggiunto Michele Prestipino, dei sostituti Giuseppe Cascini,
Paolo Ielo, Luca Tescaroli, nonché lo sforzo investigativo del Ros dei carabinieri».
Non è mafia, dice Giuliano Ferrara: la mafia ha la coppola e la lupara, spara e
usa il tritolo, qui si tratta di una banda di cravattari, topi nel formaggio,
millantatori di un potere criminale che si esauriva nel far scivolare una
mazzetta nella tasca di chi poteva favorire un appalto.
Sembrava sfuggisse – ma
come era possibile non sospettare volesse sfuggire? – che l’art. 416 bis del
nostro Codice Penale non descrive un’organizzazione denominata Cosa Nostra (o ’Ndrangheta,
o Camorra, o Sacra Corona Unita), ma un’organizzazione di «tipo» mafioso, ciò che sul piano pubblicistico ha trovato in «stampo» un sinonimo assai felice. E
quali sono, per il legislatore, gli elementi che consentono di identificare in
un’associazione a delinquere il suo carattere mafioso? «L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno
parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della
condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti,
per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo
di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi
pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri,
ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di
procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali», rimarcando che «le disposizioni del presente articolo si
applicano anche alla camorra e alle altre associazioni, comunque localmente
denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del
vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni
di tipo mafioso».
Dopo aver letto le 1.228 pagine dell’ordinanza di
applicazione delle misure cautelari emessa dal gip a carico degli indagati, si
potevano aver dubbi che il «Mondo di
mezzo» cui aveva dato vita Massimo Carminati non rispondesse alla
fattispecie? D’altronde, qual era – peraltro neanche tanto occulto – il fine di
«sbertucciare» l’ipotesi accusatoria
basata sull’art. 416 bis? Negare la natura sistemica degli eventi delittuosi,
astrarli dalla matrice che li rende strutturati in mosse di una strategia che va
ben oltre l’arricchimento illecito, ma mira al controllo di un territorio,
rendendo così l’associazione a delinquere un attore fattualmente politico, perché
in grado di creare il luogo – e qui cito ancora Bonini (ibidem) – «dove gli appetiti
del Palazzo e quelli della Strada e dunque i loro “tipi umani” (consiglieri
comunali e spezza ossa, funzionari pubblici e corruttori, guardie e ladri) si
incontrano per svuotare, con la forza dell’intimidazione, il ricatto e
l’omertà, e dunque come ogni mafia degna di questo nome, non le forme, ma la
sostanza della democrazia: la regolarità degli incanti pubblici, la trasparenza
dell’agire amministrativo, la libertà nella formazione della volontà politica».
Direi che la polemica cui Il Foglio
ha dato vita sulla questione di Mafia Capitale è solo uno degli episodi che ne
caratterizzano il tratto scettico sulla sostanza della democrazia, nel solco
dell’assunto che «un’oligarchia ben
organizzata assomiglia molto a una democrazia possibile» (Il Foglio, 22.5.2008): l’altra – quella della
regolarità degli incanti pubblici, della trasparenza dell’agire amministrativo,
della libertà nella formazione della volontà politica – sarebbe quella impossibile.
Qual è, d’altra parte, il confine tra l’intimidazione, il ricatto e l’omertà
dell’organizzazione di stampo mafioso e gli strumenti di cui si serve un’«oligarchia ben organizzata»? C’è senza
dubbio, ma quanto è labile! Potremmo dire che si delinea solo nel rispetto
delle mere forme della democrazia, che tuttavia non impedisce di svuotarne la
sostanza.
Ecco il pericolo, dunque, nel riconoscere il metodo di tipo mafioso
nella join venture tra ceto politico e delinquenza di strada: viene a crearsi
un precedente che può tornare buono a incriminare l’«oligarchia ben organizzata» quando incorra in qualche sbavatura
procedurale. In buona sostanza, dal ritratto di Carminati come quello di un
delinquentello qualsiasi alla sua difesa come vittima di una tortura (sì, Il Foglio è arrivato pure a questo), non
abbiamo assistito al solito esercizio di sofistico spirito di patata che manda
in sollucchero gli amanti dell’eccentrico, ma un più subdolo tentativo di
liquidare il «Mondo di mezzo» come versione
grossolana, fin quasi patetica, di quella raffinata delinquenza che dà vita all’unica
«democrazia possibile». Certo, c’è
pure l’elemento ludico, quello che ha reso Il
Foglio un’officina dal marchio inconfondibile, qui espresso nello
spericolato garantismo in favore del fetente di turno, ma sul fondo era
evidente una posta in gioco assai più consistente, per la quale valeva la pena
farsi estremamente aggressivi.
Ma ora? Qual è l’atteggiamento da assumere, ora
che «per la prima volta nella storia
repubblicana, il Genoma Mafioso, il “modello legale” dell’articolo 416-bis,
nell’applicazione che ne dà la Cassazione, si libera della folcloristica e
riduttiva rappresentazione della coppola storta, della lupara, del santino
bruciato, della ferocia schizzata della narco Camorra e dei giuramenti
‘ndranghetisti, che sono e restano Mafi, ma che da ieri non la esauriscono»
(Bonini, ibidem)? Quello della vittima:
«la Cassazione ha dato ragione alla casta togata più
influente, quella della Capitale, perché […] l’informazione massificata e
orchestrata secondo un criterio di legalità culturalmente bacato, onnivoro e
non procedurale, stravolge la realtà» (Giuliano Ferrara – Il Foglio, 13.4.2015). E la Cassazione ci casca? Evidentemente, d’altra
parte «le pronunce giudiziarie hanno una
loro intrinseca autorevolezza, e si giustificano o si contraddicono mediante
altre pronunce giudiziarie», dunque non è detto un domani… Poi c’è che «non funziona una indagine giudiziaria annunciata
a sorpresa, pochi giorni prima delle ordinanze di cattura e dell’elevazione
delle accuse, dal suo massimo responsabile, il dottor Pignatone; non funziona
in ogni senso la sede dell’annuncio, un convegno del Partito democratico; non
funziona la spettacolare convergenza di tutti i giornali o quasi e di tutte le
televisioni senza eccezione nel definire il fenomeno secondo una specie di
lectio universalis desunta dalle carte e, trattandosi di centinaia di migliaia
di pagine, dalla selettiva illustrazione riservata delle carte lungo canali al
di fuori di ogni controllo, giorno dopo giorno, capitolo per capitolo».
Inoltre, «la sentenza della Cassazione
che “salva” per adesso il processo a venire del dottor Pignatone, e tiene in
galera preventiva gli accusati (il che secondo un certo modo di vedere le cose
è un caso di tortura), fa dei riconoscimenti in analogia patente con le nostre
obiezioni: non c’è nell’indagine e nei suoi risultati una catena estorsiva e
violenta di tipo mafioso; non ci sono delitti di mafia; c’è un’aria di malavita
e di deviazione dai canoni della legalità, e di corruzione, intestabile al
business della carità e dell’assistenza, a istituzioni tipiche di una
concezione solidarista della funzione pubblica nel campo del recupero dei carcerati,
dell’accoglienza e del volontariato». Insomma, «accanto a un mare di cose buone o di velleità redentive buoniste,
scegliete voi, c’è il sospetto, e molto più che il sospetto, di un
coinvolgimento corruttivo di pezzi dell’amministrazione capitolina, singoli
funzionari, [ma] mancano le famiglie,
i mandamenti, il linguaggio e le omertà della mafia, mancano gli arsenali,
insomma mancano tutti gli elementi tipici di un crimine organizzato di tipo
mafioso».
E tuttavia la Cassazione non dice che la mancanza di arsenali non
toglie tipologia mafiosa agli addebiti sollevati nei confronti di Carminati
& c.? Come non l’avesse detto: s’è fatta buggerare dalla campagna mediatica
e al momento – solo al momento, sia chiaro, ché aggressività e vittimismo
stanno bene insieme solo nell’irriducibilità di protervia e risentimento – le
tesi di Giuliano Ferrara vanno a farsi benedire. «Un giornalismo di minoranza che nega l’assunto di una procura e
argomenta in modo semplice i suoi dubbi deve essere tacitato senza esame
obiettivo delle sue tesi?». E chi lo tacita? D’altra parte, le sue tesi non
sono in tutto simili a quelle avanzate dai difensori di Carminati e che sono
state respinte dalla Cassazione? Non sono state esaminate? Sì, ma forse non in
modo obiettivo. L’obiettività è una prerogativa di Giuliano Ferrara, si sa.
Suppongo sia superfluo sottolineare i tratti del delirio di onnipotenza che anche in questo caso affligge il narcisista, qui mortificato dall’impatto con la realtà, che sappiamo essere evento catastrofico sul piano clinico: gli
elementi di natura clinica emergono in tutta l’emblematicità del quadro nosografico.
Resta la terapia, e qui vorrei tagliar corto perché mi sono pure dilungato troppo su un caso che sarà esemplare quanto si vuole, ma un caso resta: io suggerirei olanzapina e lamotrigina. Ma a dosi generose, e senza aspettarsi altro che una parziale remissione dei sintomi. Perché la patologia in questione – triste dirlo – è altrimenti incurabile. Peraltro alleviare la sofferenza del malato è un dovere inderogabile della buona medicina.