«Mi
auguro che il governo non metta il voto di fiducia sull’Italicum.
Se verrà messo, forse non risponderò all’appello, ma escludo di
votare no alla fiducia»,
così Rosy
Bindi (Piazza
Pulita – La7,
27.4.2015), e c’è da scommettere che questa sarà la linea di
quasi tutta la minoranza interna al Pd, quella che tanto ha
starnazzato fin qui su quanto l’Italicum faccia schifo e su quanto
faccia schifo metterci sopra il voto di fiducia: in sostanza, queste
patetiche figurine non renderanno mai i loro voti utili ad impedire
che la schifezza diventi legge dello Stato, neppure se schifoso
dovess’essere il modo in cui si arriverà alla sua approvazione.
Come volevasi dimostrare, anzi, anche peggio, perché ieri ho scritto
che, «se
passerà l’Italicum, sarà perché l’avrà votato un congruo
numero di deputati del Pd»,
e che «poco
importa quanto saranno stati i dissidenti che alle ragioni di
opportunità avranno opposto quelle di principio, perché vuol dire
che saranno stati comunque irrilevanti»:
qui
non solo le ragioni di principio si piegano a quelle di opportunità,
ma queste ultime vengono addirittura dichiarate indiscutibili. Non
c’è
un Pd buono e uno cattivo, ce n’è uno solo, ed è tutto –
volente o nolente – renziano. Sembra uno scontro interno, ma in fondo è solo un gioco delle parti.
martedì 28 aprile 2015
lunedì 27 aprile 2015
È assai probabile che l’Italicum passi alla Camera
È
assai probabile che l’Italicum
passi alla Camera, e le probabilità aumentano col contingentamento
degli interventi cui si ricorrerà nel caso in cui la discussione in
aula slitti davvero di una settimana, come sembra nelle intenzioni di
Matteo Renzi, che pensa, e a ragione, di poterla utilizzare anche per
far cambiare idea a qualche deputato della minoranza interna del
Partito Democratico, che d’altronde
è assai poco compatta e ha già dato numerose prove di ambiguità
morale prima che politica verso il segretario del partito, oltre che
per raccattare consensi dalla fronda che in Forza Italia ha nostalgie
per il Patto del Nazareno, così sfruttando a suo vantaggio
l’eventualità
di un voto segreto.
Matteo Renzi, dunque, non ha torto nel sentirsi
relativamente sicuro che il mostro sarà infine partorito: nelle sue
smargiassate c’è
un bluff assai ben calcolato sull’evidenza
che i suoi avversari non hanno in mano carte forti. Certo, con una
straordinaria concordanza di eventi a suo sfavore potrebbe anche cadere
sul voto, e nel caso si trattasse di un voto di fiducia perderebbe
Palazzo Chigi, il che potrebbe pure ridimensionare in modo drastico
il suo peso all’interno
del suo partito, ma tutto questo, sulla base delle forze in campo, è
ipotesi che può coccolare solo chi pensa che Matteo Renzi sia un
mero accidente.
In realtà, si tratta del prodotto di una crisi della
democrazia che investe buona parte del mondo occidentale: se in
Italia assume il volto di un arrogante gradasso dai modi spicci, è
solo perché da noi la democrazia è sempre stata assai debole, tutta
formale, e a volte neanche. Un paese di merda merita per premier un
uomo di merda, tutto qui, e se è vero che le prove più dure
saggiano la reale natura di un popolo, rivelandone le virtù se ne
possiede, sennò portando a galla quello che nel fondo ha di peggio,
una crisi economica come quella che ha preso avvio nel 2008, ma che
si è solo limitata a rendere più esplicita ed acuta una debolezza
da decenni intrinseca al sistema, non poteva che generare tal genere
di mostruosità: l’ennesimo
avventuriero convinto di poter essere l’uomo
forte di cui il paese abbia l’inconfessato
bisogno.
Non a torto, occorre dire, perché, al netto della forza che
un borderline di questo tipo raccoglie a strascico gettando la sua
rete nel vasto mare del conformismo e dell’opportunismo,
e che in fondo non serve ad altro che a dargli una patina di
legittimità, il bisogno di essere guidati da un Uomo della
Provvidenza non risparmia le oligarchie che detengono il controllo
dell’economia,
con quanto ne consegue sugli strumenti che formano l’opinione
pubblica: bisogno che qui deriva dalla nota consuetudine a ritenere,
non senza ottime ragioni, che quando l’Uomo
della Provvidenza torni d’impiccio,
pur pagando il necessario e dovendo perderci un po’
di tempo, si può sempre sacrificarlo, dandolo in pasto ad una plebe
adeguatamente resa feroce.
E dunque Matteo Renzi è forte, seppur di
questo genere di forza. Sull’approvazione
dell’Italicum
dice di voler scommetter tutto ed è molto improbabile che perda la
partita. Che poi la Corte Costituzionale, tra tre anni o cinque o
sette, sentenzi che l’Italicum
debba fare la stessa fine del Porcellum, con quanto nel frattempo
grazie all’Italicum
sarà stato possibile far rendita, questo è tutt’un
altro paio di maniche. Al più, darà soddisfazione a quanti fin
d’ora
segnalano i patenti punti di incostituzionalità del ddl che la
Camera approverà entro la fine di maggio.
Su cosa questa legge
elettorale cambierà nell’attuale
assetto politico e, ancor più, in quello istituzionale, soprattutto
col combinato disposto di un Senato non elettivo, non sarà il caso
di intrattenerci troppo: su queste pagine se n’è
già parlato e commentatori molto più autorevoli hanno espresso
analogo parere, per giunta con argomentazioni di incommensurabile
rilievo tecnico. Nemmeno varrà la pena di intrattenerci troppo su
cosa cambierà nella percezione che il cittadino avrà dello Stato,
perché il progetto di cui l’Italicum
non è che un passaggio appare evidente in ogni singola sfaccettatura
dell’azione di questo governo, dall’idea di depotenziare gli
organi collegiali attualmente operanti nella scuola per creare una
figura di preside che delle sue decisioni su studenti e corpo
insegnante risponda al Ministero dell’Istruzione come un prefetto
era tenuto a rispondere al Ministero dell’Interno nel Ventennio
fascista, fino al tentativo, in buona parte già riuscito, di avocare
al potere esecutivo buona parte delle naturali prerogative di quello
legislativo e di quello giudiziario: in sostanza, avremo un’Italietta
piramidale che per base avrà una soggezione grata delle eventuali
briciole che pioveranno da un vertice che tradurrà in arbitrio il
consenso.
In nome della stabilità del sistema, si dice, e
infatti cosa c’è di più solido di un sistema autoritario, finché
regge? Oppure, come pure si dice, ma qui per quell’irrefrenabile inclinazione
all’ipocrisia che è il sintomo più genuino dell’istinto
antidemocratico rintanato nelle più fetide nicchie della democrazia
formale, in nome della governabilità.
Il lavoro per demolire questo
costrutto sarà arduo e ingrato, lungo e senza certezza di buon
esito. Ci attendono decenni che imporranno prezzi enormi a chi oserà
mettere in discussione l’Italia che sta per prender forma da una
legge elettorale come quella sulla quale è chiamata a esprimersi la
Camera. Una sola è la certezza: se passerà l’Italicum, sarà
perché l’avrà votato un congruo numero di deputati del Partito
Democratico. Poco importa quanto saranno stati i dissidenti che alle
ragioni di opportunità avranno opposto quelle di principio, perché
vuol dire che saranno stati comunque irrilevanti: volontariamente
irrilevanti, poi, se sceglieranno di restare in un partito la cui
maggioranza sia stata capace di approvare una simile legge
elettorale. Il Partito Democratico, insomma, potrà comunque essere
considerato in blocco il peggior nemico della democrazia. Chiunque
l’abbia a cuore sarà moralmente e politicamente autorizzato ad
ogni mezzo utile per precipitarlo nell’infamia e nella rovina, e
allora ben vengano le iniziative strumentali della magistratura
cosiddetta politicizzata: chiuderemo un occhio se peccheranno di qualche sbavatura procedurale. A brigante – dura lex, sed lex –
brigante e mezzo.
domenica 26 aprile 2015
[...]
Se
Michelangelo l’avesse
portata a termine, la Pietà
Rondanini
sarebbe stata senza dubbio quel capolavoro che si intuisce rimarrà
per sempre imprigionato in quel di più che restava da togliere al
blocco di marmo. Fatto sta che questa intuizione ci è data solo dal
sapere chi fosse Michelangelo e quanto sublime fosse la sua arte,
sicché dovremmo rivedere il giudizio che oggi diamo di quest’opera
incompiuta il giorno che scoprissimo non fosse sua, ipotetica che per
nostra fortuna è del terzo tipo, giacché le fonti che
gliel’attribuiscono
sono incontestabili. In sostanza, il nostro giudizio sulla Pietà
Rondanini
può dirsi al sicuro da ripensamenti perché sulla bravura di
Michelangelo non ci piove e perché è indiscutibile che a quel
blocco di marmo abbia lavorato proprio lui. Ovviamente questo
varrebbe anche se la Pietà
Rondanini
ci fosse giunta ad un grado di maggiore incompiutezza: se le gambe
del Cristo, per esempio, non ci fossero giunte così ben rifinite, il
gruppo marmoreo non ci commuoverebbe esattamente come ci commuove? E
allora credo si ponga una questione: immaginando di poter disporre di
un time-lapse video di Michelangelo al lavoro sulla Pietà
Rondanini e
di farlo
scorrere
a ritroso, quand’è
che l’opera michelangiolesca, seppur incompiuta, smetterebbe di esser tale per diventare un informe blocco di marmo? Qual è il colpo di scalpello che
farebbe la differenza tra l’una e l’altro?
O forse la questione può esser posta in altri termini: se abbiamo
detto che il nostro giudizio sulla Pietà
Rondanini
è tutto intuitivo, in che punto del time-lapse video lasciato
scorrere a ritroso l’intuizione
non troverebbe più alcun appiglio? È azzardato credere che dovremmo
arrivare fino alla prima scalpellata o che addirittura prima, nel
blocco di marmo ancora intatto, potremmo già vedere l’ennesimo
capolavoro di Michelangelo? In fondo, questo non è quello che teorizzava lo
stesso Michelangelo, quando affermava che l’opera
d’arte stia già tutta dentro la materia dalla quale non attende altro che di essere tirata
fuori? Fatto: col commuoverci dinanzi alla Pietà
Rondanini
siamo diventati artisti di livello michelangiolesco. Peccato, solo,
che Michelangelo non possa controfirmare il capolavoro che abbiamo
virtualmente scolpito.
[...]
«Soudainement, tout cet amour se tourna en haine,
un mot d’ordre
infernal circula: “Tuons-le!
C’est le bon tyran, le plus exécrable de tous,
puisqu’il
ne nous laisse pas même le droit à la révolte”»
Alphonse
Daudet, Port-Tarascon (1890)
Quello
che rovina la ricorrenza del 25 aprile a logora pantomima di una
guerra civile, come ne fosse la lunga e necessaria coda perché i
vincitori non hanno vinto appieno e i vinti non hanno perso del
tutto, è la retorica della narrazione epica. Accade, così, che ogni
anno si riaprano sempre le stesse polemiche, come ferite mai guarite, e in realtà si
tratta di mestruazioni artificiose, indotte dall’estroprogestinico
della storia come eterno ritorno, e allora eccoci tutti, o quasi
tutti, a ridiscutere se
l’Italia
sia stata liberata più dai partigiani che dagli Alleati, se la lotta
di liberazione abbia avuto pagine di infamia, se si possa fare della
data un momento di unità nazionale equiparando le ragioni dei vinti
a quelle dei vincitori e perfino se non fosse meglio che l’uscita
dal Ventennio fascista avesse transizione meno traumatica. Il fatto
è, mi pare, che il 25 aprile non si può più né idealizzare né
revisionare più di quanto sia già stato fatto, sicché ogni
polemica si è ridotta a mera ombra di una guerra civile tra chi è
stato antifascista fin dal 1922 e chi rimasto fascista anche dopo il
1945, mentre sullo sfondo brulica la massa che fu fascista solo dal
1922 al 1945, e della quale non si è estinto il patrimonio genetico
di vile conformismo e cinico opportunismo. Questa massa non riuscirà
mai a elaborare il fascismo come colpa, né l’antifascismo
come riscatto, ma pretenderà di poter rivendicare a pieno titolo il
diritto di dare il suo consenso, sempre, a chi è tanto forte da poterlo
pretendere: si tratta del paese che riesce a concepire la propria libertà solo in
questo cortocircuito della responsabilità, come qualcosa che gli spetti a gratis. L’opposto
di come la Germania vive il suo passato nazista, che dunque può dire
definitivamente archiviato. A noi italiani non è dato: chi non
riesce ad ammettere di aver sbagliato può solo proiettare il proprio
sbaglio.
venerdì 24 aprile 2015
Lutti, guai e figure di merda
Al
problema dei barconi carichi di disperati che dalle coste d'Africa
salpano per l'Italia non mi stupisco che un idiota mosso solo dalla
preoccupazione di raccattare consenso abbia trovato una soluzione
che già sulla carta, prim'ancora diventi operativa, si può esser
certi non darà alcun risultato utile, ma solo lutti, guai e figure di merda.
Si tratterebbe – è
l'annuncio – di affondare i barconi prima che prendano il largo e
di dar la caccia agli scafisti sul suolo libico. E quando si
dovrebbero affondare questi barconi? Non quando siano già carichi di
migranti, c'è da augurarsi: non farebbe alcuna differenza affondarli
a un miglio da Zuara, mezz'ora dopo la partenza, o a un miglio da
Lampedusa, mezz'ora prima dell'arrivo, perché affogherebbero
comunque. Affondarli, allora, prima che a bordo vi salgano i migranti, ma senza i migranti a bordo come si può essere sicuri che si tratti di natanti destinati alla traversata del Canale di Sicilia? Si
affondano tutti gli scafi che, così, a naso, possano sembrare
utilizzabili dagli scafisti? Poi, eventualmente, si risarciscono i pescatori ai quali si è distrutto il peschereccio? E come ci si comporta con i gommoni, che
di solito vengono gonfiati solo poco prima della partenza? Li si affonda
quando sono già carichi, o cosa?
Perplessità non minori per quanto attiene
alla caccia agli scafisti. È da tempo, infatti, che al timone dei
natanti che partono dalla Libia ci sia un povero cristo scelto
all'ultimo momento, spesso solo perché sa usare un navigatore
satellitare, e come unico compenso ha qualche centinaio di euro e il
viaggio a gratis: ne arresti cento ed altri cento sono pronti a
prendere il loro posto. Oppure per scafisti dobbiamo intendere i veri
boss che organizzano i carichi, quelli che molto impropriamente, e con evidente affanno retorico, adesso vengono chiamati schiavisti, negrieri, ecc.? Spesso sono sconosciuti ai loro
stessi agenti operanti in loco e poi, quand'anche se ne
acchiappassero due, tre o dieci, il business che gestiscono è così
fiorente che sarebbero rimpiazzati in meno di una settimana. Perché
una cosa sembra non esser chiara a chi pensa che le partenze dei
barconi per l'Italia siano sostenute da un'offerta piuttosto che da
una domanda: sulla domanda lucrano gli scafisti, ma anche le tribù
locali, gli emissari dell'Isis e gli eserciti irregolari che si
spartiscono la Libia tra la Cirenaica e la Tripolitana, con ampie
aree di sovrapposizione e coincidenza.
Basta un minimo di
informazione su cosa sia la Libia, oggi, per aver chiara la
situazione relativa all'afflusso di migranti dal resto dell'Africa e
dal Medioriente in direzione obbligata verso l'Italia, e basta un
minimo di logica per capire che bloccare le partenze affondando i
barconi sia più una formula esorcistica che un programma. Come si arriva,
allora, a una soluzione così cretina? Semplice: cedendo alla
pulsione di saziare due opposti umori dell'opinione pubblica alla
tragedia che qualche giorno fa ha segnato il record di annegati, e
cioè la compassione per i disperati che rischiano la vita pur di
tentare di raggiungere Lampedusa e il sordo egoismo del caritatevole
“restassero a casa loro”. Superfluo dire che una bestialità del
genere è possibile sono nella più cieca ignoranza dell'incoercibile
forza che muove il flusso migratorio e nella più ottusa presunzione
di potervi mettere un freno. Così, invece di pensare a una risposta
seria, ecco l'ennesimo ritrovato di furbizia scema a mettere una
pecetta sull'emergenza, nell'attesa che l'onda di emozione cali, che
i rutti degli xenofobi si attenuino e che i migranti, se proprio
devono continuare a morire, lo facciano alla spicciolata, a dozzine
invece che a centinaia. Poi, difficile dire quanto più tragico o più ridicolo, vantare il risparmio di 5-6 milioni di euro al mese su Mare nostrum, che sarebbe meno di un decimo di quanto la corruzione ancora costa al contribuente.
Ecco, non stupisce che un idiota come Matteo
Renzi offra una cagata del genere spacciandola per soluzione seria:
non risolverà la questione dei migranti, ma terrà buono, almeno per
un po', chi si commuove al pensiero di donne e bambini chiusi in una
stiva in fondo al mare e chi non vuole clandestini a svaligiare
ville e jihadisti a rovinarci l'Expo. Potrebbe stupire, eventualmente, che non sia stato preso a calci in culo al vertice europeo presentando una proposta del genere, ma
si tratta di una soluzione che al momento torna comoda a Francia e a
Germania: si dimostrasse fallimentare, il peso solo ricadrebbe su chi
l'ha pensata.
giovedì 23 aprile 2015
martedì 21 aprile 2015
Sì, ma chi?
La revoca del mandato a rappresentare il Pd nella commissione parlamentare che sta discutendo l’Italicum non stupisce tanto per il numero dei deputati raggiunti dal provvedimento (dieci, roba mai vista), e nemmeno per l’indubbio peso che hanno i nomi di alcuni tra questi (Bersani, Cuperlo, Bindi), men che meno, poi, per quello che la decisione rivela della personale concezione che Renzi ha dell’essere segretario di un partito politico (in fondo, qui, non fa che confermarla), e ancor meno, se possibile, per l’ennesima prova di arroganza offerta da questa merda d’uomo (qui da intendersi come titolo di merito: specchio fedele del suo tempo, stessa sostanza, stessa consistenza): no, assai di più stupisce come, anche stavolta, questo coglione dopato di autostima incassi tanto agevolmente la soggezione di quanti sono fatti oggetto delle sue miserabili soperchierie da gradasso. Oppure no, neanche questo è degno di stupore, perché chi finora da lui ha subìto umiliazioni e dileggi non si è mostrato in grado di reagire neanche a ciò che intanto di assai più grave si andava consumando, e cioè la riduzione di un partito a comitato per la cura delle ambizioni personali di un parvenu di provincia, cafone quanto mai, e ignorantello, per giunta pure sbruffoncello, figuriamoci afferrarlo per il bavero, mollargli due ceffoni e urlargli in faccia: «Provaci ancora e ti sventro». Figurine esangui che lo hanno lasciato fare, incapaci di ammazzare il mostro in culla, prima, e ora destinate solo a stargli dietro, frustrate e riluttanti, sennò ad uscire dal partito, e per far cosa? Ne hanno paura, e lui visibilmente gode a vederli schiumar rabbia: tutto sommato, almeno per gli amanti del genere, può pure essere arrapante. Due ceffoni, invece, soprattutto se assestati in pubblico, ridimensionerebbero sensibilmente il Fenomeno: si tratta del solito ologramma che sembra persona vera solo fino alla prima interferenza di fase significativa, e l’immaginario che fin qui si è costruito addosso può svaporare solo se sbatte il grugno contro chi sappia usare modi più brutali dei suoi.
Sì, ma chi? Non avrebbe senso se si trattasse dello psicopatico di turno, potrebbe addirittura tornargli comodo. Idem se si trattasse di un leghista o di un grillino, anzi, peggio. Poi, sia chiaro, dovrebbe trattarsi di ceffoni (uno sarebbe poco, più di due potrebbe essere controproducente): gavettoni, torte in faccia, palle di letame, peggio che niente. E l’ideale sarebbe qualcuno della minoranza interna al Pd. Niente donne: siamo un paese intensamente maschilista, la volenterosa sarebbe marchiata a fuoco come isterica e il giorno dopo lui le manderebbe pure un mazzo di rose, con un risultato catastrofico rispetto allo scopo. L’uomo migliore sarebbe Bersani, ma figuriamoci, è uno che ha detto: «Preferisco ricevere un torto piuttosto che farlo», e (ahilui!) è pateticamente credibile, non ci riuscirebbe mai, neanche se in sogno glielo ordinasse Giovanni XXIII. Di Cuperlo, che pure andrebbe bene, non ne parliamo proprio: l’idea di rovinarsi il manicure e la reputazione lo terrebbero sul cesso con la diarrea fin dal giorno prima, e dopo, ammesso e non concesso ci riuscisse, si sentirebbe in dovere di espiare, probabilmente suicidandosi. In quanto a Civati, non ha il physique du role, né la congrua apertura palmare: buono semmai a intrattenere i giornalisti, dopo, sottolineando il significato politico del gesto. Fassina, ecco, Fassina sarebbe quello giusto, meglio poi se al gesto sapesse imprimere un tono epico, chessò, gridando: «E mo ci ha rotto il cazzo, dittatorello da strapazzo!». Ma è inutile contarci, alla minoranza del Pd piace un sacco essere maltrattata. Sacrificarsi per il bene del paese, poi, solo a lasciar l’impronta di un culo su una poltrona.
lunedì 20 aprile 2015
[…]
Uggesuggesuggesù, ma questo non è il Fini della Bossi-Fini. Salvo piroetta finale con un bel «e tuttavia», questo è uno che, dopo essersi fatto sfilare Alleanza Nazionale da Silvio Berlusconi, cerca di fottersi Emergency da Gino Strada.
Pietrangelo Buttafuoco, Il Feroce Saracino, Bompiani 2015
Nel mettermi dinanzi alla pagina bianca per scrivere dell’ultimo libro di Pietrangelo Buttafuoco (Il Feroce Saracino, Bompiani 2015), irresistibile è la tentazione di chiarire la mia posizione di lettore parafrasando quell’«io di mio» che apre il XV capitolo («Io di mio ho un nome saraceno»), e poi il XVII («Io di mio ho questa lunga storia d’amore con questo ritrovarmi saraceno»), attaccando con un’avvertenza che mi protegga da possibili fraintendimenti da parte chi si appresta a leggere questo tentativo di recensione (vedrete quanto impossibile): io di mio ho orrore perfino della trascendenza che ubriaca da millenni l’occidente, figurarsi se me ne bevo una d’importazione.
Tentazione irresistibile, questa di chiarire che non la bevo, perché in questo libro, assai più che in quelli precedenti, dove pure l’Islam emanava tutto il suo impeto proselitario in puro incanto, don Pietro (ora Giafar al-Siqilli) usa quell’«io di mio» a offrirsi come una soluzione autobiografica che ci dà per culminata nel sereno ritorno ad una casa che è di tutti, e a questo «io di mio» non si può negare quell’intrinseca forza di fascinazione che chi narra del suo viaggio riesce ad esercitare su chi ascolta, quando ci riesce, sicché Itaca può diventare facilmente patria anche di chi è nato a Oslo. Se ogni recensione è sempre, almeno per metà, un parlare di se stessi – seccatura che solo il recensore professionale può evitare a se stesso e ai suoi lettori – qui mi preme sbrigare la faccenda il più velocemente possibile: l’Islam di Pietrangelo Buttafuoco sembra avere una sola ma vitale urgenza esistenziale, quella di chiarirci che l’jihad è sforzo tutto interno, e che la vittoria sul Nemico sta nel pieno abbandono di se stessi ad una Verità che nella rivelazione del Profeta trova solo la piena conclusione – ma lo si scusa volentieri non sia poco – di ciò che Dio ha rivelato ad Abramo, e poi a Mosè, e poi a Gesù. Non è così, ovviamente. Perché l’jihad è anche campagna di conquista, come è connaturato nel dna comune a tutti i monoteismi. Perché la Verità che si fa legge nel Corano non è meno diversa da quella che si fa legge nei Vangeli di quanto sia diversa da quella che si fa legge mosaica. Se un tratto comune le apparenta, procede per ebrei, cristiani e musulmani da quella pesca a strascico che da oriente a occidente raccoglie suggestioni ancestrali di ogni genere, dalle pendici del Tibet alla sorgente del Nilo.
Per capire come possa riuscirci affascinante l’Islam di Pietrangelo Buttafuoco, bisogna immaginarcelo come un cristiano che vada per le strade di Parigi a declamare il Discorso della Montagna mentre i cattolici sgozzano gli ugonotti. Uno lo ascolta e non può fare a meno di dire: caspiterina, che religione di pace! E senza ironia, perché Giafar al-Siqilli è sufi genuino, onesto e convincente (per dire, Franco Battiato ne sembra una caricatura che suona come un soldo di latta), e non vogliamo avere dubbi che la società organica della tradizione sciita sia di un corporativo così caritatevole da essere l’ombra pur fievole della legge del Misericordioso. E poi, via, non ci sono cristiani che si limitano a testimoniare Cristo come incontro, con la sola forza dell’esempio, trasfigurando il dogma in pura immagine del Sovrumano, la precettistica in diario intimo e la preghiera in canto? No, eh? E vabbè, fa niente, come non detto, tanto qui era discussione un musulmano. Uno solo, sia chiaro.
Una modesta proposta
«Dichiaro con tutta la sincerità del mio cuore
che non ho il minimo interesse personale
a cercar di promuovere quest’opera necessaria»
Jonathan Swift, Una modesta proposta (1729)
È cosa ben triste, per chi butta un occhio alla tv, sapere di tanti poveracci che annegano nel Mediterraneo nel disperato tentativo di fuggire guerra e miseria. Per parte mia, dopo aver riflettuto per molti anni su questo grave problema ed aver considerato attentamente le varie soluzioni fin qui adottate per porvi rimedio, mi son reso conto che in esse vi erano grossolani errori di calcolo. Per questo mi decido ad avanzare una proposta che son certo troverà il giusto sostegno in chiunque abbia animo sensibile unito a savio intelletto. Consentitemi, però, di esporre in rapida sintesi gli aspetti salienti del problema, perché è da essi che a mio modesto avviso occorre prendere le mosse per cogliere il buonsenso che ispira la mia proposta.
Ci sono migliaia e migliaia di poveracci – c’è chi dice superino il milione – che dalle coste dell’Africa settentrionale aspettano il loro turno per imbarcarsi su malsicuri natanti per raggiungere Lampedusa, lembo estremo di quell’Europa che per essi è miraggio di nuova vita. Per arrivare ai lidi dai quali inizieranno una traversata dall’esito incerto, e assai spesso infausto, sono costretti a sborsare migliaia di euro a loschi individui che li sottopongono a marce forzate attraverso il deserto, senza risparmiare ad essi soprusi e violenze, e altre migliaia di euro sono costretti a sborsare per un posto su scafi scassati e gommoni mosci, sui quali vengono stipati peggio che fossero delle bestie. Arrivati in Italia, se ci arrivano, li aspetta un centro di accoglienza che è peggio di un carcere e lì stanno per mesi e mesi, in attesa che venga riconosciuto loro un diritto di asilo. Solo in minima parte hanno intenzione di restare in Italia, perché quasi tutti avevano, e fin dall’inizio, un’altra meta, Germania, Francia, Norvegia, Danimarca, ecc. Non è proprio questo, d’altronde, a motivare il disinteresse che la Ue sembra mostrare verso la gravità di questa immane emergenza umanitaria, il cui peso ricade quasi per intero sull’Italia?
Riuscite a intravvedere la soluzione? Non ancora? Aspettate, ché vi ci porto tenendovi per mano. Rispondete con animo sgombro da pregiudizio: pensate ci sia modo di fermare questa ondata migratoria alla maniera che propone quella gran testa di cazzo di Salvini? Pensate che il più sollecito programma di soccorso in mare possa evitare che altri barconi si capovolgano e altri disgraziati anneghino? Più di tutto: pensate che ulteriori inasprimenti delle pene per i criminali che organizzano l’orribile mercato possano scoraggiarli a fronte della prospettiva degli immensi guadagni che fanno sulla pelle di tanta povera gente? Vi avverto: siete ad un passo dalla soluzione. Se non la vedete, è per un mero vizio logico.
Via, qual è il sistema per venire incontro alle sacrosante aspettative dei migranti e, allo stesso tempo, a sollevare il nostro paese dalle difficoltà di un doveroso intervento umanitario che tuttavia sarà sempre inadeguato a fronte delle risorse umane e finanziarie che esigerebbe per essere davvero efficiente? Proprio non ci arrivate? Vabbè, vi do un aiutino: crociere. Non cogliete? E allora entro nello specifico.
Dai racconti dei migranti sappiamo che ciascuno ha dovuto sborsare da un minimo di 4.000 ad un massimo di 8.000 euro per riuscire ad avere un posto su una carretta di mare in partenza per l’Italia. Basterebbe ne sborsassero la metà perché una crociera su navi adeguatamente approntate allo scopo li portasse in giro a far scalo nei porti d’Europa, dove scendere da turisti per non far più ritorno a bordo. Ci sarebbe, è vero, da organizzare una rete di navette mobili dai paesi che sono il punto di partenza di quella che oggi è una dura e incerta Odissea, e che invece potrebbe trasformarsi in un comodo viaggio verso un porto controllato da nostre unità militari, chessò in Libano. Il costo di questa iniziativa sarebbe ampiamente coperto dal contributo che i migranti sarebbero felici di poter versare, sapendo di poter così contare su un sostanzioso residuo di risorse per le primarie necessità da affrontare nei paesi prescelti come mete finali. Basterebbero due navi da crociera da 2.000 posti ciascuna in servizio permanente nel Mediterraneo e nei Mari del Nord (si potrebbero eventualmente offrire ai migranti opzioni differenziate: Barcellona-Marsiglia, Helsinki-Stoccolma, Kiel-Copenhagen, ecc.).
venerdì 17 aprile 2015
Sul genocidio, ancora
Quando
c’è controversia sul significato di un termine, che quasi sempre è controversia
su quanto sia corretta o meno una sua attribuzione, penso non ci sia niente di
meglio che cominciare a ragionare sulla sua origine, cercando di trovare il
come, il dove e il quando s’è fatto significante. E tuttavia questo non basta,
perché non è affatto raro che, col tempo, un significante possa cambiare
significato, e anche di molto, com’è nel caso di ecatombe, termine che nacque nel IV secolo a.C. per significare l’uccisione
di cento buoi (εκατον βους), offerti in sacrificio a una divinità. In realtà, c’è
chi sostiene che cento fossero le zampe degli animali sacrificati, che dunque
erano solo venticinque, e non necessariamente buoi. Di fatto, quando oggi
diciamo ecatombe, l’idea non corre
necessariamente a un’offerta votiva, né necessariamente all’uccisione di
animali, venticinque o cento che siano.
Sostanzialmente
diverso, invece, è il discorso relativo ai termini che nascono in un contesto
scientifico per dare un nome a entità materiali o concettuali che ovviamente ne
sono sprovviste al momento in cui vengono postulate, scoperte, inventate, ecc.
In questo caso, il significante resta legato per lungo tempo al significato per
il quale il termine è stato coniato, anche quando l’entità alla quale è stato
attribuito viene ad appalesare caratteristiche che sembrano farlo diventare improprio,
com’è nel caso dell’atomo, che α-τομος
è rimasto anche dopo la scoperta che è possibile scomporlo in particelle
subatomiche.
La
questione relativa all’uso del termine genocidio
rimanda ineludibilmente alla sua origine, che trova ragione nel tentativo di
definire il tratto distintivo di una particolare fattispecie criminosa, ravvisabile
in alcune eliminazioni di massa, e in altre no. Tale tratto distintivo è quello
relativo alla finalità posta nell’atto criminoso quando questo prenda a oggetto
il γενος della massa che intende eliminare, e cioè il carattere che conferisce un
comune elemento identitario agli individui che la compongono. Col genocidio, insomma, siamo dinanzi al
programma di eliminazione di quell’elemento identitario (nazionale, etnico,
religioso) attraverso la soppressione di tutti gli individui che lo
rappresentano con la loro mera esistenza, così intesa come «vita indegna di essere vissuta» (Hannah Arendt).
Per
quale ragione Raphael Lemkin ritenne necessario dar vita a un neologismo per
definire quello che altrimenti poteva continuare ad esser detto sterminio,
massacro, eccidio, ecc.? Semplice. Perché con la Shoah era venuto a rendersi
tragicamente evidente, non foss’altro perché esplicitamente dichiarato dai
carnefici, quello che era il fine ultimo di quella carneficina: l’annientamento
degli ebrei in quanto ebrei. Il genocidio
degli ebrei, insomma, trovava ragione nel solo fatto che essi fossero ebrei, sicché
nell’Endlösung der Judenfrage l’attenzione
andava posta sul fatto che la questione
(-frage) fosse l’esistenza stessa degli
ebrei in quanto ebrei e che la soluzione (-lösung)
non potesse che essere il loro completo annientamento. Anche per questo la
definizione di olocausto appare altrettanto
pertinente: per i nazisti era tutto (ολος) ciò che era ebreo a dover essere bruciato (καυστος).
Sappiamo, infatti, che in Germania e in tutti i paesi di cui il Terzo Reich prese
il controllo militare la ricerca degli ebrei in quanto ebrei al fine di avviarli
allo sterminio fu puntigliosamente condotta senza eccezioni di sorta, sicché in
pochi anni il numero delle vittime toccò i sei milioni di individui e ad essere
risparmiati da quel massacro furono i soli ebrei riusciti a sfuggire per tempo
alla messa in atto del programma di annientamento totale, insieme ai pochi
sopravvissuti ai campi di sterminio.
Nel
caso degli armeni che nel 1915 furono sterminati in un numero che le varie
stime danno tra i 200.000 e i 1.600.000, possiamo parlare di genocidio? Gli armeni furono eliminati
in quanto armeni? Fu l’elemento identitario nazionale, etnico, religioso che li
contraddistingueva nel motivare il loro massacro? Se sì, come spiegarci il
fatto che molti armeni furono risparmiati dalla persecuzione, dalla
deportazione e dall’eccidio anche se il loro destino era nella disponibilità di
chi intanto ne massacrava una gran quantità? Richiamando alla memoria la
situazione venutasi a creare nelle regioni orientali della Turchia allo scoppio
della Grande Guerra, con la paventata ipotesi che gli armeni dell’Anatolia potessero
unirsi ai russi, coi quali invece i turchi erano in conflitto, con ciò causando alla Turchia la
perdita di controllo sui territori da essi abitati. La soluzione fu trovata
nelle deportazioni e nelle uccisioni di massa. Gli armeni, dunque, non furono
sterminati in quanto armeni, né in quanto cristiani. Ragionevolmente è da ritenere che, se
analogo problema fosse sorto nelle regioni meridionali della Turchia, ad essere
deportati e uccisi sarebbero stati i curdi, anche qui non in quanto curdi.
È
questo che a mio modesto avviso rende impropria la definizione di genocidio per lo sterminio che cent’anni
fa i turchi consumarono a danno delle popolazioni armene della Turchia
orientale. Questo non attenua in alcuna misura la gravità del crimine che fu
commesso, che resta enorme. Credo perciò che oggi si debba pretendere dalla Turchia di non sminuirne l’entità, senza però chiederle l’ammissione di genocidio, a meno che non si voglia ottenere, come mi pare sia nelle intenzioni di molti, un ulteriore suo irrigidimento su posizioni che progressivamente la allontanino sempre più da quell’Europa cui Kemal Atatürk l’aveva così sapientemente orientata.
D’altra parte, senza nasconderci l’intento che cova nell’acuire le crescenti tensioni tra Turchia ed Europa (il Vaticano è sempre stato ostile all’idea di un’entrata della Turchia nella Ue), desta sconcerto che a rilanciare l’imputazione di genocidio sia il massimo rappresentante di un’istituzione che nella sua storia ne ha commessi diversi. Si pensi agli albigesi, massacrati in quanti albigesi, o ai valdesi, massacrati in quanto valdesi. «Come successore di Pietro – disse Karol Wojtyla il 12 marzo 2000 – chiedo che in questo anno di misericordia la Chiesa, forte della santità che riceve dal suo Signore, si inginocchi davanti a Dio e implori il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli». Perdono chiesto a Dio, non alle vittime.
D’altra parte, senza nasconderci l’intento che cova nell’acuire le crescenti tensioni tra Turchia ed Europa (il Vaticano è sempre stato ostile all’idea di un’entrata della Turchia nella Ue), desta sconcerto che a rilanciare l’imputazione di genocidio sia il massimo rappresentante di un’istituzione che nella sua storia ne ha commessi diversi. Si pensi agli albigesi, massacrati in quanti albigesi, o ai valdesi, massacrati in quanto valdesi. «Come successore di Pietro – disse Karol Wojtyla il 12 marzo 2000 – chiedo che in questo anno di misericordia la Chiesa, forte della santità che riceve dal suo Signore, si inginocchi davanti a Dio e implori il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli». Perdono chiesto a Dio, non alle vittime.
martedì 14 aprile 2015
L’aria che tira
Nel
1915, Mustafa Kemal Bey, al quale peraltro non era stato ancora conferito il titolo di Atatürk,
era solo un ufficiale dell’esercito turco, per giunta di stanza sul fronte
occidentale, lontano centinaia di chilometri dai luoghi dove fu consumato il
massacro degli armeni. Può darsi che ne sia stato a conoscenza, e perfino che non
lo abbia disapprovato, ma dire che «Atatürk fece massacrare un milione e mezzo
di cristiani armeni» è in ogni caso una stratosferica cazzata. In quanto a
conoscenza della storia, insomma, ieri mattina, a L’aria che tira, tirava un’aria di merda.
lunedì 13 aprile 2015
Genocidio
Qualche
giorno fa, a proposito dell’omicidio plurimo aggravato consumatosi al Tribunale
di Milano, ho scritto che parlare di strage fosse improprio, perché «è strage quando ammazzi alla cieca, perché
colpisci membri di una collettività che, per quanto eterogenea, investi di
un’identità che è essa stessa il tuo bersaglio», mentre lì «la scelta delle vittime da parte
dell’assassino aveva una ratio che le individuava precipuamente in soggetti
predeterminati: quel tal giudice, quel tal avvocato, quel tal coimputato, ecc.»,
sicché, in riferimento a molti titoli strillati dai mezzi di informazione,
quella di strage fosse «imputazione a
cazzo di cane», mossa esclusivamente dall’inclinazione al sensazionalismo.
Qualcosa
del genere, anche se a un livello indubbiamente superiore rispetto a quello
dell’opinione pubblica che trova voce nel cronista, è accaduto e accade con l’imputazione
di genocidio mossa da tempo alla Turchia, e in sede assai più qualificata, con
pezze d’appoggio giurisdizionali di qualche indubbia solidità. Non è
assolutamente lecito, infatti, sul piano storico e su quello morale negare che
cent’anni fa, per diretta responsabilità del governo turco dell’epoca, si sia consumato lo sterminio di un enorme, ancorché imprecisato, numero di armeni, ma
quanto è congruo chiamarlo genocidio?
Se col termine intendiamo l’insieme
funzionalmente strutturato di atti finalizzati all’eliminazione fisica di un
gruppo più o meno ampio di individui accomunati da un tratto identitario nazionale,
etnico o religioso, fu senza dubbio un genocidio quello della Germania nazista
a danno degli ebrei, cercati ovunque fosse possibile raggiungerli e eliminati
in quanto ebrei. Se questo è il paradigma, trovano qualche ragione le
perplessità avanzate da storici che non possono essere sospettati di simpatie
per la Turchia e che, senza negare l’enormità del crimine commesso a danno
degli armeni, nutrono qualche dubbio sul fatto che siano stati eliminati in
quanto armeni, ne sarebbe prova il fatto che persecuzioni, le deportazioni e i
massacri colpirono quasi esclusivamente gli armeni residenti in Anatolia,
sostanzialmente trascurando quelli residenti altrove.
Ripeto: qui non è
discussione che la violenza ci sia stata, e sia stata bestiale, e di dimensioni
enormi, e per mano dei turchi, e a danno di armeni, e che questo, anche a
distanza di un secolo, reclami giustizia. La questione che sollevo è altra: è
corretto parlare di «genocidio armeno»? Per meglio dire: gli armeni che
trovarono la morte per mano turca furono eliminati in quanto armeni, in quanto
cristiani, o piuttosto in quanto ostacoli – reali o percepiti tali – per la
realizzazione di una Grande Turchia che includesse stabilmente l’Anatolia?
Nessun negazionismo: morirono a centinaia di migliaia, forse a milioni, ma si
trattò di genocidio o di un progetto criminale che comunque non aveva a oggetto
un’identità nazionale, etnica o religiosa?
Probabilmente è questione
irrilevante, ma è proprio sul termine che sembrano acuirsi le tensioni
diplomatiche con la Turchia, oggi non meno che ieri. E oggi, a rinfocolarle sul
punto, bel bello, ecco Bergoglio, che, seduto in cima alla catasta dei milioni
di morti addebitabili ai cristiani nel corso dei quindici secoli in cui il
cristianesimo non si fece alcuno scrupolo nell’eliminazione degli avversari –
reali o percepiti tali – che gli impedissero la pretesa di cattolicesimo (etimologicamente
inteso: κατα ολος, su tutto), azzarda il ruolo di supremo giudice del tribunale
penale internazionale.
[...]
Un
giubileo è di per se stesso – così fin dalle ragioni che Bonifacio VIII intese
dare all’istituto (Antiquorum habet,
22 febbraio 1300) – un dispensario di indulgenza. Possibile nessuno noti che c’è
franco pleonasmo nel definire «giubileo
della misericordia» quello
da venire?
16.10.1927 - 13.4.2015
Può
esser vero che di uno scrittore importi solo ciò che ha scritto e come l’ha
scritto, e che sia meglio quand’è del tutto invisibile fuor di ciò ha scritto, almeno
così si dice, e io inclino a ritenerlo giusto, tanto più giusto se di uno
scrittore si ama tanto un romanzo che tutto ciò che ha scritto dopo sembra scritto
solo per deludere le aspettative. Poi c’è da dire che i necrologi sarebbe
meglio riservarli a chi li merita, e cioè a chi ci dispiace se ne sia andato,
il che può renderli superflui nel caso della morte di uno scrittore di cui
abbiamo amato tanto un romanzo, e solo quel romanzo, perché alla fin fine è morto lo scrittore,
ma il romanzo resta. Vedi tu quante capriole sono costretto a fare per dire che la notizia della morte
dell’autore de Il tamburo di latta –
non voglio neanche nominarlo, ché non è affatto necessario – mi arriva, e non è giusto, e chissà come, ma perché, come una coltellata in pancia.
Suggerirei olanzapina e lamotrigina
Non
starò ad annoiare il mio lettore, che d’altronde è coltissimo, citando gli
autori che hanno descritto e analizzato la relazione funzionale che c’è tra
aggressività e vittimismo in quel vasto dominio della psicopatologia che dalle
algide vette del narcisismo digrada nei frastagliati fiordi del borderline: mi
limiterò a illustrare un caso clinico che mi pare sia emblematico di quella
relazione, per poi avanzare una diagnosi e infine suggerire una terapia. Per farlo, tuttavia,
sarà necessario, almeno in breve, fornire gli estremi di quello che sul piano della
narrazione clinica possiamo a buon ragione definire antefatto. [Per chi ha
voglia di circostanziare in dettaglio questi estremi rimando a Er Cecato e la cecataggine (Malvino, 5.12.2014), Mondo di mezzo (Malvino, 8.12.2014) e «Carminati
invoca giustizia» (Malvino,31.12.2014), dove si argomenta quanto qui la sintesi potrebbe far sembrare
apodittico.]
In breve, dunque, diciamo che qualche mese fa scoppia lo scandalo
di Mafia Capitale e – qui cito, poco oltre vedrete per quale ragione, Carlo
Bonini (la Repubblica, 11.4.2015) – «Il Foglio di Giuliano Ferrara […] deci[de] di insufflare, per sbertucciare tra il
semi-serio e il sarcastico, “l’azzardo giuridico” del procuratore Giuseppe
Pignatone, dell’aggiunto Michele Prestipino, dei sostituti Giuseppe Cascini,
Paolo Ielo, Luca Tescaroli, nonché lo sforzo investigativo del Ros dei carabinieri».
Non è mafia, dice Giuliano Ferrara: la mafia ha la coppola e la lupara, spara e
usa il tritolo, qui si tratta di una banda di cravattari, topi nel formaggio,
millantatori di un potere criminale che si esauriva nel far scivolare una
mazzetta nella tasca di chi poteva favorire un appalto.
Sembrava sfuggisse – ma
come era possibile non sospettare volesse sfuggire? – che l’art. 416 bis del
nostro Codice Penale non descrive un’organizzazione denominata Cosa Nostra (o ’Ndrangheta,
o Camorra, o Sacra Corona Unita), ma un’organizzazione di «tipo» mafioso, ciò che sul piano pubblicistico ha trovato in «stampo» un sinonimo assai felice. E
quali sono, per il legislatore, gli elementi che consentono di identificare in
un’associazione a delinquere il suo carattere mafioso? «L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno
parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della
condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti,
per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo
di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi
pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri,
ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di
procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali», rimarcando che «le disposizioni del presente articolo si
applicano anche alla camorra e alle altre associazioni, comunque localmente
denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del
vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni
di tipo mafioso».
Dopo aver letto le 1.228 pagine dell’ordinanza di
applicazione delle misure cautelari emessa dal gip a carico degli indagati, si
potevano aver dubbi che il «Mondo di
mezzo» cui aveva dato vita Massimo Carminati non rispondesse alla
fattispecie? D’altronde, qual era – peraltro neanche tanto occulto – il fine di
«sbertucciare» l’ipotesi accusatoria
basata sull’art. 416 bis? Negare la natura sistemica degli eventi delittuosi,
astrarli dalla matrice che li rende strutturati in mosse di una strategia che va
ben oltre l’arricchimento illecito, ma mira al controllo di un territorio,
rendendo così l’associazione a delinquere un attore fattualmente politico, perché
in grado di creare il luogo – e qui cito ancora Bonini (ibidem) – «dove gli appetiti
del Palazzo e quelli della Strada e dunque i loro “tipi umani” (consiglieri
comunali e spezza ossa, funzionari pubblici e corruttori, guardie e ladri) si
incontrano per svuotare, con la forza dell’intimidazione, il ricatto e
l’omertà, e dunque come ogni mafia degna di questo nome, non le forme, ma la
sostanza della democrazia: la regolarità degli incanti pubblici, la trasparenza
dell’agire amministrativo, la libertà nella formazione della volontà politica».
Direi che la polemica cui Il Foglio
ha dato vita sulla questione di Mafia Capitale è solo uno degli episodi che ne
caratterizzano il tratto scettico sulla sostanza della democrazia, nel solco
dell’assunto che «un’oligarchia ben
organizzata assomiglia molto a una democrazia possibile» (Il Foglio, 22.5.2008): l’altra – quella della
regolarità degli incanti pubblici, della trasparenza dell’agire amministrativo,
della libertà nella formazione della volontà politica – sarebbe quella impossibile.
Qual è, d’altra parte, il confine tra l’intimidazione, il ricatto e l’omertà
dell’organizzazione di stampo mafioso e gli strumenti di cui si serve un’«oligarchia ben organizzata»? C’è senza
dubbio, ma quanto è labile! Potremmo dire che si delinea solo nel rispetto
delle mere forme della democrazia, che tuttavia non impedisce di svuotarne la
sostanza.
Ecco il pericolo, dunque, nel riconoscere il metodo di tipo mafioso
nella join venture tra ceto politico e delinquenza di strada: viene a crearsi
un precedente che può tornare buono a incriminare l’«oligarchia ben organizzata» quando incorra in qualche sbavatura
procedurale. In buona sostanza, dal ritratto di Carminati come quello di un
delinquentello qualsiasi alla sua difesa come vittima di una tortura (sì, Il Foglio è arrivato pure a questo), non
abbiamo assistito al solito esercizio di sofistico spirito di patata che manda
in sollucchero gli amanti dell’eccentrico, ma un più subdolo tentativo di
liquidare il «Mondo di mezzo» come versione
grossolana, fin quasi patetica, di quella raffinata delinquenza che dà vita all’unica
«democrazia possibile». Certo, c’è
pure l’elemento ludico, quello che ha reso Il
Foglio un’officina dal marchio inconfondibile, qui espresso nello
spericolato garantismo in favore del fetente di turno, ma sul fondo era
evidente una posta in gioco assai più consistente, per la quale valeva la pena
farsi estremamente aggressivi.
Ma ora? Qual è l’atteggiamento da assumere, ora
che «per la prima volta nella storia
repubblicana, il Genoma Mafioso, il “modello legale” dell’articolo 416-bis,
nell’applicazione che ne dà la Cassazione, si libera della folcloristica e
riduttiva rappresentazione della coppola storta, della lupara, del santino
bruciato, della ferocia schizzata della narco Camorra e dei giuramenti
‘ndranghetisti, che sono e restano Mafi, ma che da ieri non la esauriscono»
(Bonini, ibidem)? Quello della vittima:
«la Cassazione ha dato ragione alla casta togata più
influente, quella della Capitale, perché […] l’informazione massificata e
orchestrata secondo un criterio di legalità culturalmente bacato, onnivoro e
non procedurale, stravolge la realtà» (Giuliano Ferrara – Il Foglio, 13.4.2015). E la Cassazione ci casca? Evidentemente, d’altra
parte «le pronunce giudiziarie hanno una
loro intrinseca autorevolezza, e si giustificano o si contraddicono mediante
altre pronunce giudiziarie», dunque non è detto un domani… Poi c’è che «non funziona una indagine giudiziaria annunciata
a sorpresa, pochi giorni prima delle ordinanze di cattura e dell’elevazione
delle accuse, dal suo massimo responsabile, il dottor Pignatone; non funziona
in ogni senso la sede dell’annuncio, un convegno del Partito democratico; non
funziona la spettacolare convergenza di tutti i giornali o quasi e di tutte le
televisioni senza eccezione nel definire il fenomeno secondo una specie di
lectio universalis desunta dalle carte e, trattandosi di centinaia di migliaia
di pagine, dalla selettiva illustrazione riservata delle carte lungo canali al
di fuori di ogni controllo, giorno dopo giorno, capitolo per capitolo».
Inoltre, «la sentenza della Cassazione
che “salva” per adesso il processo a venire del dottor Pignatone, e tiene in
galera preventiva gli accusati (il che secondo un certo modo di vedere le cose
è un caso di tortura), fa dei riconoscimenti in analogia patente con le nostre
obiezioni: non c’è nell’indagine e nei suoi risultati una catena estorsiva e
violenta di tipo mafioso; non ci sono delitti di mafia; c’è un’aria di malavita
e di deviazione dai canoni della legalità, e di corruzione, intestabile al
business della carità e dell’assistenza, a istituzioni tipiche di una
concezione solidarista della funzione pubblica nel campo del recupero dei carcerati,
dell’accoglienza e del volontariato». Insomma, «accanto a un mare di cose buone o di velleità redentive buoniste,
scegliete voi, c’è il sospetto, e molto più che il sospetto, di un
coinvolgimento corruttivo di pezzi dell’amministrazione capitolina, singoli
funzionari, [ma] mancano le famiglie,
i mandamenti, il linguaggio e le omertà della mafia, mancano gli arsenali,
insomma mancano tutti gli elementi tipici di un crimine organizzato di tipo
mafioso».
E tuttavia la Cassazione non dice che la mancanza di arsenali non
toglie tipologia mafiosa agli addebiti sollevati nei confronti di Carminati
& c.? Come non l’avesse detto: s’è fatta buggerare dalla campagna mediatica
e al momento – solo al momento, sia chiaro, ché aggressività e vittimismo
stanno bene insieme solo nell’irriducibilità di protervia e risentimento – le
tesi di Giuliano Ferrara vanno a farsi benedire. «Un giornalismo di minoranza che nega l’assunto di una procura e
argomenta in modo semplice i suoi dubbi deve essere tacitato senza esame
obiettivo delle sue tesi?». E chi lo tacita? D’altra parte, le sue tesi non
sono in tutto simili a quelle avanzate dai difensori di Carminati e che sono
state respinte dalla Cassazione? Non sono state esaminate? Sì, ma forse non in
modo obiettivo. L’obiettività è una prerogativa di Giuliano Ferrara, si sa.
Suppongo sia superfluo sottolineare i tratti del delirio di onnipotenza che anche in questo caso affligge il narcisista, qui mortificato dall’impatto con la realtà, che sappiamo essere evento catastrofico sul piano clinico: gli
elementi di natura clinica emergono in tutta l’emblematicità del quadro nosografico.
Resta la terapia, e qui vorrei tagliar corto perché mi sono pure dilungato troppo su un caso che sarà esemplare quanto si vuole, ma un caso resta: io suggerirei olanzapina e lamotrigina. Ma a dosi generose, e senza aspettarsi altro che una parziale remissione dei sintomi. Perché la patologia in questione – triste dirlo – è altrimenti incurabile. Peraltro alleviare la sofferenza del malato è un dovere inderogabile della buona medicina.
venerdì 10 aprile 2015
Cristo, è una strage!
Quando
monta l’isteria, si sparano imputazioni a cazzo di cane e, anche se qualcuno se
ne accorge, tanta è la delicatezza che tace. Così con l’evocazione del reato di
strage per l’omicidio plurimo che s’è consumato al Tribunale di Milano. È strage
quando ammazzi alla cieca, perché colpisci membri di una collettività che, per
quanto eterogenea, investi di un’identità che è essa stessa il tuo bersaglio.
Qui, invece, la scelta delle vittime da parte dell’assassino aveva una ratio
che le individuava precipuamente in soggetti predeterminati: quel tal giudice,
quel tal avvocato, quel tal coimputato, ecc. E allora dove sta la strage? D’altronde
la sanzione penale per strage fa tanta differenza da quella per omicidio
plurimo con tutta la sfilza di aggravanti del caso? E allora perché nessuno – e,
quel che è peggio, nemmeno un magistrato – osa dire che parlare di strage è da
cretini? Così la parola corre, per la semplice ragione che sembra dare pienezza
al sentimento di sconcerto, sarà perché ha un suono che strepita come si deve. È
questione d’orecchio, probabilmente. Se esclamo «Gesù!», infatti, passo per
personcina mite, dolciastra, sostanzialmente inoffensiva, forse pure un po’ molliccia. Con «Cristo!» rimedio tutt’altra figura.
giovedì 9 aprile 2015
[...]
Un
infermiere stupra una paziente, chi deve dimettersi? Il primario dell’ospedale?
Il direttore dell’Asl? Il ministro della Sanità? Portiamoli in tribunale tutti
e tre, ovviamente insieme all’infermiere. Che viene condannato, mentre gli
altri tre sono assolti. Chi dei tre rimane comunque responsabile – moralmente,
se non penalmente – del reato commesso dall’infermiere? Chi dei tre deve
dimettersi anche se è dimostrato che non ha istigato a quel reato, né lo ha coperto, né è stato complice di chi lo ha commesso?
Certe volte io non mi capacito della logica corrente in cui vedo scorrere perfino persone che stimo, e stavolta la logica corrente sentenzia che De Gennaro è responsabile dei fatti della Diaz. Al terzo grado di giudizio è stato assolto pure dall’accusa di aver spinto qualcuno a mentire su quei fatti. E allora – lo confesso – ho le vertigini, vacilla in me ogni certezza. Sulla responsabilità penale, che è sempre personale, o almeno dovrebbe. Sulle pertinenze che in ogni grado di una catena di comando stanno sempre, e personalmente, tra la più ligia obbedienza e il più folle arbitrio. Sul bisogno istintivo – da orda, sarei portato a dire – di concentrare una pur disomogenea distribuzione di colpe su un solo capro espiatorio.
Io non ho alcun dubbio che alla Diaz si sia consumata un’immensa, atroce schifezza. De Gennaro, poi, mi sta pure antipatico, così, a pelle, sarà quella pettinatura. Ma davvero non capisco, e non ho alcuna difficoltà ad ammettere sia un mio limite, che cazzo c’entri ancora con quello che è successo alla Diaz dopo una sentenza di Cassazione che lo ha assolto. Sentenza ingiusta? Qualcuno mi spiegasse perché.
Certe volte io non mi capacito della logica corrente in cui vedo scorrere perfino persone che stimo, e stavolta la logica corrente sentenzia che De Gennaro è responsabile dei fatti della Diaz. Al terzo grado di giudizio è stato assolto pure dall’accusa di aver spinto qualcuno a mentire su quei fatti. E allora – lo confesso – ho le vertigini, vacilla in me ogni certezza. Sulla responsabilità penale, che è sempre personale, o almeno dovrebbe. Sulle pertinenze che in ogni grado di una catena di comando stanno sempre, e personalmente, tra la più ligia obbedienza e il più folle arbitrio. Sul bisogno istintivo – da orda, sarei portato a dire – di concentrare una pur disomogenea distribuzione di colpe su un solo capro espiatorio.
Io non ho alcun dubbio che alla Diaz si sia consumata un’immensa, atroce schifezza. De Gennaro, poi, mi sta pure antipatico, così, a pelle, sarà quella pettinatura. Ma davvero non capisco, e non ho alcuna difficoltà ad ammettere sia un mio limite, che cazzo c’entri ancora con quello che è successo alla Diaz dopo una sentenza di Cassazione che lo ha assolto. Sentenza ingiusta? Qualcuno mi spiegasse perché.
[...]
Ma
questo De Gennaro è quello che una sentenza della Cassazione ha assolto dalle
imputazioni relative ai fatti della Diaz? E allora dov’è la vergogna che sia alla
presidenza di Finmeccanica? La questione eventualmente sarebbe altra, e cioè se la
vergogna non sia per caso Orfini alla presidenza del Pd. Se non fosse che il Pd è quello che è, e che lì lo ha messo Renzi. Il che equivale a piena assoluzione per tutto ciò che Orfini dice.
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