lunedì 20 aprile 2015

Una modesta proposta

«Dichiaro con tutta la sincerità del mio cuore
che non ho il minimo interesse personale
a cercar di promuovere quest’opera necessaria» 

Jonathan Swift, Una modesta proposta (1729) 


È cosa ben triste, per chi butta un occhio alla tv, sapere di tanti poveracci che annegano nel Mediterraneo nel disperato tentativo di fuggire guerra e miseria. Per parte mia, dopo aver riflettuto per molti anni su questo grave problema ed aver considerato attentamente le varie soluzioni fin qui adottate per porvi rimedio, mi son reso conto che in esse vi erano grossolani errori di calcolo. Per questo mi decido ad avanzare una proposta che son certo troverà il giusto sostegno in chiunque abbia animo sensibile unito a savio intelletto. Consentitemi, però, di esporre in rapida sintesi gli aspetti salienti del problema, perché è da essi che a mio modesto avviso occorre prendere le mosse per cogliere il buonsenso che ispira la mia proposta.
Ci sono migliaia e migliaia di poveracci – c’è chi dice superino il milione – che dalle coste dell’Africa settentrionale aspettano il loro turno per imbarcarsi su malsicuri natanti per raggiungere Lampedusa, lembo estremo di quell’Europa che per essi è miraggio di nuova vita. Per arrivare ai lidi dai quali inizieranno una traversata dall’esito incerto, e assai spesso infausto, sono costretti a sborsare migliaia di euro a loschi individui che li sottopongono a marce forzate attraverso il deserto, senza risparmiare ad essi soprusi e violenze, e altre migliaia di euro sono costretti a sborsare per un posto su scafi scassati e gommoni mosci, sui quali vengono stipati peggio che fossero delle bestie. Arrivati in Italia, se ci arrivano, li aspetta un centro di accoglienza che è peggio di un carcere e lì stanno per mesi e mesi, in attesa che venga riconosciuto loro un diritto di asilo. Solo in minima parte hanno intenzione di restare in Italia, perché quasi tutti avevano, e fin dall’inizio, un’altra meta, Germania, Francia, Norvegia, Danimarca, ecc. Non è proprio questo, d’altronde, a motivare il disinteresse che la Ue sembra mostrare verso la gravità di questa immane emergenza umanitaria, il cui peso ricade quasi per intero sull’Italia?
Riuscite a intravvedere la soluzione? Non ancora? Aspettate, ché vi ci porto tenendovi per mano. Rispondete con animo sgombro da pregiudizio: pensate ci sia modo di fermare questa ondata migratoria alla maniera che propone quella gran testa di cazzo di Salvini? Pensate che il più sollecito programma di soccorso in mare possa evitare che altri barconi si capovolgano e altri disgraziati anneghino? Più di tutto: pensate che ulteriori inasprimenti delle pene per i criminali che organizzano l’orribile mercato possano scoraggiarli a fronte della prospettiva degli immensi guadagni che fanno sulla pelle di tanta povera gente? Vi avverto: siete ad un passo dalla soluzione. Se non la vedete, è per un mero vizio logico.
Via, qual è il sistema per venire incontro alle sacrosante aspettative dei migranti e, allo stesso tempo, a sollevare il nostro paese dalle difficoltà di un doveroso intervento umanitario che tuttavia sarà sempre inadeguato a fronte delle risorse umane e finanziarie che esigerebbe per essere davvero efficiente? Proprio non ci arrivate? Vabbè, vi do un aiutino: crociere. Non cogliete? E allora entro nello specifico.
Dai racconti dei migranti sappiamo che ciascuno ha dovuto sborsare da un minimo di 4.000 ad un massimo di 8.000 euro per riuscire ad avere un posto su una carretta di mare in partenza per l’Italia. Basterebbe ne sborsassero la metà perché una crociera su navi adeguatamente approntate allo scopo li portasse in giro a far scalo nei porti d’Europa, dove scendere da turisti per non far più ritorno a bordo. Ci sarebbe, è vero, da organizzare una rete di navette mobili dai paesi che sono il punto di partenza di quella che oggi è una dura e incerta Odissea, e che invece potrebbe trasformarsi in un comodo viaggio verso un porto controllato da nostre unità militari, chessò in Libano. Il costo di questa iniziativa sarebbe ampiamente coperto dal contributo che i migranti sarebbero felici di poter versare, sapendo di poter così contare su un sostanzioso residuo di risorse per le primarie necessità da affrontare nei paesi prescelti come mete finali. Basterebbero due navi da crociera da 2.000 posti ciascuna in servizio permanente nel Mediterraneo e nei Mari del Nord (si potrebbero eventualmente offrire ai migranti opzioni differenziate: Barcellona-Marsiglia, Helsinki-Stoccolma, Kiel-Copenhagen, ecc.).

venerdì 17 aprile 2015

Sul genocidio, ancora

Quando c’è controversia sul significato di un termine, che quasi sempre è controversia su quanto sia corretta o meno una sua attribuzione, penso non ci sia niente di meglio che cominciare a ragionare sulla sua origine, cercando di trovare il come, il dove e il quando s’è fatto significante. E tuttavia questo non basta, perché non è affatto raro che, col tempo, un significante possa cambiare significato, e anche di molto, com’è nel caso di ecatombe, termine che nacque nel IV secolo a.C. per significare l’uccisione di cento buoi (εκατον βους), offerti in sacrificio a una divinità. In realtà, c’è chi sostiene che cento fossero le zampe degli animali sacrificati, che dunque erano solo venticinque, e non necessariamente buoi. Di fatto, quando oggi diciamo ecatombe, l’idea non corre necessariamente a un’offerta votiva, né necessariamente all’uccisione di animali, venticinque o cento che siano.
Sostanzialmente diverso, invece, è il discorso relativo ai termini che nascono in un contesto scientifico per dare un nome a entità materiali o concettuali che ovviamente ne sono sprovviste al momento in cui vengono postulate, scoperte, inventate, ecc. In questo caso, il significante resta legato per lungo tempo al significato per il quale il termine è stato coniato, anche quando l’entità alla quale è stato attribuito viene ad appalesare caratteristiche che sembrano farlo diventare improprio, com’è nel caso dell’atomo, che α-τομος è rimasto anche dopo la scoperta che è possibile scomporlo in particelle subatomiche.
La questione relativa all’uso del termine genocidio rimanda ineludibilmente alla sua origine, che trova ragione nel tentativo di definire il tratto distintivo di una particolare fattispecie criminosa, ravvisabile in alcune eliminazioni di massa, e in altre no. Tale tratto distintivo è quello relativo alla finalità posta nell’atto criminoso quando questo prenda a oggetto il γενος della massa che intende eliminare, e cioè il carattere che conferisce un comune elemento identitario agli individui che la compongono. Col genocidio, insomma, siamo dinanzi al programma di eliminazione di quell’elemento identitario (nazionale, etnico, religioso) attraverso la soppressione di tutti gli individui che lo rappresentano con la loro mera esistenza, così intesa come «vita indegna di essere vissuta» (Hannah Arendt).
Per quale ragione Raphael Lemkin ritenne necessario dar vita a un neologismo per definire quello che altrimenti poteva continuare ad esser detto sterminio, massacro, eccidio, ecc.? Semplice. Perché con la Shoah era venuto a rendersi tragicamente evidente, non foss’altro perché esplicitamente dichiarato dai carnefici, quello che era il fine ultimo di quella carneficina: l’annientamento degli ebrei in quanto ebrei. Il genocidio degli ebrei, insomma, trovava ragione nel solo fatto che essi fossero ebrei, sicché nell’Endlösung der Judenfrage l’attenzione andava posta sul fatto che la questione (-frage) fosse l’esistenza stessa degli ebrei in quanto ebrei e che la soluzione (-lösung) non potesse che essere il loro completo annientamento. Anche per questo la definizione di olocausto appare altrettanto pertinente: per i nazisti era tutto (ολος) ciò che era ebreo a dover essere bruciato (καυστος). Sappiamo, infatti, che in Germania e in tutti i paesi di cui il Terzo Reich prese il controllo militare la ricerca degli ebrei in quanto ebrei al fine di avviarli allo sterminio fu puntigliosamente condotta senza eccezioni di sorta, sicché in pochi anni il numero delle vittime toccò i sei milioni di individui e ad essere risparmiati da quel massacro furono i soli ebrei riusciti a sfuggire per tempo alla messa in atto del programma di annientamento totale, insieme ai pochi sopravvissuti ai campi di sterminio.
Nel caso degli armeni che nel 1915 furono sterminati in un numero che le varie stime danno tra i 200.000 e i 1.600.000, possiamo parlare di genocidio? Gli armeni furono eliminati in quanto armeni? Fu l’elemento identitario nazionale, etnico, religioso che li contraddistingueva nel motivare il loro massacro? Se sì, come spiegarci il fatto che molti armeni furono risparmiati dalla persecuzione, dalla deportazione e dall’eccidio anche se il loro destino era nella disponibilità di chi intanto ne massacrava una gran quantità? Richiamando alla memoria la situazione venutasi a creare nelle regioni orientali della Turchia allo scoppio della Grande Guerra, con la paventata ipotesi che gli armeni dell’Anatolia potessero unirsi ai russi, coi quali invece i turchi erano in conflitto, con ciò causando alla Turchia la perdita di controllo sui territori da essi abitati. La soluzione fu trovata nelle deportazioni e nelle uccisioni di massa. Gli armeni, dunque, non furono sterminati in quanto armeni, né in quanto cristiani. Ragionevolmente è da ritenere che, se analogo problema fosse sorto nelle regioni meridionali della Turchia, ad essere deportati e uccisi sarebbero stati i curdi, anche qui non in quanto curdi.
È questo che a mio modesto avviso rende impropria la definizione di genocidio per lo sterminio che cent’anni fa i turchi consumarono a danno delle popolazioni armene della Turchia orientale. Questo non attenua in alcuna misura la gravità del crimine che fu commesso, che resta enorme. Credo perciò che oggi si debba pretendere dalla Turchia di non sminuirne l’entità, senza però chiederle l’ammissione di genocidio, a meno che non si voglia ottenere, come mi pare sia nelle intenzioni di molti, un ulteriore suo irrigidimento su posizioni che progressivamente la allontanino sempre più da quell’Europa cui Kemal Atatürk l’aveva così sapientemente orientata.
D’altra parte, senza nasconderci l’intento che cova nell’acuire le crescenti tensioni tra Turchia ed Europa (il Vaticano è sempre stato ostile all’idea di un’entrata della Turchia nella Ue), desta sconcerto che a rilanciare l’imputazione di genocidio sia il massimo rappresentante di un’istituzione che nella sua storia ne ha commessi diversi. Si pensi agli albigesi, massacrati in quanti albigesi, o ai valdesi, massacrati in quanto valdesi. «Come successore di Pietro – disse Karol Wojtyla il 12 marzo 2000 – chiedo che in questo anno di misericordia la Chiesa, forte della santità che riceve dal suo Signore, si inginocchi davanti a Dio e implori il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli». Perdono chiesto a Dio, non alle vittime.

martedì 14 aprile 2015

L’aria che tira


Nel 1915, Mustafa Kemal Bey, al quale peraltro non era stato ancora conferito il titolo di Atatürk, era solo un ufficiale dell’esercito turco, per giunta di stanza sul fronte occidentale, lontano centinaia di chilometri dai luoghi dove fu consumato il massacro degli armeni. Può darsi che ne sia stato a conoscenza, e perfino che non lo abbia disapprovato, ma dire che «Atatürk fece massacrare un milione e mezzo di cristiani armeni» è in ogni caso una stratosferica cazzata. In quanto a conoscenza della storia, insomma, ieri mattina, a L’aria che tira, tirava un’aria di merda. 

lunedì 13 aprile 2015

Genocidio

Qualche giorno fa, a proposito dell’omicidio plurimo aggravato consumatosi al Tribunale di Milano, ho scritto che parlare di strage fosse improprio, perché «è strage quando ammazzi alla cieca, perché colpisci membri di una collettività che, per quanto eterogenea, investi di un’identità che è essa stessa il tuo bersaglio», mentre lì «la scelta delle vittime da parte dell’assassino aveva una ratio che le individuava precipuamente in soggetti predeterminati: quel tal giudice, quel tal avvocato, quel tal coimputato, ecc.», sicché, in riferimento a molti titoli strillati dai mezzi di informazione, quella di strage fosse «imputazione a cazzo di cane», mossa esclusivamente dall’inclinazione al sensazionalismo.
Qualcosa del genere, anche se a un livello indubbiamente superiore rispetto a quello dell’opinione pubblica che trova voce nel cronista, è accaduto e accade con l’imputazione di genocidio mossa da tempo alla Turchia, e in sede assai più qualificata, con pezze d’appoggio giurisdizionali di qualche indubbia solidità. Non è assolutamente lecito, infatti, sul piano storico e su quello morale negare che cent’anni fa, per diretta responsabilità del governo turco dell’epoca, si sia consumato lo sterminio di un enorme, ancorché imprecisato, numero di armeni, ma quanto è congruo chiamarlo genocidio?
Se col termine intendiamo l’insieme funzionalmente strutturato di atti finalizzati all’eliminazione fisica di un gruppo più o meno ampio di individui accomunati da un tratto identitario nazionale, etnico o religioso, fu senza dubbio un genocidio quello della Germania nazista a danno degli ebrei, cercati ovunque fosse possibile raggiungerli e eliminati in quanto ebrei. Se questo è il paradigma, trovano qualche ragione le perplessità avanzate da storici che non possono essere sospettati di simpatie per la Turchia e che, senza negare l’enormità del crimine commesso a danno degli armeni, nutrono qualche dubbio sul fatto che siano stati eliminati in quanto armeni, ne sarebbe prova il fatto che persecuzioni, le deportazioni e i massacri colpirono quasi esclusivamente gli armeni residenti in Anatolia, sostanzialmente trascurando quelli residenti altrove.
Ripeto: qui non è discussione che la violenza ci sia stata, e sia stata bestiale, e di dimensioni enormi, e per mano dei turchi, e a danno di armeni, e che questo, anche a distanza di un secolo, reclami giustizia. La questione che sollevo è altra: è corretto parlare di «genocidio armeno»? Per meglio dire: gli armeni che trovarono la morte per mano turca furono eliminati in quanto armeni, in quanto cristiani, o piuttosto in quanto ostacoli – reali o percepiti tali – per la realizzazione di una Grande Turchia che includesse stabilmente l’Anatolia? Nessun negazionismo: morirono a centinaia di migliaia, forse a milioni, ma si trattò di genocidio o di un progetto criminale che comunque non aveva a oggetto un’identità nazionale, etnica o religiosa?
Probabilmente è questione irrilevante, ma è proprio sul termine che sembrano acuirsi le tensioni diplomatiche con la Turchia, oggi non meno che ieri. E oggi, a rinfocolarle sul punto, bel bello, ecco Bergoglio, che, seduto in cima alla catasta dei milioni di morti addebitabili ai cristiani nel corso dei quindici secoli in cui il cristianesimo non si fece alcuno scrupolo nell’eliminazione degli avversari – reali o percepiti tali – che gli impedissero la pretesa di cattolicesimo (etimologicamente inteso: κατα ολος, su tutto), azzarda il ruolo di supremo giudice del tribunale penale internazionale. 


[...]

Un giubileo è di per se stesso – così fin dalle ragioni che Bonifacio VIII intese dare all’istituto (Antiquorum habet, 22 febbraio 1300) – un dispensario di indulgenza. Possibile nessuno noti che c’è franco pleonasmo nel definire «giubileo della misericordia» quello da venire?  

16.10.1927 - 13.4.2015


Può esser vero che di uno scrittore importi solo ciò che ha scritto e come l’ha scritto, e che sia meglio quand’è del tutto invisibile fuor di ciò ha scritto, almeno così si dice, e io inclino a ritenerlo giusto, tanto più giusto se di uno scrittore si ama tanto un romanzo che tutto ciò che ha scritto dopo sembra scritto solo per deludere le aspettative. Poi c’è da dire che i necrologi sarebbe meglio riservarli a chi li merita, e cioè a chi ci dispiace se ne sia andato, il che può renderli superflui nel caso della morte di uno scrittore di cui abbiamo amato tanto un romanzo, e solo quel romanzo, perché alla fin fine è morto lo scrittore, ma il romanzo resta. Vedi tu quante capriole sono costretto a fare per dire che la notizia della morte dell’autore de Il tamburo di latta – non voglio neanche nominarlo, ché non è affatto necessario – mi arriva, e non è giusto, e chissà come, ma perché, come una coltellata in pancia.  

Suggerirei olanzapina e lamotrigina

Non starò ad annoiare il mio lettore, che d’altronde è coltissimo, citando gli autori che hanno descritto e analizzato la relazione funzionale che c’è tra aggressività e vittimismo in quel vasto dominio della psicopatologia che dalle algide vette del narcisismo digrada nei frastagliati fiordi del borderline: mi limiterò a illustrare un caso clinico che mi pare sia emblematico di quella relazione, per poi avanzare una diagnosi e infine suggerire una terapia. Per farlo, tuttavia, sarà necessario, almeno in breve, fornire gli estremi di quello che sul piano della narrazione clinica possiamo a buon ragione definire antefatto. [Per chi ha voglia di circostanziare in dettaglio questi estremi rimando a Er Cecato e la cecataggine (Malvino, 5.12.2014), Mondo di mezzo (Malvino, 8.12.2014) e «Carminati invoca giustizia» (Malvino,31.12.2014), dove si argomenta quanto qui la sintesi potrebbe far sembrare apodittico.]
In breve, dunque, diciamo che qualche mese fa scoppia lo scandalo di Mafia Capitale e – qui cito, poco oltre vedrete per quale ragione, Carlo Bonini (la Repubblica, 11.4.2015) – «Il Foglio di Giuliano Ferrara […] deci[de] di insufflare, per sbertucciare tra il semi-serio e il sarcastico, “l’azzardo giuridico” del procuratore Giuseppe Pignatone, dell’aggiunto Michele Prestipino, dei sostituti Giuseppe Cascini, Paolo Ielo, Luca Tescaroli, nonché lo sforzo investigativo del Ros dei carabinieri». Non è mafia, dice Giuliano Ferrara: la mafia ha la coppola e la lupara, spara e usa il tritolo, qui si tratta di una banda di cravattari, topi nel formaggio, millantatori di un potere criminale che si esauriva nel far scivolare una mazzetta nella tasca di chi poteva favorire un appalto.
Sembrava sfuggisse – ma come era possibile non sospettare volesse sfuggire? – che l’art. 416 bis del nostro Codice Penale non descrive un’organizzazione denominata Cosa Nostra (o ’Ndrangheta, o Camorra, o Sacra Corona Unita), ma un’organizzazione di «tipo» mafioso, ciò che sul piano pubblicistico ha trovato in «stampo» un sinonimo assai felice. E quali sono, per il legislatore, gli elementi che consentono di identificare in un’associazione a delinquere il suo carattere mafioso? «L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali», rimarcando che «le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso».
Dopo aver letto le 1.228 pagine dell’ordinanza di applicazione delle misure cautelari emessa dal gip a carico degli indagati, si potevano aver dubbi che il «Mondo di mezzo» cui aveva dato vita Massimo Carminati non rispondesse alla fattispecie? D’altronde, qual era – peraltro neanche tanto occulto – il fine di «sbertucciare» l’ipotesi accusatoria basata sull’art. 416 bis? Negare la natura sistemica degli eventi delittuosi, astrarli dalla matrice che li rende strutturati in mosse di una strategia che va ben oltre l’arricchimento illecito, ma mira al controllo di un territorio, rendendo così l’associazione a delinquere un attore fattualmente politico, perché in grado di creare il luogo – e qui cito ancora Bonini (ibidem) – «dove gli appetiti del Palazzo e quelli della Strada e dunque i loro “tipi umani” (consiglieri comunali e spezza ossa, funzionari pubblici e corruttori, guardie e ladri) si incontrano per svuotare, con la forza dell’intimidazione, il ricatto e l’omertà, e dunque come ogni mafia degna di questo nome, non le forme, ma la sostanza della democrazia: la regolarità degli incanti pubblici, la trasparenza dell’agire amministrativo, la libertà nella formazione della volontà politica».
Direi che la polemica cui Il Foglio ha dato vita sulla questione di Mafia Capitale è solo uno degli episodi che ne caratterizzano il tratto scettico sulla sostanza della democrazia, nel solco dell’assunto che «un’oligarchia ben organizzata assomiglia molto a una democrazia possibile» (Il Foglio, 22.5.2008): l’altra – quella della regolarità degli incanti pubblici, della trasparenza dell’agire amministrativo, della libertà nella formazione della volontà politica – sarebbe quella impossibile. Qual è, d’altra parte, il confine tra l’intimidazione, il ricatto e l’omertà dell’organizzazione di stampo mafioso e gli strumenti di cui si serve un’«oligarchia ben organizzata»? C’è senza dubbio, ma quanto è labile! Potremmo dire che si delinea solo nel rispetto delle mere forme della democrazia, che tuttavia non impedisce di svuotarne la sostanza.
Ecco il pericolo, dunque, nel riconoscere il metodo di tipo mafioso nella join venture tra ceto politico e delinquenza di strada: viene a crearsi un precedente che può tornare buono a incriminare l’«oligarchia ben organizzata» quando incorra in qualche sbavatura procedurale. In buona sostanza, dal ritratto di Carminati come quello di un delinquentello qualsiasi alla sua difesa come vittima di una tortura (sì, Il Foglio è arrivato pure a questo), non abbiamo assistito al solito esercizio di sofistico spirito di patata che manda in sollucchero gli amanti dell’eccentrico, ma un più subdolo tentativo di liquidare il «Mondo di mezzo» come versione grossolana, fin quasi patetica, di quella raffinata delinquenza che dà vita all’unica «democrazia possibile». Certo, c’è pure l’elemento ludico, quello che ha reso Il Foglio un’officina dal marchio inconfondibile, qui espresso nello spericolato garantismo in favore del fetente di turno, ma sul fondo era evidente una posta in gioco assai più consistente, per la quale valeva la pena farsi estremamente aggressivi.
Ma ora? Qual è l’atteggiamento da assumere, ora che «per la prima volta nella storia repubblicana, il Genoma Mafioso, il “modello legale” dell’articolo 416-bis, nell’applicazione che ne dà la Cassazione, si libera della folcloristica e riduttiva rappresentazione della coppola storta, della lupara, del santino bruciato, della ferocia schizzata della narco Camorra e dei giuramenti ‘ndranghetisti, che sono e restano Mafi, ma che da ieri non la esauriscono» (Bonini, ibidem)? Quello della vittima: «la Cassazione ha dato ragione alla casta togata più influente, quella della Capitale, perché […] l’informazione massificata e orchestrata secondo un criterio di legalità culturalmente bacato, onnivoro e non procedurale, stravolge la realtà» (Giuliano Ferrara – Il Foglio, 13.4.2015). E la Cassazione ci casca? Evidentemente, d’altra parte «le pronunce giudiziarie hanno una loro intrinseca autorevolezza, e si giustificano o si contraddicono mediante altre pronunce giudiziarie», dunque non è detto un domani… Poi c’è che «non funziona una indagine giudiziaria annunciata a sorpresa, pochi giorni prima delle ordinanze di cattura e dell’elevazione delle accuse, dal suo massimo responsabile, il dottor Pignatone; non funziona in ogni senso la sede dell’annuncio, un convegno del Partito democratico; non funziona la spettacolare convergenza di tutti i giornali o quasi e di tutte le televisioni senza eccezione nel definire il fenomeno secondo una specie di lectio universalis desunta dalle carte e, trattandosi di centinaia di migliaia di pagine, dalla selettiva illustrazione riservata delle carte lungo canali al di fuori di ogni controllo, giorno dopo giorno, capitolo per capitolo». Inoltre, «la sentenza della Cassazione che “salva” per adesso il processo a venire del dottor Pignatone, e tiene in galera preventiva gli accusati (il che secondo un certo modo di vedere le cose è un caso di tortura), fa dei riconoscimenti in analogia patente con le nostre obiezioni: non c’è nell’indagine e nei suoi risultati una catena estorsiva e violenta di tipo mafioso; non ci sono delitti di mafia; c’è un’aria di malavita e di deviazione dai canoni della legalità, e di corruzione, intestabile al business della carità e dell’assistenza, a istituzioni tipiche di una concezione solidarista della funzione pubblica nel campo del recupero dei carcerati, dell’accoglienza e del volontariato». Insomma, «accanto a un mare di cose buone o di velleità redentive buoniste, scegliete voi, c’è il sospetto, e molto più che il sospetto, di un coinvolgimento corruttivo di pezzi dell’amministrazione capitolina, singoli funzionari, [ma] mancano le famiglie, i mandamenti, il linguaggio e le omertà della mafia, mancano gli arsenali, insomma mancano tutti gli elementi tipici di un crimine organizzato di tipo mafioso».
E tuttavia la Cassazione non dice che la mancanza di arsenali non toglie tipologia mafiosa agli addebiti sollevati nei confronti di Carminati & c.? Come non l’avesse detto: s’è fatta buggerare dalla campagna mediatica e al momento – solo al momento, sia chiaro, ché aggressività e vittimismo stanno bene insieme solo nell’irriducibilità di protervia e risentimento – le tesi di Giuliano Ferrara vanno a farsi benedire. «Un giornalismo di minoranza che nega l’assunto di una procura e argomenta in modo semplice i suoi dubbi deve essere tacitato senza esame obiettivo delle sue tesi?». E chi lo tacita? D’altra parte, le sue tesi non sono in tutto simili a quelle avanzate dai difensori di Carminati e che sono state respinte dalla Cassazione? Non sono state esaminate? Sì, ma forse non in modo obiettivo. L’obiettività è una prerogativa di Giuliano Ferrara, si sa.
Suppongo sia superfluo sottolineare i tratti del delirio di onnipotenza che anche in questo caso affligge il narcisista, qui mortificato dall’impatto con la realtà, che sappiamo essere evento catastrofico sul piano clinico: gli elementi di natura clinica emergono in tutta l’emblematicità del quadro nosografico.
Resta la terapia, e qui vorrei tagliar corto perché mi sono pure dilungato troppo su un caso che sarà esemplare quanto si vuole, ma un caso resta: io suggerirei olanzapina e lamotrigina. Ma a dosi generose, e senza aspettarsi altro che una parziale remissione dei sintomi. Perché la patologia in questione – triste dirlo – è altrimenti incurabile. Peraltro alleviare la sofferenza del malato è un dovere inderogabile della buona medicina.

venerdì 10 aprile 2015

Cristo, è una strage!

Quando monta l’isteria, si sparano imputazioni a cazzo di cane e, anche se qualcuno se ne accorge, tanta è la delicatezza che tace. Così con l’evocazione del reato di strage per l’omicidio plurimo che s’è consumato al Tribunale di Milano. È strage quando ammazzi alla cieca, perché colpisci membri di una collettività che, per quanto eterogenea, investi di un’identità che è essa stessa il tuo bersaglio. Qui, invece, la scelta delle vittime da parte dell’assassino aveva una ratio che le individuava precipuamente in soggetti predeterminati: quel tal giudice, quel tal avvocato, quel tal coimputato, ecc. E allora dove sta la strage? D’altronde la sanzione penale per strage fa tanta differenza da quella per omicidio plurimo con tutta la sfilza di aggravanti del caso? E allora perché nessuno – e, quel che è peggio, nemmeno un magistrato – osa dire che parlare di strage è da cretini? Così la parola corre, per la semplice ragione che sembra dare pienezza al sentimento di sconcerto, sarà perché ha un suono che strepita come si deve. È questione d’orecchio, probabilmente. Se esclamo «Gesù!», infatti, passo per personcina mite, dolciastra, sostanzialmente inoffensiva, forse pure un po’ molliccia. Con «Cristo!» rimedio tuttaltra figura.  

1905

giovedì 9 aprile 2015

[...]

Un infermiere stupra una paziente, chi deve dimettersi? Il primario dell’ospedale? Il direttore dell’Asl? Il ministro della Sanità? Portiamoli in tribunale tutti e tre, ovviamente insieme all’infermiere. Che viene condannato, mentre gli altri tre sono assolti. Chi dei tre rimane comunque responsabile – moralmente, se non penalmente – del reato commesso dall’infermiere? Chi dei tre deve dimettersi anche se è dimostrato che non ha istigato a quel reato, né lo ha coperto, né è stato complice di chi lo ha commesso?
Certe volte io non mi capacito della logica corrente in cui vedo scorrere perfino persone che stimo, e stavolta la logica corrente sentenzia che De Gennaro è responsabile dei fatti della Diaz. Al terzo grado di giudizio è stato assolto pure dall’accusa di aver spinto qualcuno a mentire su quei fatti. E allora – lo confesso – ho le vertigini, vacilla in me ogni certezza. Sulla responsabilità penale, che è sempre personale, o almeno dovrebbe. Sulle pertinenze che in ogni grado di una catena di comando stanno sempre, e personalmente, tra la più ligia obbedienza e il più folle arbitrio. Sul bisogno istintivo – da orda, sarei portato a dire – di concentrare una pur disomogenea distribuzione di colpe su un solo capro espiatorio.
Io non ho alcun dubbio che alla Diaz si sia consumata un’immensa, atroce schifezza. De Gennaro, poi, mi sta pure antipatico, così, a pelle, sarà quella pettinatura. Ma davvero non capisco, e non ho alcuna difficoltà ad ammettere sia un mio limite, che cazzo c’entri ancora con quello che è successo alla Diaz dopo una sentenza di Cassazione che lo ha assolto. Sentenza ingiusta? Qualcuno mi spiegasse perché. 

[...]

Ma questo De Gennaro è quello che una sentenza della Cassazione ha assolto dalle imputazioni relative ai fatti della Diaz? E allora dov’è la vergogna che sia alla presidenza di Finmeccanica? La questione eventualmente sarebbe altra, e cioè se la vergogna non sia per caso Orfini alla presidenza del Pd. Se non fosse che il Pd è quello che è, e che lì lo ha messo Renzi. Il che equivale a piena assoluzione per tutto ciò che Orfini dice. 

martedì 7 aprile 2015

Parafrasi del fare il frocio col culo altrui

È la seconda volta che Paolo Gentiloni annuncia un intervento armato dell’Italia contro i miliziani dell’Isis e che in meno di ventiquattr’ore smentisce, rettifica, chiarisce, puntualizza – dipende dai punti di vista – che in realtà non ci sarà alcun intervento armato dell’Italia. Ok, fa parte di un governo che, premier in testa, con gli annunci a effetto ha raccattato e cerca di non perdere il consenso che gli concedono i sondaggi in attesa che gli possa esser confermato dalle urne, quando sarà, tanto non c’è fretta, c’è ancora da perfezionare il sistema per farne durare gli effetti per una ventina d’anni. Se tuttavia di annuncio in annuncio si può anche avere la botta di culo che il gatto morto faccia un bel rimbalzo da spacciare per ripresa alla vigilia di elezioni di cui dar colpa a oppositori o ad alleati di governo, annunciare un intervento armato dell’Italia contro i miliziani dell’Isis – poco importa se per tutelare i nostri interessi economici in Libia o in difesa dei cristiani perseguitati dalle truppe del califfo – espone inevitabilmente a seri rischi il paese. Passi, si fa per dire, se questa è una decisione del governo, intenzionato a scavalcare il parlamento in una decisione che la carta costituzionale non affida a chi sta a Palazzo Chigi, tanto meno a chi sta alla Farnesina. Se però l’annuncio è fatto tanto per farlo, e subito rimangiarselo, il suo prezzo diventa estremamente alto rispetto a ciò che presume di ottenere, perché è chiaro che un eventuale attentato ai danni di un paese che agli occhi di un terrorista sembri imbarcato in una crociata colpirebbe più probabilmente cittadini inermi che ministri protetti da una scorta. Insomma, siamo alla parafrasi del fare il frocio col culo altrui: per fare il simpatico con l’Eni e col papa, Paolo Gentiloni ci espone a un grosso pericolo, semmai per dimostrarci, dopo, che un intervento armato dell’Italia avesse un ottimo motivo. 

[...]

Nel caso si dimostrasse che la pallottola ha trapassato il corpo della vittima dal basso verso l’alto, con ciò avvalorando quanto afferma chi l’ha esplosa, e cioè che abbia sparato perché lo stavano pestando, e tra chi lo pestava, chino su di lui, a una distanza di mezzo metro dalla canna della pistola, c’era pure chi poi è stato raggiunto dal colpo rivelatosi mortale, andrebbe corretta la lettura che in queste ore si fa dello striscione apparso sulle curve dello stadio Olimpico, lo scorso sabato, perché Ciro Esposito non sarebbe affatto quel pezzo di pane che, pur comprensibilmente, sua madre si ostina a ritenere sia morto per puro caso, essendosi accidentalmente trovato sulla traiettoria della pallottola esplosa da un folle assassino che il 3 maggio dell’anno scorso era uscito di casa per ammazzare qualcuno, non importava chi, e dunque avrebbe un senso che il manipolo di energumeni con svariati precedenti penali coi quali abitualmente si accompagnava oggi lo rivendichino come un caduto per una comune causa, considerando offesa alla sua memoria il dipingerlo come estraneo alla guerriglia scatenatasi quel giorno, con ciò negandogli l’onore – perché proprio di questione di onore pare si tratti – che si dovrebbe ad uno che, partito per darle, le abbia avute. Certo, accusare la madre di «lucrare» sulla morte del figlio è atrocemente assurdo, ma si sa che le bestie non sanno calibrare bene le proprie reazioni: fosse vera l’ipotesi con la quale ho aperto il post, e così pare che i rilievi autoptici e balistici inducano a credere, si potrebbe capire – giustificare, no – il perché di una così feroce aggressione verbale alla madre del giovane, e allo stesso modo si potrebbe comprendere anche la reazione straordinariamente mite che questa ha opposto a quello che è il peggiore insulto ad una donna che abbia perso un figlio. Vedremo, di certo al momento sembra solo che Ciro Esposito fosse organico a un gruppo di tifosi che allo stadio, in casa e in trasferta, si recava armato di bastoni e di coltelli: lungi dall’insinuare che se la sia cercata, ma, per come le istituzioni hanno consentito che gli stadi di calcio diventassero enclavi in cui la legge trova troppe deroghe, è abbastanza per ritenere che abbia accettato, più o meno coscientemente, il rischio al quale andasse incontro. Poi, sì, chi è morto merita sempre pietà, ma tutto sta nel sapere quanto questa pesi nell’impedire di fare chiarezza. 

Gentilmente, però, in prima fila

«Una rivoluzione culturale» (Claudio Cerasa) è cosa ben diversa da «una reazione di violenza giusta incomparabilmente superiore a quella subìta» (Giuliano Ferrara), ma in entrambi i casi non è chiaro quale sia la soluzione sul piano pratico. Cosa dovremmo fare per impedire che qui e lì nel mondo i cristiani vengano uccisi a causa della loro fede, ammesso e non concesso che sia giusto impedire loro di testimoniarla a prezzo della vita?
Cominciamo a esaminare la proposta di Cerasa. È chiaro che la sua «rivoluzione culturale» sia roba da promuovere in casa nostra, perché immaginare di andare a promuoverla tra le fila dell’Isis è da pazzi. Bene, cerchiamo di figurarcela al meglio, questa «rivoluzione culturale». Se è «rivoluzione», deve implicare il sovvertimento di uno stato di fatto. Se è «culturale», lo stato di fatto dev’essere quello che casa nostra non si dichiara più cristiana.
Questa interpretazione è forzata? Non mi pare. Pur avendo rinunciato al cristianesimo come religione di stato, a casa nostra vige una discreta tolleranza verso il cristianesimo e verso ogni altra religione, anzi, a dire il vero, verso il cristianesimo la tolleranza è tale da riuscire a farci sopportare con pazienza da martiri le sue insistenti e pesanti molestie che si sostanziano nella pretesa di imporci i suoi dettami, anche quando non ne condividiamo la ratio.
Ma, quand’anche questa «rivoluzione culturale» ci rendesse fieri di dirci cristiani (anche senza esserlo, sennò si tratterebbe di «conversione», e dovrebbe essere forzata, cosa che ci auguriamo di poter escludere), come basterebbe – per sé sola – a interrompere lo stillicidio di una decina di cristiani uccisi pro die? Questa «rivoluzione culturale» è per caso intesa come premessa alla difesa di un nostro interesse in casa altrui? Fosse così, non ci sarebbe troppa differenza con la proposta avanzata da Ferrara, la quale avrebbe un unico difetto rispetto a quella avanzata da Cerasa, quello d’essere intempestiva, precipitosa, mal preparata.
Ma forse non è così, forse Cerasa ha in testa qualcos’altro, se ce l’ha. Infatti pare che anche per lui quella dei cristiani uccisi a causa della loro fede sia questione urgente, e che non si risolva solo con «parole, parole, parole», e tuttavia anche lui non sembra sappia offrire altro, perché una «rivoluzione culturale» in grado di armare le democrazie occidentali a difesa dei cristiani in terre ad esse ostili, ancorché finalizzata ad un’impresa che sarebbe costosissima e dai risultati assai poco certi, esigerebbe tempo, molto tempo. Poi, certo, se la «rivoluzione culturale» di cui parla non deve rivoluzionare le maggioranze dei paesi occidentali, ma solo le élites che possono decidere crociate anche contro il parere delle opinioni pubbliche, il discorso è diverso. Diverso, però, solo fino a un certo punto, perché, dacché mondo è mondo, le crociate devono promettere un buon ritorno, e qui «ritorno» sia inteso in tutti i sensi.
Di sicuro, anche qui, c’è un papa che chiama gli «uomini di buona volontà» a tutelare i suoi interessi, d’altronde sembra che la storia sia più bidella che maestra, ma l’ostilità verso i cristiani che nutre in vario modo una parte del mondo islamico – dalla diffidenza al massacro – non trova proprio nelle crociate il miglior alibi per darsi come legittima difesa ad un colonialismo che si fa braccio armato del proselitismo?
A parte, poi, risulta incomprensibile – ma solo fino a un certo punto – l’ostinazione a non voler leggere quello che accade in gran parte dei paesi di cultura islamica per ciò che veramente è: assistiamo ad un conflitto tutto interno all’islam – interno ai contrapposti interessi che sono andati a costruirsi sui diversi e contrapposti filoni religiosi e culturali dell’islam – e i morti cristiani sono solo – triste dirlo, ma è così – un effetto collaterale e – insieme – un tentativo di allargare il conflitto all’occidente.
Anche soltanto immaginare un intervento armato in difesa dei cristiani che si ostinano a restare in terre ad essi ostili, peraltro esortati a restarvi dallo stesso papa che poi ne lamenta il massacro, è benzina sul fuoco. E un titolare della Farnesina che si lascia andare ad amenità del tipo «fermiamoli, anche con le armi» (Corriere della Sera, 7.4.2015) dovrebbe chiedersi se il solo dirlo non sia inopportuno. Poi, nel caso, sarebbe bello vederlo, assieme al papa e a Ferrara, affrontare le armate del califfo. Gentilmente, però, in prima fila. Perché ci siamo rotti il cazzo di interventisti che muoiono nel loro letto a novant’anni o a cento. 


lunedì 6 aprile 2015

domenica 5 aprile 2015

Una precisazione, così, una tantum

Devo una risposta all’obiezione che un lettore (si firma col nickname di max cady) rivolge a quello che presume sia il senso che io abbia voluto dare al post qui sotto (Primato del cristianesimo sull’islam – Malvino, 3.4.2015), rimproverandomi, come d’altronde fanno in molti, da sempre, di attenuare in qualche modo il giudizio negativo da me comunque espresso in più occasioni sull’islam, in generale, e su molte delle sue epicriticità, in dettaglio, col richiamo costante – maniacale, si direbbe – al fatto che il cristianesimo non sia affatto da meno, con ciò commettendo due gravi errori: in primo luogo, il non tener conto del fatto che ormai da secoli i cristiani si sono dati una ripulitina dagli orrori di cui invece molti musulmani ancora vanno fieri; di poi, del sottovalutare il fatto che i crimini commessi dai cristiani sarebbero meri effetti collaterali dell’evangelizzazione, mentre ai musulmani sarebbero prescritti dal Corano come prove di salda e genuina fede.
Bene, comincio col dire che queste osservazioni sono assai poco pertinenti alla questione che sollevo io. Io non faccio alcuna fatica a constatare che, per imporre la loro fede al mondo intero, i cristiani non facciano più uso della violenza fisica (su quella che si esercita con mezzi non cruenti sarebbe un discorso lungo e qui sorvolerò), ma sia ben chiaro che, se hanno smesso di farlo, non è perché d’un tratto hanno imparato a leggere i Vangeli come si deve, ma solo perché glielo si è impedito, non senza pagare un grosso prezzo, pagato per lo più da chi il cristianesimo sentì e trattò da nemico. Tra i martiri dei suoi primi tre secoli e quelli che oggi il cristianesimo – insieme – vanta e lamenta c’è un millennio e mezzo che solo un incosciente o un disonesto può pensare non conti niente o possa essere cancellato con due scuse, peraltro neanche rivolte alle vittime, ma a Dio, e soprattutto continuando a godere di ciò che si è conquistato coi mezzi che oggi si rimproverano a chi ha come fine lo stesso genere di conquista. Non riusciamo ad essere indulgenti davanti a ricchi o a nobili che abbiano acquistato ricchezze e titoli con nefandezze che a stento son celate da modi estremamente fini e stemmi meravigliosamente decorati, e poi dovremmo dimenticare cosa sia stato il cristianesimo prima di ritrovarcelo dinanzi, e solo in apparenza, così mite?
Il richiamo costante – maniacale, si direbbe – al passato di chi oggi lamenta di essere perseguitato ha il ben preciso compito di dare il dovuto contesto alle persecuzioni, non di giustificarle. Si tratta di un contesto che non ha il diametro di anni o di decenni, ma di secoli e secoli, e il contesto che lo interseca nel punto in cui i cristiani arrestano la loro conquista e arretrano è quello di un islam che ci offre una ripassatina di storia, con la sua personale riedizione delle guerre di religione col quale il cristianesimo ci diede milioni di morti, sui quali ancora glissa come su spiacevoli ma insignificanti sbavature di un salmo cantato a Dio.
In quanto al fatto che il Corano detti al musulmano il compito di sgozzare gli infedeli, gli detta pure di non uccidere nessuno. Come accade per tutti i libri sacri, che per sfidare i secoli devono per forza essere ambigui e contraddittori, tutt’è aspettare l’interpretazione che ci dia una religione di pace, in fondo ci sono voluti secoli perché il «qui non est mecum contra me» non fosse più letto come un’esortazione al massacro.

Dispiacersi per i cristiani perseguitati e uccisi da alcuni musulmani? Ma è naturale, ci mancherebbe altro. Certo, pensare che per mettere fine alla loro sofferenza sia necessaria «una reazione di violenza giusta incomparabilmente superiore a quella subita» (Giuliano Ferrara – Il Foglio, 4.4.2015), oltre che poco coerente con il dettato evangelico, è soluzione folle, in ultima analisi equivalente ad un invito a suicidarsi dopo  aver fatto fuori quanti più nemici: fatte salve le differenze di modalità, la stessa logica dello jihadista.
E allora quale sarebbe la soluzione? Temo non ci sia. Per meglio dire, temo che quella possibile non sia facilmente attuabile da chi professa un credo che fa obbligo di manifestare pubblicamente la propria fede, ed anzi non riesce ad ipotizzare altro tipo di esperienza religiosa che non sia comunitaria. Anche in ciò, il cristiano e il musulmano (anche il musulmano che afferma di ripudiare lo strumento della violenza fisica) si somigliano, per questo è irrimediabile che lo spazio pubblico sia per entrambi una posta in gioco, fatto sta che per terre da sempre sotto il tallone dell’islam la soluzione del «cuius regio, eius religio», con la quale si mise fine allo scannatoio europeo del XV e del XVI secolo, sarebbe mal tollerabile da chi ritiene che la testimonianza della propria fede debba farsi carico anche dell’effusione del proprio sangue. Lo effondesse pure, allora, tanto più se spalanca le porte del Paradiso ed è semenza di nuovi cristiani, ma in terre dove è sparuta minoranza non pretenda che gli riservi trattamento diverso da quello che i cristiani hanno riservato a quanti definivano infedeli.
La soluzione inaccettabile sarebbe quella dei lapsi, peraltro già adottata sotto le persecuzioni dei primi secoli del cristianesimo: vivere la propria fede nell’intimo del proprio cuore senza darne alcun segno esteriore. Tuttavia mi rendo conto che tale soluzione potrebbe andar bene solo a chi tenga di più alla propria pelle che alla propria anima, e dunque, a ben vedere, non resta che stare a guardare i cristiani ammazzati dai musulmani con l’umana compassione che non deve mai venir meno alla morte violenta anche di un solo uomo, anche se appartenente ad una cosca mafiosa perdente e fatto fuori da killer di una cosca mafiosa vincente. Vorrei tranquillizzare chi non me ne ritiene capace: questa compassione io la provo.
In quanto al post qui sotto, non aveva alcuna attinenza al massacro di cristiani consumatosi nel college keniota: l’oggetto erano le pratiche devozionali cruente del Venerdì Santo. In quanto a sangue, intendevo dire, ne spreme più un cattolico che uno sciita.

venerdì 3 aprile 2015

Primato del cristianesimo sull’islam


 Avvertenza per gli stomaci delicati:
il video mostra pratiche devozionali.

giovedì 2 aprile 2015

[...]

Do per scontato che Massimo D’Alema sia persona moralmente irreprensibile, proprio perciò non mi capacito del perché sia incazzato come una bestia per la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche in cui si fa il suo nome. C’è una cooperativa che ha acquistato cinquecento copie di un suo libro e duemila bottiglie del suo vino? Bene, mi pare non ci sia nulla di male, dunque perché gli dà fastidio che si sappia? Un buon libro e un buon vino non smettono d’essere tali se a comprarli sia stata una cooperativa oggi indagata per questo o quel reato, né chi ha scritto quel libro e prodotto quel vino ha da rimproverarsi nulla se ad acquistarli sia stato chi per questo o quel reato dovesse eventualmente essere condannato. Diciamo che a far nascere l’odioso sospetto che quegli acquisti non fossero motivati dalla qualità dei prodotti, che qui voglio dare per scontato sia indiscutibile, quanto piuttosto da una sorta di disobbligo clientelare, è solo ciò che Francesco Simone, responsabile delle relazioni istituzionali della cooperativa indagata, afferma in una delle telefonate intercettate, quando, quasi certamente millantandone la protezione, testualmente dice: «D’Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi e ci ha dato delle cose». La frase prova che quelle «cose» siano state date in cambio dell’acquisto delle copie del libro e delle bottiglie di vino, o che si trattasse di favori illeciti per il solo fatto che ad esse sia stata allegata l’immagine del «mettere le mani nella merda»? A me non pare, e tuttavia comprendo che la frase possa prestarsi a una lettura errata, soprattutto da chi intenda mettere in discussione l’indiscutibile rettitudine di Massimo D’Alema, il quale, dunque, prima di querelare chi voglia tessere ingiuste insinuazioni su quella frase, dovrebbe querelare Francesco Simone. L’ha fatto? Può darsi mi sia sfuggito, ma non ne ho notizia. 

martedì 31 marzo 2015

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È Antonio Socci (Libero, 29.3.2015), e non è tutto.
Sciacallaggio, senza dubbio, e senza il benché minimo cenno al fatto che Andreas Lubitz fosse cattolico. Certo, fosse stato musulmano, il pezzo sarebbe venuto meglio.
Dinanzi a quanto ci fa orrore sentiamo l’istintivo bisogno di tenercene a distanza, fuggendolo, se ci è troppo d’accanto. Quando però l’orrore nasce da quanto ci è assai prossimo, la fuga impone come l’abbandono di qualcosa che a torto o a ragione pensavamo ci appartenesse, e che d’un tratto ci appare estraneo. Lì torna utile immaginarlo come contaminato, e il primo esempio che mi viene in mente è quello del piede che con orrore scopriamo ci stia andando in gangrena: per salvarci siamo costretti ad accettare ci sia amputato, perdita comprensibilmente dolorosa ma altrettanto comprensibilmente necessaria, che però assumiamo come scelta di separarci da qualcosa che già non sentiamo più nostro, ma del Clostridium perfrigens.
Le cose stanno messe un po’ diversamente quando il corpo è quello sociale e l’orrore nasce dal constatare che chi fino a ieri abbiamo considerato simile a noi, in realtà, non lo sia affatto: stanno messe un po’ diversamente perché quello sociale è corpo solo in modo figurato (è solo una figura retorica, infatti, a ridarcelo come organismo) ed è nostro con molta confusione circa la titolarità dell’appartenenza (dovremmo, eventualmente, essere noi ad appartenergli, ma un’altra figura retorica, la metonimia, troppo spesso riesce a darci l’illusione che esso ci appartenga: concepirlo come vorremmo fosse, dunque, ce lo ridà come proiezione del nostro corpo).
Direi che sia per questo che la scoperta che il nostro vicino di casa è un mostro che nel frigo colleziona teste di bambini sia destinata a darci tanto più orrore quanto più l’abbiamo percepito simile a noi, cosa possibile solo se l’attenzione che gli abbiamo potuto dedicare era giocoforza limitata al poco che egli ci mostrava di se stesso, ma nello stesso tempo ci sembrava potesse bastare ad assumerlo come nostro proiettato. In altri termini, ci vuol poco per inorridire all’idea di un terrorista salafita che si faccia saltare in aria in una moschea yemenita, ma ce ne vuole assai di meno per inorridire all’idea di un copilota tedesco che mandi un aerobus imbottito di passeggeri a sfracellarsi contro una montagna francese: l’orrore sarà tanto maggiore quanto minore sarà la distanza che immaginavo esistesse tra me e l’autore della strage. 
Centocinquanta morti in entrambi i casi, ma solitamente io vado in aereo, non in moschea, e poi Andreas Lubitz mi somiglia molto di più rispetto a quel cazzo d’un Mohamed o di un Alì di cui non so neanche il cognome: sempre gangrena è, ma quando il piede è mio, consentirete, l’orrore sarà più intenso. Per la stessa ragione, le atrocità commesse in Iraq da un foreign fighter che viene da Verona mi turberanno assai di più di quelle commesse da uno che viene da Londra, e ancor di più di quelle commesse da uno che viene da Tunisi. Direi che, quando le ragioni che motivano una strage hanno preso le mosse da un universo che ritengo estraneo al mio, l’orrore mi turba, ma non mi dà troppi problemi. Quando, al contrario, l’autore della strage è uno che fino a ieri avrei detto mio fratello, non mi basta sapere che fosse folle: ho bisogno di appioppargli una gangrena metafisica.   

lunedì 30 marzo 2015

Renzi è peggio di Berlusconi

Una frase pronunciata da Landini nel corso del discorso tenuto sabato scorso in Piazza del Popolo ha trovato sintesi giornalistica in un’affermazione sulla quale in molti hanno storto il muso: dopo aver elencato i provvedimenti di natura economica fin qui adottati dall’esecutivo attualmente in carica – i riferimenti erano quasi interamente relativi al cosiddetto Jobs Act – il segretario generale della Fiom-Cgil ha detto che «il governo Renzi sta proseguendo come i governi precedenti Monti e Letta e anche con un peggioramento rispetto al governo Berlusconi», ma la concisione imposta dalle esigenze dello strillo hanno trasformato la frase in «Renzi è peggio di Berlusconi», che è suonata come giudizio complessivo sulla persona del premier, e giudizio assai poco lusinghiero, soprattutto tenuto conto del termine di paragone, sicché in molti hanno storto il muso, anche fra quanti a Renzi non hanno fatto mai sconto di nulla.
Peggio di Berlusconi, insomma, nessuno: «un piazzista piduista con capitali dalle origini molto torbide, che inizia il suo business ungendo amministratori pubblici per vendere case agli enti locali, poi continua legandosi mani e piedi al peggior potere politico e stringendo rapporti con la mafia, quindi fa costruire il suo partito da un mafioso usando il suo capitale e le sue televisioni per andare al governo, continuando intanto un’opera mai interrotta di corruzione ed evasione fiscale, dopo aver corrotto anche un giudice per prendersi una casa editrice non sua, infine trascorrendo l’ultima legislatura di governo a fabbricare leggi incostituzionali per salvare se stesso dai processi [e] questo per tacer del resto, mignotte minorenni incluse», così nel memento di Alessandro Gilioli, che renziano non è, e che nel definire i termini della questione non manca di porre in rilievo la differenza tra quel che Landini ha realmente detto e quel che invece i cronisti gli hanno fatto dire.
Bene, io l’ho già scritto poco più di un mese fa e non ho alcuna difficoltà a ripeterlo: «Renzi è peggio di Berlusconi». A dire il vero, non mi esprimevo proprio in questi termini, ma, visto che la frase nasce orfana e nessuno la vuole, l’adotto io. Ammetto sia bruttina, ma lasciarla indifesa non mi pare giusto. Ed eccomi a difenderla, cominciando dal togliergli le virgolette.
Renzi è peggio di Berlusconi, perché Berlusconi non è ancora morto, ma non sarà mai più pericoloso quanto lo è stato, senza peraltro riuscire a far varare dalla sua maggioranza parlamentare tutte le schifezze di cui fin qui Renzi si è dimostrato capace. Se fosse necessario per azzoppare Renzi, il che al momento non è alle viste, votare Berlusconi esigerebbe uno stomaco foderato d’un pelo alto un palmo, ma, avendocelo, potrebbe anche essere eccitante. Nessuno è peggio di Renzi, perché nessuno – qui e ora – è altrettanto pericoloso, neppure Berlusconi.