Uggesuggesuggesù, ma questo non è il Fini della Bossi-Fini. Salvo piroetta finale con un bel «e tuttavia», questo è uno che, dopo essersi fatto sfilare Alleanza Nazionale da Silvio Berlusconi, cerca di fottersi Emergency da Gino Strada.
lunedì 20 aprile 2015
Pietrangelo Buttafuoco, Il Feroce Saracino, Bompiani 2015
Nel mettermi dinanzi alla pagina bianca per scrivere dell’ultimo libro di Pietrangelo Buttafuoco (Il Feroce Saracino, Bompiani 2015), irresistibile è la tentazione di chiarire la mia posizione di lettore parafrasando quell’«io di mio» che apre il XV capitolo («Io di mio ho un nome saraceno»), e poi il XVII («Io di mio ho questa lunga storia d’amore con questo ritrovarmi saraceno»), attaccando con un’avvertenza che mi protegga da possibili fraintendimenti da parte chi si appresta a leggere questo tentativo di recensione (vedrete quanto impossibile): io di mio ho orrore perfino della trascendenza che ubriaca da millenni l’occidente, figurarsi se me ne bevo una d’importazione.
Tentazione irresistibile, questa di chiarire che non la bevo, perché in questo libro, assai più che in quelli precedenti, dove pure l’Islam emanava tutto il suo impeto proselitario in puro incanto, don Pietro (ora Giafar al-Siqilli) usa quell’«io di mio» a offrirsi come una soluzione autobiografica che ci dà per culminata nel sereno ritorno ad una casa che è di tutti, e a questo «io di mio» non si può negare quell’intrinseca forza di fascinazione che chi narra del suo viaggio riesce ad esercitare su chi ascolta, quando ci riesce, sicché Itaca può diventare facilmente patria anche di chi è nato a Oslo. Se ogni recensione è sempre, almeno per metà, un parlare di se stessi – seccatura che solo il recensore professionale può evitare a se stesso e ai suoi lettori – qui mi preme sbrigare la faccenda il più velocemente possibile: l’Islam di Pietrangelo Buttafuoco sembra avere una sola ma vitale urgenza esistenziale, quella di chiarirci che l’jihad è sforzo tutto interno, e che la vittoria sul Nemico sta nel pieno abbandono di se stessi ad una Verità che nella rivelazione del Profeta trova solo la piena conclusione – ma lo si scusa volentieri non sia poco – di ciò che Dio ha rivelato ad Abramo, e poi a Mosè, e poi a Gesù. Non è così, ovviamente. Perché l’jihad è anche campagna di conquista, come è connaturato nel dna comune a tutti i monoteismi. Perché la Verità che si fa legge nel Corano non è meno diversa da quella che si fa legge nei Vangeli di quanto sia diversa da quella che si fa legge mosaica. Se un tratto comune le apparenta, procede per ebrei, cristiani e musulmani da quella pesca a strascico che da oriente a occidente raccoglie suggestioni ancestrali di ogni genere, dalle pendici del Tibet alla sorgente del Nilo.
Per capire come possa riuscirci affascinante l’Islam di Pietrangelo Buttafuoco, bisogna immaginarcelo come un cristiano che vada per le strade di Parigi a declamare il Discorso della Montagna mentre i cattolici sgozzano gli ugonotti. Uno lo ascolta e non può fare a meno di dire: caspiterina, che religione di pace! E senza ironia, perché Giafar al-Siqilli è sufi genuino, onesto e convincente (per dire, Franco Battiato ne sembra una caricatura che suona come un soldo di latta), e non vogliamo avere dubbi che la società organica della tradizione sciita sia di un corporativo così caritatevole da essere l’ombra pur fievole della legge del Misericordioso. E poi, via, non ci sono cristiani che si limitano a testimoniare Cristo come incontro, con la sola forza dell’esempio, trasfigurando il dogma in pura immagine del Sovrumano, la precettistica in diario intimo e la preghiera in canto? No, eh? E vabbè, fa niente, come non detto, tanto qui era discussione un musulmano. Uno solo, sia chiaro.
Una modesta proposta
«Dichiaro con tutta la sincerità del mio cuore
che non ho il minimo interesse personale
a cercar di promuovere quest’opera necessaria»
Jonathan Swift, Una modesta proposta (1729)
È cosa ben triste, per chi butta un occhio alla tv, sapere di tanti poveracci che annegano nel Mediterraneo nel disperato tentativo di fuggire guerra e miseria. Per parte mia, dopo aver riflettuto per molti anni su questo grave problema ed aver considerato attentamente le varie soluzioni fin qui adottate per porvi rimedio, mi son reso conto che in esse vi erano grossolani errori di calcolo. Per questo mi decido ad avanzare una proposta che son certo troverà il giusto sostegno in chiunque abbia animo sensibile unito a savio intelletto. Consentitemi, però, di esporre in rapida sintesi gli aspetti salienti del problema, perché è da essi che a mio modesto avviso occorre prendere le mosse per cogliere il buonsenso che ispira la mia proposta.
Ci sono migliaia e migliaia di poveracci – c’è chi dice superino il milione – che dalle coste dell’Africa settentrionale aspettano il loro turno per imbarcarsi su malsicuri natanti per raggiungere Lampedusa, lembo estremo di quell’Europa che per essi è miraggio di nuova vita. Per arrivare ai lidi dai quali inizieranno una traversata dall’esito incerto, e assai spesso infausto, sono costretti a sborsare migliaia di euro a loschi individui che li sottopongono a marce forzate attraverso il deserto, senza risparmiare ad essi soprusi e violenze, e altre migliaia di euro sono costretti a sborsare per un posto su scafi scassati e gommoni mosci, sui quali vengono stipati peggio che fossero delle bestie. Arrivati in Italia, se ci arrivano, li aspetta un centro di accoglienza che è peggio di un carcere e lì stanno per mesi e mesi, in attesa che venga riconosciuto loro un diritto di asilo. Solo in minima parte hanno intenzione di restare in Italia, perché quasi tutti avevano, e fin dall’inizio, un’altra meta, Germania, Francia, Norvegia, Danimarca, ecc. Non è proprio questo, d’altronde, a motivare il disinteresse che la Ue sembra mostrare verso la gravità di questa immane emergenza umanitaria, il cui peso ricade quasi per intero sull’Italia?
Riuscite a intravvedere la soluzione? Non ancora? Aspettate, ché vi ci porto tenendovi per mano. Rispondete con animo sgombro da pregiudizio: pensate ci sia modo di fermare questa ondata migratoria alla maniera che propone quella gran testa di cazzo di Salvini? Pensate che il più sollecito programma di soccorso in mare possa evitare che altri barconi si capovolgano e altri disgraziati anneghino? Più di tutto: pensate che ulteriori inasprimenti delle pene per i criminali che organizzano l’orribile mercato possano scoraggiarli a fronte della prospettiva degli immensi guadagni che fanno sulla pelle di tanta povera gente? Vi avverto: siete ad un passo dalla soluzione. Se non la vedete, è per un mero vizio logico.
Via, qual è il sistema per venire incontro alle sacrosante aspettative dei migranti e, allo stesso tempo, a sollevare il nostro paese dalle difficoltà di un doveroso intervento umanitario che tuttavia sarà sempre inadeguato a fronte delle risorse umane e finanziarie che esigerebbe per essere davvero efficiente? Proprio non ci arrivate? Vabbè, vi do un aiutino: crociere. Non cogliete? E allora entro nello specifico.
Dai racconti dei migranti sappiamo che ciascuno ha dovuto sborsare da un minimo di 4.000 ad un massimo di 8.000 euro per riuscire ad avere un posto su una carretta di mare in partenza per l’Italia. Basterebbe ne sborsassero la metà perché una crociera su navi adeguatamente approntate allo scopo li portasse in giro a far scalo nei porti d’Europa, dove scendere da turisti per non far più ritorno a bordo. Ci sarebbe, è vero, da organizzare una rete di navette mobili dai paesi che sono il punto di partenza di quella che oggi è una dura e incerta Odissea, e che invece potrebbe trasformarsi in un comodo viaggio verso un porto controllato da nostre unità militari, chessò in Libano. Il costo di questa iniziativa sarebbe ampiamente coperto dal contributo che i migranti sarebbero felici di poter versare, sapendo di poter così contare su un sostanzioso residuo di risorse per le primarie necessità da affrontare nei paesi prescelti come mete finali. Basterebbero due navi da crociera da 2.000 posti ciascuna in servizio permanente nel Mediterraneo e nei Mari del Nord (si potrebbero eventualmente offrire ai migranti opzioni differenziate: Barcellona-Marsiglia, Helsinki-Stoccolma, Kiel-Copenhagen, ecc.).
venerdì 17 aprile 2015
Sul genocidio, ancora
Quando
c’è controversia sul significato di un termine, che quasi sempre è controversia
su quanto sia corretta o meno una sua attribuzione, penso non ci sia niente di
meglio che cominciare a ragionare sulla sua origine, cercando di trovare il
come, il dove e il quando s’è fatto significante. E tuttavia questo non basta,
perché non è affatto raro che, col tempo, un significante possa cambiare
significato, e anche di molto, com’è nel caso di ecatombe, termine che nacque nel IV secolo a.C. per significare l’uccisione
di cento buoi (εκατον βους), offerti in sacrificio a una divinità. In realtà, c’è
chi sostiene che cento fossero le zampe degli animali sacrificati, che dunque
erano solo venticinque, e non necessariamente buoi. Di fatto, quando oggi
diciamo ecatombe, l’idea non corre
necessariamente a un’offerta votiva, né necessariamente all’uccisione di
animali, venticinque o cento che siano.
Sostanzialmente
diverso, invece, è il discorso relativo ai termini che nascono in un contesto
scientifico per dare un nome a entità materiali o concettuali che ovviamente ne
sono sprovviste al momento in cui vengono postulate, scoperte, inventate, ecc.
In questo caso, il significante resta legato per lungo tempo al significato per
il quale il termine è stato coniato, anche quando l’entità alla quale è stato
attribuito viene ad appalesare caratteristiche che sembrano farlo diventare improprio,
com’è nel caso dell’atomo, che α-τομος
è rimasto anche dopo la scoperta che è possibile scomporlo in particelle
subatomiche.
La
questione relativa all’uso del termine genocidio
rimanda ineludibilmente alla sua origine, che trova ragione nel tentativo di
definire il tratto distintivo di una particolare fattispecie criminosa, ravvisabile
in alcune eliminazioni di massa, e in altre no. Tale tratto distintivo è quello
relativo alla finalità posta nell’atto criminoso quando questo prenda a oggetto
il γενος della massa che intende eliminare, e cioè il carattere che conferisce un
comune elemento identitario agli individui che la compongono. Col genocidio, insomma, siamo dinanzi al
programma di eliminazione di quell’elemento identitario (nazionale, etnico,
religioso) attraverso la soppressione di tutti gli individui che lo
rappresentano con la loro mera esistenza, così intesa come «vita indegna di essere vissuta» (Hannah Arendt).
Per
quale ragione Raphael Lemkin ritenne necessario dar vita a un neologismo per
definire quello che altrimenti poteva continuare ad esser detto sterminio,
massacro, eccidio, ecc.? Semplice. Perché con la Shoah era venuto a rendersi
tragicamente evidente, non foss’altro perché esplicitamente dichiarato dai
carnefici, quello che era il fine ultimo di quella carneficina: l’annientamento
degli ebrei in quanto ebrei. Il genocidio
degli ebrei, insomma, trovava ragione nel solo fatto che essi fossero ebrei, sicché
nell’Endlösung der Judenfrage l’attenzione
andava posta sul fatto che la questione
(-frage) fosse l’esistenza stessa degli
ebrei in quanto ebrei e che la soluzione (-lösung)
non potesse che essere il loro completo annientamento. Anche per questo la
definizione di olocausto appare altrettanto
pertinente: per i nazisti era tutto (ολος) ciò che era ebreo a dover essere bruciato (καυστος).
Sappiamo, infatti, che in Germania e in tutti i paesi di cui il Terzo Reich prese
il controllo militare la ricerca degli ebrei in quanto ebrei al fine di avviarli
allo sterminio fu puntigliosamente condotta senza eccezioni di sorta, sicché in
pochi anni il numero delle vittime toccò i sei milioni di individui e ad essere
risparmiati da quel massacro furono i soli ebrei riusciti a sfuggire per tempo
alla messa in atto del programma di annientamento totale, insieme ai pochi
sopravvissuti ai campi di sterminio.
Nel
caso degli armeni che nel 1915 furono sterminati in un numero che le varie
stime danno tra i 200.000 e i 1.600.000, possiamo parlare di genocidio? Gli armeni furono eliminati
in quanto armeni? Fu l’elemento identitario nazionale, etnico, religioso che li
contraddistingueva nel motivare il loro massacro? Se sì, come spiegarci il
fatto che molti armeni furono risparmiati dalla persecuzione, dalla
deportazione e dall’eccidio anche se il loro destino era nella disponibilità di
chi intanto ne massacrava una gran quantità? Richiamando alla memoria la
situazione venutasi a creare nelle regioni orientali della Turchia allo scoppio
della Grande Guerra, con la paventata ipotesi che gli armeni dell’Anatolia potessero
unirsi ai russi, coi quali invece i turchi erano in conflitto, con ciò causando alla Turchia la
perdita di controllo sui territori da essi abitati. La soluzione fu trovata
nelle deportazioni e nelle uccisioni di massa. Gli armeni, dunque, non furono
sterminati in quanto armeni, né in quanto cristiani. Ragionevolmente è da ritenere che, se
analogo problema fosse sorto nelle regioni meridionali della Turchia, ad essere
deportati e uccisi sarebbero stati i curdi, anche qui non in quanto curdi.
È
questo che a mio modesto avviso rende impropria la definizione di genocidio per lo sterminio che cent’anni
fa i turchi consumarono a danno delle popolazioni armene della Turchia
orientale. Questo non attenua in alcuna misura la gravità del crimine che fu
commesso, che resta enorme. Credo perciò che oggi si debba pretendere dalla Turchia di non sminuirne l’entità, senza però chiederle l’ammissione di genocidio, a meno che non si voglia ottenere, come mi pare sia nelle intenzioni di molti, un ulteriore suo irrigidimento su posizioni che progressivamente la allontanino sempre più da quell’Europa cui Kemal Atatürk l’aveva così sapientemente orientata.
D’altra parte, senza nasconderci l’intento che cova nell’acuire le crescenti tensioni tra Turchia ed Europa (il Vaticano è sempre stato ostile all’idea di un’entrata della Turchia nella Ue), desta sconcerto che a rilanciare l’imputazione di genocidio sia il massimo rappresentante di un’istituzione che nella sua storia ne ha commessi diversi. Si pensi agli albigesi, massacrati in quanti albigesi, o ai valdesi, massacrati in quanto valdesi. «Come successore di Pietro – disse Karol Wojtyla il 12 marzo 2000 – chiedo che in questo anno di misericordia la Chiesa, forte della santità che riceve dal suo Signore, si inginocchi davanti a Dio e implori il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli». Perdono chiesto a Dio, non alle vittime.
D’altra parte, senza nasconderci l’intento che cova nell’acuire le crescenti tensioni tra Turchia ed Europa (il Vaticano è sempre stato ostile all’idea di un’entrata della Turchia nella Ue), desta sconcerto che a rilanciare l’imputazione di genocidio sia il massimo rappresentante di un’istituzione che nella sua storia ne ha commessi diversi. Si pensi agli albigesi, massacrati in quanti albigesi, o ai valdesi, massacrati in quanto valdesi. «Come successore di Pietro – disse Karol Wojtyla il 12 marzo 2000 – chiedo che in questo anno di misericordia la Chiesa, forte della santità che riceve dal suo Signore, si inginocchi davanti a Dio e implori il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli». Perdono chiesto a Dio, non alle vittime.
martedì 14 aprile 2015
L’aria che tira
Nel
1915, Mustafa Kemal Bey, al quale peraltro non era stato ancora conferito il titolo di Atatürk,
era solo un ufficiale dell’esercito turco, per giunta di stanza sul fronte
occidentale, lontano centinaia di chilometri dai luoghi dove fu consumato il
massacro degli armeni. Può darsi che ne sia stato a conoscenza, e perfino che non
lo abbia disapprovato, ma dire che «Atatürk fece massacrare un milione e mezzo
di cristiani armeni» è in ogni caso una stratosferica cazzata. In quanto a
conoscenza della storia, insomma, ieri mattina, a L’aria che tira, tirava un’aria di merda.
lunedì 13 aprile 2015
Genocidio
Qualche
giorno fa, a proposito dell’omicidio plurimo aggravato consumatosi al Tribunale
di Milano, ho scritto che parlare di strage fosse improprio, perché «è strage quando ammazzi alla cieca, perché
colpisci membri di una collettività che, per quanto eterogenea, investi di
un’identità che è essa stessa il tuo bersaglio», mentre lì «la scelta delle vittime da parte
dell’assassino aveva una ratio che le individuava precipuamente in soggetti
predeterminati: quel tal giudice, quel tal avvocato, quel tal coimputato, ecc.»,
sicché, in riferimento a molti titoli strillati dai mezzi di informazione,
quella di strage fosse «imputazione a
cazzo di cane», mossa esclusivamente dall’inclinazione al sensazionalismo.
Qualcosa
del genere, anche se a un livello indubbiamente superiore rispetto a quello
dell’opinione pubblica che trova voce nel cronista, è accaduto e accade con l’imputazione
di genocidio mossa da tempo alla Turchia, e in sede assai più qualificata, con
pezze d’appoggio giurisdizionali di qualche indubbia solidità. Non è
assolutamente lecito, infatti, sul piano storico e su quello morale negare che
cent’anni fa, per diretta responsabilità del governo turco dell’epoca, si sia consumato lo sterminio di un enorme, ancorché imprecisato, numero di armeni, ma
quanto è congruo chiamarlo genocidio?
Se col termine intendiamo l’insieme
funzionalmente strutturato di atti finalizzati all’eliminazione fisica di un
gruppo più o meno ampio di individui accomunati da un tratto identitario nazionale,
etnico o religioso, fu senza dubbio un genocidio quello della Germania nazista
a danno degli ebrei, cercati ovunque fosse possibile raggiungerli e eliminati
in quanto ebrei. Se questo è il paradigma, trovano qualche ragione le
perplessità avanzate da storici che non possono essere sospettati di simpatie
per la Turchia e che, senza negare l’enormità del crimine commesso a danno
degli armeni, nutrono qualche dubbio sul fatto che siano stati eliminati in
quanto armeni, ne sarebbe prova il fatto che persecuzioni, le deportazioni e i
massacri colpirono quasi esclusivamente gli armeni residenti in Anatolia,
sostanzialmente trascurando quelli residenti altrove.
Ripeto: qui non è
discussione che la violenza ci sia stata, e sia stata bestiale, e di dimensioni
enormi, e per mano dei turchi, e a danno di armeni, e che questo, anche a
distanza di un secolo, reclami giustizia. La questione che sollevo è altra: è
corretto parlare di «genocidio armeno»? Per meglio dire: gli armeni che
trovarono la morte per mano turca furono eliminati in quanto armeni, in quanto
cristiani, o piuttosto in quanto ostacoli – reali o percepiti tali – per la
realizzazione di una Grande Turchia che includesse stabilmente l’Anatolia?
Nessun negazionismo: morirono a centinaia di migliaia, forse a milioni, ma si
trattò di genocidio o di un progetto criminale che comunque non aveva a oggetto
un’identità nazionale, etnica o religiosa?
Probabilmente è questione
irrilevante, ma è proprio sul termine che sembrano acuirsi le tensioni
diplomatiche con la Turchia, oggi non meno che ieri. E oggi, a rinfocolarle sul
punto, bel bello, ecco Bergoglio, che, seduto in cima alla catasta dei milioni
di morti addebitabili ai cristiani nel corso dei quindici secoli in cui il
cristianesimo non si fece alcuno scrupolo nell’eliminazione degli avversari –
reali o percepiti tali – che gli impedissero la pretesa di cattolicesimo (etimologicamente
inteso: κατα ολος, su tutto), azzarda il ruolo di supremo giudice del tribunale
penale internazionale.
[...]
Un
giubileo è di per se stesso – così fin dalle ragioni che Bonifacio VIII intese
dare all’istituto (Antiquorum habet,
22 febbraio 1300) – un dispensario di indulgenza. Possibile nessuno noti che c’è
franco pleonasmo nel definire «giubileo
della misericordia» quello
da venire?
16.10.1927 - 13.4.2015
Può
esser vero che di uno scrittore importi solo ciò che ha scritto e come l’ha
scritto, e che sia meglio quand’è del tutto invisibile fuor di ciò ha scritto, almeno
così si dice, e io inclino a ritenerlo giusto, tanto più giusto se di uno
scrittore si ama tanto un romanzo che tutto ciò che ha scritto dopo sembra scritto
solo per deludere le aspettative. Poi c’è da dire che i necrologi sarebbe
meglio riservarli a chi li merita, e cioè a chi ci dispiace se ne sia andato,
il che può renderli superflui nel caso della morte di uno scrittore di cui
abbiamo amato tanto un romanzo, e solo quel romanzo, perché alla fin fine è morto lo scrittore,
ma il romanzo resta. Vedi tu quante capriole sono costretto a fare per dire che la notizia della morte
dell’autore de Il tamburo di latta –
non voglio neanche nominarlo, ché non è affatto necessario – mi arriva, e non è giusto, e chissà come, ma perché, come una coltellata in pancia.
Suggerirei olanzapina e lamotrigina
Non
starò ad annoiare il mio lettore, che d’altronde è coltissimo, citando gli
autori che hanno descritto e analizzato la relazione funzionale che c’è tra
aggressività e vittimismo in quel vasto dominio della psicopatologia che dalle
algide vette del narcisismo digrada nei frastagliati fiordi del borderline: mi
limiterò a illustrare un caso clinico che mi pare sia emblematico di quella
relazione, per poi avanzare una diagnosi e infine suggerire una terapia. Per farlo, tuttavia,
sarà necessario, almeno in breve, fornire gli estremi di quello che sul piano della
narrazione clinica possiamo a buon ragione definire antefatto. [Per chi ha
voglia di circostanziare in dettaglio questi estremi rimando a Er Cecato e la cecataggine (Malvino, 5.12.2014), Mondo di mezzo (Malvino, 8.12.2014) e «Carminati
invoca giustizia» (Malvino,31.12.2014), dove si argomenta quanto qui la sintesi potrebbe far sembrare
apodittico.]
In breve, dunque, diciamo che qualche mese fa scoppia lo scandalo
di Mafia Capitale e – qui cito, poco oltre vedrete per quale ragione, Carlo
Bonini (la Repubblica, 11.4.2015) – «Il Foglio di Giuliano Ferrara […] deci[de] di insufflare, per sbertucciare tra il
semi-serio e il sarcastico, “l’azzardo giuridico” del procuratore Giuseppe
Pignatone, dell’aggiunto Michele Prestipino, dei sostituti Giuseppe Cascini,
Paolo Ielo, Luca Tescaroli, nonché lo sforzo investigativo del Ros dei carabinieri».
Non è mafia, dice Giuliano Ferrara: la mafia ha la coppola e la lupara, spara e
usa il tritolo, qui si tratta di una banda di cravattari, topi nel formaggio,
millantatori di un potere criminale che si esauriva nel far scivolare una
mazzetta nella tasca di chi poteva favorire un appalto.
Sembrava sfuggisse – ma
come era possibile non sospettare volesse sfuggire? – che l’art. 416 bis del
nostro Codice Penale non descrive un’organizzazione denominata Cosa Nostra (o ’Ndrangheta,
o Camorra, o Sacra Corona Unita), ma un’organizzazione di «tipo» mafioso, ciò che sul piano pubblicistico ha trovato in «stampo» un sinonimo assai felice. E
quali sono, per il legislatore, gli elementi che consentono di identificare in
un’associazione a delinquere il suo carattere mafioso? «L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno
parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della
condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti,
per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo
di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi
pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri,
ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di
procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali», rimarcando che «le disposizioni del presente articolo si
applicano anche alla camorra e alle altre associazioni, comunque localmente
denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del
vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni
di tipo mafioso».
Dopo aver letto le 1.228 pagine dell’ordinanza di
applicazione delle misure cautelari emessa dal gip a carico degli indagati, si
potevano aver dubbi che il «Mondo di
mezzo» cui aveva dato vita Massimo Carminati non rispondesse alla
fattispecie? D’altronde, qual era – peraltro neanche tanto occulto – il fine di
«sbertucciare» l’ipotesi accusatoria
basata sull’art. 416 bis? Negare la natura sistemica degli eventi delittuosi,
astrarli dalla matrice che li rende strutturati in mosse di una strategia che va
ben oltre l’arricchimento illecito, ma mira al controllo di un territorio,
rendendo così l’associazione a delinquere un attore fattualmente politico, perché
in grado di creare il luogo – e qui cito ancora Bonini (ibidem) – «dove gli appetiti
del Palazzo e quelli della Strada e dunque i loro “tipi umani” (consiglieri
comunali e spezza ossa, funzionari pubblici e corruttori, guardie e ladri) si
incontrano per svuotare, con la forza dell’intimidazione, il ricatto e
l’omertà, e dunque come ogni mafia degna di questo nome, non le forme, ma la
sostanza della democrazia: la regolarità degli incanti pubblici, la trasparenza
dell’agire amministrativo, la libertà nella formazione della volontà politica».
Direi che la polemica cui Il Foglio
ha dato vita sulla questione di Mafia Capitale è solo uno degli episodi che ne
caratterizzano il tratto scettico sulla sostanza della democrazia, nel solco
dell’assunto che «un’oligarchia ben
organizzata assomiglia molto a una democrazia possibile» (Il Foglio, 22.5.2008): l’altra – quella della
regolarità degli incanti pubblici, della trasparenza dell’agire amministrativo,
della libertà nella formazione della volontà politica – sarebbe quella impossibile.
Qual è, d’altra parte, il confine tra l’intimidazione, il ricatto e l’omertà
dell’organizzazione di stampo mafioso e gli strumenti di cui si serve un’«oligarchia ben organizzata»? C’è senza
dubbio, ma quanto è labile! Potremmo dire che si delinea solo nel rispetto
delle mere forme della democrazia, che tuttavia non impedisce di svuotarne la
sostanza.
Ecco il pericolo, dunque, nel riconoscere il metodo di tipo mafioso
nella join venture tra ceto politico e delinquenza di strada: viene a crearsi
un precedente che può tornare buono a incriminare l’«oligarchia ben organizzata» quando incorra in qualche sbavatura
procedurale. In buona sostanza, dal ritratto di Carminati come quello di un
delinquentello qualsiasi alla sua difesa come vittima di una tortura (sì, Il Foglio è arrivato pure a questo), non
abbiamo assistito al solito esercizio di sofistico spirito di patata che manda
in sollucchero gli amanti dell’eccentrico, ma un più subdolo tentativo di
liquidare il «Mondo di mezzo» come versione
grossolana, fin quasi patetica, di quella raffinata delinquenza che dà vita all’unica
«democrazia possibile». Certo, c’è
pure l’elemento ludico, quello che ha reso Il
Foglio un’officina dal marchio inconfondibile, qui espresso nello
spericolato garantismo in favore del fetente di turno, ma sul fondo era
evidente una posta in gioco assai più consistente, per la quale valeva la pena
farsi estremamente aggressivi.
Ma ora? Qual è l’atteggiamento da assumere, ora
che «per la prima volta nella storia
repubblicana, il Genoma Mafioso, il “modello legale” dell’articolo 416-bis,
nell’applicazione che ne dà la Cassazione, si libera della folcloristica e
riduttiva rappresentazione della coppola storta, della lupara, del santino
bruciato, della ferocia schizzata della narco Camorra e dei giuramenti
‘ndranghetisti, che sono e restano Mafi, ma che da ieri non la esauriscono»
(Bonini, ibidem)? Quello della vittima:
«la Cassazione ha dato ragione alla casta togata più
influente, quella della Capitale, perché […] l’informazione massificata e
orchestrata secondo un criterio di legalità culturalmente bacato, onnivoro e
non procedurale, stravolge la realtà» (Giuliano Ferrara – Il Foglio, 13.4.2015). E la Cassazione ci casca? Evidentemente, d’altra
parte «le pronunce giudiziarie hanno una
loro intrinseca autorevolezza, e si giustificano o si contraddicono mediante
altre pronunce giudiziarie», dunque non è detto un domani… Poi c’è che «non funziona una indagine giudiziaria annunciata
a sorpresa, pochi giorni prima delle ordinanze di cattura e dell’elevazione
delle accuse, dal suo massimo responsabile, il dottor Pignatone; non funziona
in ogni senso la sede dell’annuncio, un convegno del Partito democratico; non
funziona la spettacolare convergenza di tutti i giornali o quasi e di tutte le
televisioni senza eccezione nel definire il fenomeno secondo una specie di
lectio universalis desunta dalle carte e, trattandosi di centinaia di migliaia
di pagine, dalla selettiva illustrazione riservata delle carte lungo canali al
di fuori di ogni controllo, giorno dopo giorno, capitolo per capitolo».
Inoltre, «la sentenza della Cassazione
che “salva” per adesso il processo a venire del dottor Pignatone, e tiene in
galera preventiva gli accusati (il che secondo un certo modo di vedere le cose
è un caso di tortura), fa dei riconoscimenti in analogia patente con le nostre
obiezioni: non c’è nell’indagine e nei suoi risultati una catena estorsiva e
violenta di tipo mafioso; non ci sono delitti di mafia; c’è un’aria di malavita
e di deviazione dai canoni della legalità, e di corruzione, intestabile al
business della carità e dell’assistenza, a istituzioni tipiche di una
concezione solidarista della funzione pubblica nel campo del recupero dei carcerati,
dell’accoglienza e del volontariato». Insomma, «accanto a un mare di cose buone o di velleità redentive buoniste,
scegliete voi, c’è il sospetto, e molto più che il sospetto, di un
coinvolgimento corruttivo di pezzi dell’amministrazione capitolina, singoli
funzionari, [ma] mancano le famiglie,
i mandamenti, il linguaggio e le omertà della mafia, mancano gli arsenali,
insomma mancano tutti gli elementi tipici di un crimine organizzato di tipo
mafioso».
E tuttavia la Cassazione non dice che la mancanza di arsenali non
toglie tipologia mafiosa agli addebiti sollevati nei confronti di Carminati
& c.? Come non l’avesse detto: s’è fatta buggerare dalla campagna mediatica
e al momento – solo al momento, sia chiaro, ché aggressività e vittimismo
stanno bene insieme solo nell’irriducibilità di protervia e risentimento – le
tesi di Giuliano Ferrara vanno a farsi benedire. «Un giornalismo di minoranza che nega l’assunto di una procura e
argomenta in modo semplice i suoi dubbi deve essere tacitato senza esame
obiettivo delle sue tesi?». E chi lo tacita? D’altra parte, le sue tesi non
sono in tutto simili a quelle avanzate dai difensori di Carminati e che sono
state respinte dalla Cassazione? Non sono state esaminate? Sì, ma forse non in
modo obiettivo. L’obiettività è una prerogativa di Giuliano Ferrara, si sa.
Suppongo sia superfluo sottolineare i tratti del delirio di onnipotenza che anche in questo caso affligge il narcisista, qui mortificato dall’impatto con la realtà, che sappiamo essere evento catastrofico sul piano clinico: gli
elementi di natura clinica emergono in tutta l’emblematicità del quadro nosografico.
Resta la terapia, e qui vorrei tagliar corto perché mi sono pure dilungato troppo su un caso che sarà esemplare quanto si vuole, ma un caso resta: io suggerirei olanzapina e lamotrigina. Ma a dosi generose, e senza aspettarsi altro che una parziale remissione dei sintomi. Perché la patologia in questione – triste dirlo – è altrimenti incurabile. Peraltro alleviare la sofferenza del malato è un dovere inderogabile della buona medicina.
venerdì 10 aprile 2015
Cristo, è una strage!
Quando
monta l’isteria, si sparano imputazioni a cazzo di cane e, anche se qualcuno se
ne accorge, tanta è la delicatezza che tace. Così con l’evocazione del reato di
strage per l’omicidio plurimo che s’è consumato al Tribunale di Milano. È strage
quando ammazzi alla cieca, perché colpisci membri di una collettività che, per
quanto eterogenea, investi di un’identità che è essa stessa il tuo bersaglio.
Qui, invece, la scelta delle vittime da parte dell’assassino aveva una ratio
che le individuava precipuamente in soggetti predeterminati: quel tal giudice,
quel tal avvocato, quel tal coimputato, ecc. E allora dove sta la strage? D’altronde
la sanzione penale per strage fa tanta differenza da quella per omicidio
plurimo con tutta la sfilza di aggravanti del caso? E allora perché nessuno – e,
quel che è peggio, nemmeno un magistrato – osa dire che parlare di strage è da
cretini? Così la parola corre, per la semplice ragione che sembra dare pienezza
al sentimento di sconcerto, sarà perché ha un suono che strepita come si deve. È
questione d’orecchio, probabilmente. Se esclamo «Gesù!», infatti, passo per
personcina mite, dolciastra, sostanzialmente inoffensiva, forse pure un po’ molliccia. Con «Cristo!» rimedio tutt’altra figura.
giovedì 9 aprile 2015
[...]
Un
infermiere stupra una paziente, chi deve dimettersi? Il primario dell’ospedale?
Il direttore dell’Asl? Il ministro della Sanità? Portiamoli in tribunale tutti
e tre, ovviamente insieme all’infermiere. Che viene condannato, mentre gli
altri tre sono assolti. Chi dei tre rimane comunque responsabile – moralmente,
se non penalmente – del reato commesso dall’infermiere? Chi dei tre deve
dimettersi anche se è dimostrato che non ha istigato a quel reato, né lo ha coperto, né è stato complice di chi lo ha commesso?
Certe volte io non mi capacito della logica corrente in cui vedo scorrere perfino persone che stimo, e stavolta la logica corrente sentenzia che De Gennaro è responsabile dei fatti della Diaz. Al terzo grado di giudizio è stato assolto pure dall’accusa di aver spinto qualcuno a mentire su quei fatti. E allora – lo confesso – ho le vertigini, vacilla in me ogni certezza. Sulla responsabilità penale, che è sempre personale, o almeno dovrebbe. Sulle pertinenze che in ogni grado di una catena di comando stanno sempre, e personalmente, tra la più ligia obbedienza e il più folle arbitrio. Sul bisogno istintivo – da orda, sarei portato a dire – di concentrare una pur disomogenea distribuzione di colpe su un solo capro espiatorio.
Io non ho alcun dubbio che alla Diaz si sia consumata un’immensa, atroce schifezza. De Gennaro, poi, mi sta pure antipatico, così, a pelle, sarà quella pettinatura. Ma davvero non capisco, e non ho alcuna difficoltà ad ammettere sia un mio limite, che cazzo c’entri ancora con quello che è successo alla Diaz dopo una sentenza di Cassazione che lo ha assolto. Sentenza ingiusta? Qualcuno mi spiegasse perché.
Certe volte io non mi capacito della logica corrente in cui vedo scorrere perfino persone che stimo, e stavolta la logica corrente sentenzia che De Gennaro è responsabile dei fatti della Diaz. Al terzo grado di giudizio è stato assolto pure dall’accusa di aver spinto qualcuno a mentire su quei fatti. E allora – lo confesso – ho le vertigini, vacilla in me ogni certezza. Sulla responsabilità penale, che è sempre personale, o almeno dovrebbe. Sulle pertinenze che in ogni grado di una catena di comando stanno sempre, e personalmente, tra la più ligia obbedienza e il più folle arbitrio. Sul bisogno istintivo – da orda, sarei portato a dire – di concentrare una pur disomogenea distribuzione di colpe su un solo capro espiatorio.
Io non ho alcun dubbio che alla Diaz si sia consumata un’immensa, atroce schifezza. De Gennaro, poi, mi sta pure antipatico, così, a pelle, sarà quella pettinatura. Ma davvero non capisco, e non ho alcuna difficoltà ad ammettere sia un mio limite, che cazzo c’entri ancora con quello che è successo alla Diaz dopo una sentenza di Cassazione che lo ha assolto. Sentenza ingiusta? Qualcuno mi spiegasse perché.
[...]
Ma
questo De Gennaro è quello che una sentenza della Cassazione ha assolto dalle
imputazioni relative ai fatti della Diaz? E allora dov’è la vergogna che sia alla
presidenza di Finmeccanica? La questione eventualmente sarebbe altra, e cioè se la
vergogna non sia per caso Orfini alla presidenza del Pd. Se non fosse che il Pd è quello che è, e che lì lo ha messo Renzi. Il che equivale a piena assoluzione per tutto ciò che Orfini dice.
martedì 7 aprile 2015
Parafrasi del fare il frocio col culo altrui
È la
seconda volta che Paolo Gentiloni annuncia un intervento armato dell’Italia
contro i miliziani dell’Isis e che in meno di ventiquattr’ore smentisce,
rettifica, chiarisce, puntualizza – dipende dai punti di vista – che in realtà
non ci sarà alcun intervento armato dell’Italia. Ok, fa parte di un governo che,
premier in testa, con gli annunci a effetto ha raccattato e cerca di non
perdere il consenso che gli concedono i sondaggi in attesa che gli possa esser
confermato dalle urne, quando sarà, tanto non c’è fretta, c’è ancora da perfezionare
il sistema per farne durare gli effetti per una ventina d’anni. Se tuttavia di
annuncio in annuncio si può anche avere la botta di culo che il gatto morto
faccia un bel rimbalzo da spacciare per ripresa alla vigilia di elezioni di cui
dar colpa a oppositori o ad alleati di governo, annunciare un intervento armato
dell’Italia contro i miliziani dell’Isis – poco importa se per tutelare i
nostri interessi economici in Libia o in difesa dei cristiani perseguitati
dalle truppe del califfo – espone inevitabilmente a seri rischi il paese.
Passi, si fa per dire, se questa è una decisione del governo, intenzionato a
scavalcare il parlamento in una decisione che la carta costituzionale non affida
a chi sta a Palazzo Chigi, tanto meno a chi sta alla Farnesina. Se però l’annuncio
è fatto tanto per farlo, e subito rimangiarselo, il suo prezzo diventa
estremamente alto rispetto a ciò che presume di ottenere, perché è chiaro che
un eventuale attentato ai danni di un paese che agli occhi di un terrorista
sembri imbarcato in una crociata colpirebbe più probabilmente cittadini inermi
che ministri protetti da una scorta. Insomma, siamo alla parafrasi del fare il frocio col culo altrui: per fare il simpatico con l’Eni e col papa, Paolo Gentiloni ci espone a un grosso pericolo, semmai per dimostrarci, dopo, che un intervento armato dell’Italia avesse un ottimo motivo.
[...]
Nel caso si dimostrasse che la pallottola ha
trapassato il corpo della vittima dal basso verso l’alto, con ciò avvalorando
quanto afferma chi l’ha esplosa, e cioè che abbia sparato perché lo stavano
pestando, e tra chi lo pestava, chino su di lui, a una distanza di mezzo metro
dalla canna della pistola, c’era pure chi poi è stato raggiunto dal colpo
rivelatosi mortale, andrebbe corretta la lettura che in queste ore si fa dello
striscione apparso sulle curve dello stadio Olimpico, lo scorso sabato, perché Ciro
Esposito non sarebbe affatto quel pezzo di pane che, pur comprensibilmente, sua
madre si ostina a ritenere sia morto per puro caso, essendosi accidentalmente trovato
sulla traiettoria della pallottola esplosa da un folle assassino che il 3
maggio dell’anno scorso era uscito di casa per ammazzare qualcuno, non importava
chi, e dunque avrebbe un senso che il manipolo di energumeni con svariati precedenti
penali coi quali abitualmente si accompagnava oggi lo rivendichino come un
caduto per una comune causa, considerando offesa alla sua memoria il dipingerlo
come estraneo alla guerriglia scatenatasi quel giorno, con ciò negandogli l’onore – perché proprio di questione di onore pare si tratti – che si dovrebbe ad uno che, partito per darle, le abbia avute. Certo, accusare la madre
di «lucrare» sulla morte del figlio è atrocemente assurdo, ma si sa che le
bestie non sanno calibrare bene le proprie reazioni: fosse vera l’ipotesi con
la quale ho aperto il post, e così pare che i rilievi autoptici e balistici
inducano a credere, si potrebbe capire – giustificare, no – il perché di una così
feroce aggressione verbale alla madre del giovane, e allo stesso modo si
potrebbe comprendere anche la reazione straordinariamente mite che questa ha
opposto a quello che è il peggiore insulto ad una donna che abbia perso un figlio.
Vedremo, di certo al momento sembra solo che Ciro Esposito fosse organico a un
gruppo di tifosi che allo stadio, in casa e in trasferta, si recava armato di
bastoni e di coltelli: lungi dall’insinuare che se la sia cercata, ma, per come
le istituzioni hanno consentito che gli stadi di calcio diventassero enclavi in
cui la legge trova troppe deroghe, è abbastanza per ritenere che abbia
accettato, più o meno coscientemente, il rischio al quale andasse incontro.
Poi, sì, chi è morto merita sempre pietà, ma tutto sta nel sapere quanto questa
pesi nell’impedire di fare chiarezza.
Gentilmente, però, in prima fila
«Una
rivoluzione culturale» (Claudio Cerasa) è cosa ben diversa da «una reazione di violenza giusta incomparabilmente superiore a quella
subìta» (Giuliano Ferrara), ma in entrambi i casi non è chiaro quale sia la
soluzione sul piano pratico. Cosa dovremmo fare per impedire che qui e lì nel
mondo i cristiani vengano uccisi a causa della loro fede, ammesso e non
concesso che sia giusto impedire loro di testimoniarla a prezzo della vita?
Cominciamo a esaminare la proposta di Cerasa. È chiaro che la sua «rivoluzione culturale» sia roba da
promuovere in casa nostra, perché immaginare di andare a promuoverla tra le
fila dell’Isis è da pazzi. Bene, cerchiamo di figurarcela al meglio, questa «rivoluzione culturale». Se è «rivoluzione», deve implicare il
sovvertimento di uno stato di fatto. Se è «culturale»,
lo stato di fatto dev’essere quello che casa nostra non si dichiara più
cristiana.
Questa interpretazione è forzata? Non mi pare. Pur avendo rinunciato
al cristianesimo come religione di stato, a casa nostra vige una discreta
tolleranza verso il cristianesimo e verso ogni altra religione, anzi, a dire il
vero, verso il cristianesimo la tolleranza è tale da riuscire a farci
sopportare con pazienza da martiri le sue insistenti e pesanti molestie che si
sostanziano nella pretesa di imporci i suoi dettami, anche quando non ne
condividiamo la ratio.
Ma, quand’anche questa «rivoluzione culturale» ci rendesse fieri di dirci cristiani (anche
senza esserlo, sennò si tratterebbe di «conversione»,
e dovrebbe essere forzata, cosa che ci auguriamo di poter escludere), come
basterebbe – per sé sola – a interrompere lo stillicidio di una decina di cristiani
uccisi pro die? Questa «rivoluzione
culturale» è per caso intesa come premessa alla difesa di un nostro
interesse in casa altrui? Fosse così, non ci sarebbe troppa differenza con la
proposta avanzata da Ferrara, la quale avrebbe un unico difetto rispetto a
quella avanzata da Cerasa, quello d’essere intempestiva, precipitosa, mal
preparata.
Ma forse non è così, forse Cerasa ha in testa qualcos’altro, se ce l’ha.
Infatti pare che anche per lui quella dei cristiani uccisi a causa della loro
fede sia questione urgente, e che non si risolva solo con «parole, parole, parole», e tuttavia anche lui non sembra sappia
offrire altro, perché una «rivoluzione
culturale» in grado di armare le democrazie occidentali a difesa dei
cristiani in terre ad esse ostili, ancorché finalizzata ad un’impresa che
sarebbe costosissima e dai risultati assai poco certi, esigerebbe tempo, molto
tempo. Poi, certo, se la «rivoluzione
culturale» di cui parla non deve rivoluzionare le maggioranze dei paesi
occidentali, ma solo le élites che possono decidere crociate anche contro il
parere delle opinioni pubbliche, il discorso è diverso. Diverso, però, solo
fino a un certo punto, perché, dacché mondo è mondo, le crociate devono promettere
un buon ritorno, e qui «ritorno» sia
inteso in tutti i sensi.
Di sicuro, anche qui, c’è un papa che chiama gli «uomini di buona volontà» a tutelare i
suoi interessi, d’altronde sembra che la storia sia più bidella che maestra, ma
l’ostilità verso i cristiani che nutre in vario modo una parte del mondo
islamico – dalla diffidenza al massacro – non trova proprio nelle crociate il miglior
alibi per darsi come legittima difesa ad un colonialismo che si fa braccio
armato del proselitismo?
A parte, poi, risulta incomprensibile – ma solo fino a
un certo punto – l’ostinazione a non voler leggere quello che accade in gran
parte dei paesi di cultura islamica per ciò che veramente è: assistiamo ad un
conflitto tutto interno all’islam – interno ai contrapposti interessi che sono
andati a costruirsi sui diversi e contrapposti filoni religiosi e culturali
dell’islam – e i morti cristiani sono solo – triste dirlo, ma è così – un effetto
collaterale e – insieme – un tentativo di allargare il conflitto all’occidente.
Anche soltanto immaginare un intervento armato in difesa dei cristiani che si
ostinano a restare in terre ad essi ostili, peraltro esortati a restarvi dallo
stesso papa che poi ne lamenta il massacro, è benzina sul fuoco. E un titolare
della Farnesina che si lascia andare ad amenità del tipo «fermiamoli, anche con le armi» (Corriere della Sera, 7.4.2015) dovrebbe chiedersi se il solo dirlo
non sia inopportuno. Poi, nel caso, sarebbe bello vederlo, assieme al papa e a Ferrara, affrontare le armate del califfo. Gentilmente, però, in prima fila. Perché ci siamo rotti il cazzo di interventisti che muoiono nel loro letto a novant’anni o a cento.
lunedì 6 aprile 2015
domenica 5 aprile 2015
Una precisazione, così, una tantum
Devo una risposta all’obiezione che un lettore (si firma col nickname di max cady) rivolge a quello che presume sia il senso che io abbia voluto dare al post qui sotto (Primato del cristianesimo sull’islam – Malvino, 3.4.2015), rimproverandomi, come d’altronde fanno in molti, da sempre, di attenuare in qualche modo il giudizio negativo da me comunque espresso in più occasioni sull’islam, in generale, e su molte delle sue epicriticità, in dettaglio, col richiamo costante – maniacale, si direbbe – al fatto che il cristianesimo non sia affatto da meno, con ciò commettendo due gravi errori: in primo luogo, il non tener conto del fatto che ormai da secoli i cristiani si sono dati una ripulitina dagli orrori di cui invece molti musulmani ancora vanno fieri; di poi, del sottovalutare il fatto che i crimini commessi dai cristiani sarebbero meri effetti collaterali dell’evangelizzazione, mentre ai musulmani sarebbero prescritti dal Corano come prove di salda e genuina fede.
Bene, comincio col dire che queste osservazioni sono assai poco pertinenti alla questione che sollevo io. Io non faccio alcuna fatica a constatare che, per imporre la loro fede al mondo intero, i cristiani non facciano più uso della violenza fisica (su quella che si esercita con mezzi non cruenti sarebbe un discorso lungo e qui sorvolerò), ma sia ben chiaro che, se hanno smesso di farlo, non è perché d’un tratto hanno imparato a leggere i Vangeli come si deve, ma solo perché glielo si è impedito, non senza pagare un grosso prezzo, pagato per lo più da chi il cristianesimo sentì e trattò da nemico. Tra i martiri dei suoi primi tre secoli e quelli che oggi il cristianesimo – insieme – vanta e lamenta c’è un millennio e mezzo che solo un incosciente o un disonesto può pensare non conti niente o possa essere cancellato con due scuse, peraltro neanche rivolte alle vittime, ma a Dio, e soprattutto continuando a godere di ciò che si è conquistato coi mezzi che oggi si rimproverano a chi ha come fine lo stesso genere di conquista. Non riusciamo ad essere indulgenti davanti a ricchi o a nobili che abbiano acquistato ricchezze e titoli con nefandezze che a stento son celate da modi estremamente fini e stemmi meravigliosamente decorati, e poi dovremmo dimenticare cosa sia stato il cristianesimo prima di ritrovarcelo dinanzi, e solo in apparenza, così mite?
Il richiamo costante – maniacale, si direbbe – al passato di chi oggi lamenta di essere perseguitato ha il ben preciso compito di dare il dovuto contesto alle persecuzioni, non di giustificarle. Si tratta di un contesto che non ha il diametro di anni o di decenni, ma di secoli e secoli, e il contesto che lo interseca nel punto in cui i cristiani arrestano la loro conquista e arretrano è quello di un islam che ci offre una ripassatina di storia, con la sua personale riedizione delle guerre di religione col quale il cristianesimo ci diede milioni di morti, sui quali ancora glissa come su spiacevoli ma insignificanti sbavature di un salmo cantato a Dio.
In quanto al fatto che il Corano detti al musulmano il compito di sgozzare gli infedeli, gli detta pure di non uccidere nessuno. Come accade per tutti i libri sacri, che per sfidare i secoli devono per forza essere ambigui e contraddittori, tutt’è aspettare l’interpretazione che ci dia una religione di pace, in fondo ci sono voluti secoli perché il «qui non est mecum contra me» non fosse più letto come un’esortazione al massacro.
Dispiacersi per i cristiani perseguitati e uccisi da alcuni musulmani? Ma è naturale, ci mancherebbe altro. Certo, pensare che per mettere fine alla loro sofferenza sia necessaria «una reazione di violenza giusta incomparabilmente superiore a quella subita» (Giuliano Ferrara – Il Foglio, 4.4.2015), oltre che poco coerente con il dettato evangelico, è soluzione folle, in ultima analisi equivalente ad un invito a suicidarsi dopo aver fatto fuori quanti più nemici: fatte salve le differenze di modalità, la stessa logica dello jihadista.
E allora quale sarebbe la soluzione? Temo non ci sia. Per meglio dire, temo che quella possibile non sia facilmente attuabile da chi professa un credo che fa obbligo di manifestare pubblicamente la propria fede, ed anzi non riesce ad ipotizzare altro tipo di esperienza religiosa che non sia comunitaria. Anche in ciò, il cristiano e il musulmano (anche il musulmano che afferma di ripudiare lo strumento della violenza fisica) si somigliano, per questo è irrimediabile che lo spazio pubblico sia per entrambi una posta in gioco, fatto sta che per terre da sempre sotto il tallone dell’islam la soluzione del «cuius regio, eius religio», con la quale si mise fine allo scannatoio europeo del XV e del XVI secolo, sarebbe mal tollerabile da chi ritiene che la testimonianza della propria fede debba farsi carico anche dell’effusione del proprio sangue. Lo effondesse pure, allora, tanto più se spalanca le porte del Paradiso ed è semenza di nuovi cristiani, ma in terre dove è sparuta minoranza non pretenda che gli riservi trattamento diverso da quello che i cristiani hanno riservato a quanti definivano infedeli.
La soluzione inaccettabile sarebbe quella dei lapsi, peraltro già adottata sotto le persecuzioni dei primi secoli del cristianesimo: vivere la propria fede nell’intimo del proprio cuore senza darne alcun segno esteriore. Tuttavia mi rendo conto che tale soluzione potrebbe andar bene solo a chi tenga di più alla propria pelle che alla propria anima, e dunque, a ben vedere, non resta che stare a guardare i cristiani ammazzati dai musulmani con l’umana compassione che non deve mai venir meno alla morte violenta anche di un solo uomo, anche se appartenente ad una cosca mafiosa perdente e fatto fuori da killer di una cosca mafiosa vincente. Vorrei tranquillizzare chi non me ne ritiene capace: questa compassione io la provo.
In quanto al post qui sotto, non aveva alcuna attinenza al massacro di cristiani consumatosi nel college keniota: l’oggetto erano le pratiche devozionali cruente del Venerdì Santo. In quanto a sangue, intendevo dire, ne spreme più un cattolico che uno sciita.
Bene, comincio col dire che queste osservazioni sono assai poco pertinenti alla questione che sollevo io. Io non faccio alcuna fatica a constatare che, per imporre la loro fede al mondo intero, i cristiani non facciano più uso della violenza fisica (su quella che si esercita con mezzi non cruenti sarebbe un discorso lungo e qui sorvolerò), ma sia ben chiaro che, se hanno smesso di farlo, non è perché d’un tratto hanno imparato a leggere i Vangeli come si deve, ma solo perché glielo si è impedito, non senza pagare un grosso prezzo, pagato per lo più da chi il cristianesimo sentì e trattò da nemico. Tra i martiri dei suoi primi tre secoli e quelli che oggi il cristianesimo – insieme – vanta e lamenta c’è un millennio e mezzo che solo un incosciente o un disonesto può pensare non conti niente o possa essere cancellato con due scuse, peraltro neanche rivolte alle vittime, ma a Dio, e soprattutto continuando a godere di ciò che si è conquistato coi mezzi che oggi si rimproverano a chi ha come fine lo stesso genere di conquista. Non riusciamo ad essere indulgenti davanti a ricchi o a nobili che abbiano acquistato ricchezze e titoli con nefandezze che a stento son celate da modi estremamente fini e stemmi meravigliosamente decorati, e poi dovremmo dimenticare cosa sia stato il cristianesimo prima di ritrovarcelo dinanzi, e solo in apparenza, così mite?
Il richiamo costante – maniacale, si direbbe – al passato di chi oggi lamenta di essere perseguitato ha il ben preciso compito di dare il dovuto contesto alle persecuzioni, non di giustificarle. Si tratta di un contesto che non ha il diametro di anni o di decenni, ma di secoli e secoli, e il contesto che lo interseca nel punto in cui i cristiani arrestano la loro conquista e arretrano è quello di un islam che ci offre una ripassatina di storia, con la sua personale riedizione delle guerre di religione col quale il cristianesimo ci diede milioni di morti, sui quali ancora glissa come su spiacevoli ma insignificanti sbavature di un salmo cantato a Dio.
In quanto al fatto che il Corano detti al musulmano il compito di sgozzare gli infedeli, gli detta pure di non uccidere nessuno. Come accade per tutti i libri sacri, che per sfidare i secoli devono per forza essere ambigui e contraddittori, tutt’è aspettare l’interpretazione che ci dia una religione di pace, in fondo ci sono voluti secoli perché il «qui non est mecum contra me» non fosse più letto come un’esortazione al massacro.
Dispiacersi per i cristiani perseguitati e uccisi da alcuni musulmani? Ma è naturale, ci mancherebbe altro. Certo, pensare che per mettere fine alla loro sofferenza sia necessaria «una reazione di violenza giusta incomparabilmente superiore a quella subita» (Giuliano Ferrara – Il Foglio, 4.4.2015), oltre che poco coerente con il dettato evangelico, è soluzione folle, in ultima analisi equivalente ad un invito a suicidarsi dopo aver fatto fuori quanti più nemici: fatte salve le differenze di modalità, la stessa logica dello jihadista.
E allora quale sarebbe la soluzione? Temo non ci sia. Per meglio dire, temo che quella possibile non sia facilmente attuabile da chi professa un credo che fa obbligo di manifestare pubblicamente la propria fede, ed anzi non riesce ad ipotizzare altro tipo di esperienza religiosa che non sia comunitaria. Anche in ciò, il cristiano e il musulmano (anche il musulmano che afferma di ripudiare lo strumento della violenza fisica) si somigliano, per questo è irrimediabile che lo spazio pubblico sia per entrambi una posta in gioco, fatto sta che per terre da sempre sotto il tallone dell’islam la soluzione del «cuius regio, eius religio», con la quale si mise fine allo scannatoio europeo del XV e del XVI secolo, sarebbe mal tollerabile da chi ritiene che la testimonianza della propria fede debba farsi carico anche dell’effusione del proprio sangue. Lo effondesse pure, allora, tanto più se spalanca le porte del Paradiso ed è semenza di nuovi cristiani, ma in terre dove è sparuta minoranza non pretenda che gli riservi trattamento diverso da quello che i cristiani hanno riservato a quanti definivano infedeli.
La soluzione inaccettabile sarebbe quella dei lapsi, peraltro già adottata sotto le persecuzioni dei primi secoli del cristianesimo: vivere la propria fede nell’intimo del proprio cuore senza darne alcun segno esteriore. Tuttavia mi rendo conto che tale soluzione potrebbe andar bene solo a chi tenga di più alla propria pelle che alla propria anima, e dunque, a ben vedere, non resta che stare a guardare i cristiani ammazzati dai musulmani con l’umana compassione che non deve mai venir meno alla morte violenta anche di un solo uomo, anche se appartenente ad una cosca mafiosa perdente e fatto fuori da killer di una cosca mafiosa vincente. Vorrei tranquillizzare chi non me ne ritiene capace: questa compassione io la provo.
In quanto al post qui sotto, non aveva alcuna attinenza al massacro di cristiani consumatosi nel college keniota: l’oggetto erano le pratiche devozionali cruente del Venerdì Santo. In quanto a sangue, intendevo dire, ne spreme più un cattolico che uno sciita.
venerdì 3 aprile 2015
Primato del cristianesimo sull’islam
Avvertenza
per gli stomaci delicati:
il
video mostra pratiche devozionali.
giovedì 2 aprile 2015
[...]
Do
per scontato che Massimo D’Alema sia persona moralmente irreprensibile, proprio perciò
non mi capacito del perché sia incazzato come una bestia per la pubblicazione
delle intercettazioni telefoniche in cui si fa il suo nome. C’è una cooperativa
che ha acquistato cinquecento copie di un suo libro e duemila bottiglie del suo
vino? Bene, mi pare non ci sia nulla di male, dunque perché gli dà fastidio che
si sappia? Un buon libro e un buon vino non smettono d’essere tali se a
comprarli sia stata una cooperativa oggi indagata per questo o quel reato, né
chi ha scritto quel libro e prodotto quel vino ha da rimproverarsi nulla se ad
acquistarli sia stato chi per questo o quel reato dovesse eventualmente essere
condannato. Diciamo che a far nascere l’odioso sospetto che quegli acquisti non
fossero motivati dalla qualità dei prodotti, che qui voglio dare per scontato sia indiscutibile, quanto piuttosto da una sorta di
disobbligo clientelare, è solo ciò che Francesco Simone, responsabile delle
relazioni istituzionali della cooperativa indagata, afferma in una delle
telefonate intercettate, quando, quasi certamente millantandone la protezione, testualmente dice:
«D’Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi e ci ha dato delle
cose». La frase prova che quelle «cose» siano state date in cambio dell’acquisto
delle copie del libro e delle bottiglie di vino, o che si trattasse di
favori illeciti per il solo fatto che ad esse sia stata allegata l’immagine del «mettere
le mani nella merda»? A me non pare, e tuttavia comprendo che la frase possa prestarsi a una lettura errata, soprattutto da chi intenda mettere in discussione l’indiscutibile rettitudine di Massimo D’Alema, il quale, dunque, prima di querelare chi voglia tessere ingiuste
insinuazioni su quella frase, dovrebbe querelare Francesco Simone. L’ha
fatto? Può darsi mi sia sfuggito, ma non ne ho notizia.
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