La
questione del se e del quanto la giustizia stia indebolendo la
politica – ne parlavamo ieri commentando l’articolo
di Giovanni Belardelli uscito l’altrieri
sul Corriere
della Sera
(La
giustizia onnipresente che indebolisce la politica)
– merita che si faccia un minimo di chiarezza sui termini in cui si
pone il problema, sennò a discuterne ingarbugliamo inevitabilmente
la matassa.
Senza intrattenerci troppo sui massimi sistemi, direi non
ci sia scandalo nel periodico conflitto tra poteri che lo stato di
diritto vuole separati e indipendenti: legislativo, esecutivo e
giudiziario erano in principio tre funzioni di una sola autorità,
quindi è del tutto naturale che di tanto in tanto ciascuno mostri la
tendenza ad assorbirne almeno in parte gli altri due, non foss’altro
a rammentarci che, se vuol esser mantenuto, lo stato di diritto
necessita di una costante cura e sorveglianza, non è dato una volta
e per sempre in forza di una sua intrinseca capacità di darsi
stabilità nell’equilibrio
tra i tre poteri, che infatti a volte è mantenuta, quando uno dei
tre mostra un indebolimento, con una transitoria azione vicariante di
uno degli altri due, o di entrambi.
È il caso che l’Italia
ha vissuto circa un quarto di secolo fa, quando il sistema politico,
già da decenni afflitto da una grave crisi, collassò sotto il peso
dei suoi errori: fu la magistratura a vicariare il vuoto di potere
lasciato da un ceto politico ampiamente screditato, chiamato
finalmente a render conto del suo fallimento. Era probabilmente
inevitabile che questo favorisse degli eccessi, che infatti non
mancarono, portando in breve a disdicevoli episodi di protagonismo da
parte di alcuni esponenti della magistratura, che cominciò ad
accusare un altrettanto inevitabile calo di consensi dell’opinione
pubblica che fino ad allora non aveva affatto percepito come
prevaricante, anzi, il suo ruolo di supplenza.
Di pari passo, il ceto
politico procedeva ad un riassetto che lo portava con sempre più
insistenza, e coi toni della più aspra polemica, a rivendicare le
sue naturali prerogative, di cui lamentava lo scippo.
Per quanto
abbia cercato di sterilizzarla da ogni umore di lizza, non pretendo
che questa lettura di quanto è accaduto in Italia venga unanimemente
condivisa, anzi, suppongo che sarà oggetto di critica sia da chi
pensa che quello della magistratura fu un colpo di stato, sia da chi
pensa che la sua meritoria opera di bonifica fu resa vana da quel
subdolo «cambiar
tutto perché nulla cambi» che
ridà forze al malaffare. Comunque si voglia leggerla, tuttavia, mi
auguro che questa storia possa vederci d’accordo
almeno su un punto: è la debolezza di uno dei tre poteri che lo
stato di diritto vorrebbe separati e indipendenti a renderne forte un
altro oltre il dovuto. Nel contempo, è inevitabile che il ritorno ad
una condizione di equilibrio, quando e se questa si ottenga, sia
segnato da fluttuazioni di forze di qua e di là dal limite che la
teoria dello stato di diritto fissa per ciascun potere.
E con
l’articolo di Giovanni Belardelli sul Corriere
della Sera
di lunedì 11 maggio, con quello odierno di Luigi Ferrarella, sempre
sul Corriere
della Sera
(Il
malessere delle sentenze),
e con la lettera di Giuseppe Maria Berruti sul numero de la
Repubblica
oggi in edicola (Quando
le sentenze rallentano la politica)
direi che siamo al punto in cui alla giustizia si chiede un po’
troppo, comunque assai di più di quanto spetti alla politica per suo
diritto.
Prima di passare
al commento di questi altri due contributi sul tema, però, mi è
necessaria una precisazione riguardo a un termine che ho usato anche
nel post qui sotto e che ha incontrato un’obiezione da parte di un
lettore. Infatti ho parlato di «giudici»
includendo nel termine sia i togati che nei tribunali amministrativi,
civili e penali provvedono a far rispettare le leggi per come esse
sono, sia quelli che siedono nella Consulta e che invece le
sottopongono al vaglio di costituzionalità: espediente lessicale che
intendeva mantenere la genericità di critica che Belardelli muoveva
alla «giustizia», senza alcuna distinzione
di funzione e di ruolo, per la sentenza della Corte costituzionale
che dichiara l’illegittimità
di un decreto sulle pensioni, per quella di un Tribunale penale che
ordina la
chiusura di una fabbrica responsabile di danni ambientali e alla
salute dei cittadini, per quella con la quale un Tar solleva
eccezione alla sospensione di un sindaco. Per quello che sarà
necessario al commento di ciò che scrivono Ferrarella e Berruti
potrò risparmiarmi la «confusione»
che ho ingenerato col parlare di «giudici», in senso
conseguentemente
lato: entrambi sembrano voler appuntare l’attenzione
in modo pressoché esclusivo sulla decisione della Consulta sul
taglio
delle indicizzazioni delle pensioni che era nel cosiddetto
Salva-Italia del governo Monti, e a buon motivo, perché, da un lato,
pretendere che la politica sia forte al punto da interferire con la
giustizia sull’applicazione
delle leggi era una «fluttuazione»
francamente eccessiva (in
ciò è da segnalare che l’articolo
di Ferrarella sembra voler riaggiustare il tiro di Belardelli) e,
dall’altro,
è il «buco»
che Renzi viene a trovarsi in cassa a costituire un handicap
oggettivo all’autonomia
delle decisioni politiche.
Col rischio di apparire malizioso, la
dozzina di miliardi di euro che dovrebbe andare ai pensionati azzera
il millantato tesoretto col quale il premier intendeva issare un palo
della cuccagna in vista delle elezioni regionali: quando a un premier
che galleggia su una nuvoletta di chiacchiere togli la possibilità
di raccattare consensi elargendo mance (vedi il caso degli ottanta
euro alla vigilia delle scorse elezioni europee), allora sì che la
politica – questo tipo di politica – oggettivamente si
indebolisce. Così riaggiustato il tiro, la questione può avere
anche una sua dignità, e dunque possiamo passare alla lettura di
Ferrarella e di Berruti. Il primo, ammettendo implicitamente (non
saprei dire se si tratti solo di un espediente retorico) che la Corte
costituzionale si è limitata a difendere dei diritti, si chiede
«quanti
diritti ci possiamo permettere», «quale dose di giustizia può
tollerare il nostro assetto sociale ed economico» e, col concedere
che «fino a pochi anni fa una simile domanda sarebbe suonata
bestemmia», sembra farci intendere che sono finiti i tempi in cui
diritti e giustizia erano garantiti dalla Costituzione, perché oggi
sarebbe più opportuno lasciar decidere all’esecutivo
quanto ne ce tocchino di volta in volta. «Cambiano infatti i casi,
ma il denominatore comune resta che la giurisdizione è sottoposta a
una pressione sociale molto più insidiosa di passate grossolane
ingerenze politiche»: in sostanza, con Berlusconi erano «ingerenze
politiche», per giunta «grossolane», con Renzi è «pressione
sociale». Suppongo, infatti, che in questi giorni abbiate visto le
strade piene di gente incazzatissima per la sentenza della Corte
costituzionale. No? Vabbè, sarà che affollava solo Via Solferino.
Come il lettore mi auguro abbia inteso, non riconosco all’articolo
di Ferrarella altro intento che ammorbidire la posizione di
Belardelli, per sottrarre il Corriere
della Sera
all’accusa di aver virato troppo in fretta il giudizio sull’azione
del governo, ieri guidato da un «caudillo maleducato» (De Bortoli)
e oggi impedito nel fare «una determinata scelta di politica
economica e sociale»
(Belardelli). È quella che passa per moderazione.
Di peso
notevolmente maggiore è ciò che scrive Berruti in forma di lettera
al direttore, e per «peso» intendo «grave», tanto più grave se
si tiene conto che il mittente è presidente di una sezione della
Cassazione, a indizio che anche tra i «giudici» (e qui rimando
all’accezione
cui facevo cenno prima) comincia ad esserci chi è sensibile alle
ragioni di un esecutivo che, all’indomani
di una sentenza della Consulta che ripristina dei diritti violati,
già si arrabatta a cercare il modo per aggirarla, lamentandosi
intanto che quella sentenza «fa perdere credibilità al paese in
sede internazionale» (Renzi).
Berruti scrive: «Si può dire: ma la
legge è legge, la Costituzione è nota e i governi debbono sapere i
limiti dei possibili impegni. Risposta ipocrita. I governi operano
nel presente economico e politico. Nell’attimo,
data la velocità dei mercati finanziari che richiedono risposte che
operano sul piano della pura percezione. In realtà, il problema del
contrasto tra la decisione giudiziaria, che opera su un dato di
certezza giuridica e quindi di immutabilità delle posizioni a regole
immutate, e la decisione politica che risponde alla relazione di
forza, esiste».
Sì, senza dubbio esiste, ma come andrebbe risolto?
Non con mutare le regole caso per caso, voglio sperare, né col
performarle in modo che al governo sia concesso di decidere un po’
come cazzo gli pare, sicuro che il principio di forza maggiore
giustifichi la sospensione della norma scritta. No, possiamo tirare
un sospiro di sollievo, neanche Berruti vuole questo, anzi, dice che
lo «preoccupa uno scenario che affidasse al governo poteri decisivi
e non ostacolabili». E allora? Quale sarebbe la soluzione? Non lo
dice. Dice che la democrazia «sta cambiando» (e su questo siamo
d’accordo,
basta constatare – per riprendere Ferrarella – che oggi si lavora
a rendere tollerabile la «bestemmia»), e che dunque «è urgente
una riflessione politica». Penserà mica a una Consulta i cui membri
siano scelti tutti dal governo? Ci guadagneremmo solo in tanto
shabadabadà.