«Cultura umanista»
invece che «cultura umanistica». «Parliamoci chiari» invece che
«parliamoci chiaro». La riforma della scuola spiegata da un piazzista semianalfabeta.
giovedì 14 maggio 2015
Croccantini
Il
giovedì pomeriggio – non di regola come una volta, ma abbastanza spesso – mi
capita di bighellonare per le librerie di Port’Alba,
che un tempo assai di più – oggi, ahimè, quasi per niente –
erano pozzi senza fondo di volumi altrimenti introvabili, per giunta
venduti a prezzi davvero irrisori, prime edizioni, annate di riviste
ormai chiuse da decenni, intere librerie svendute in blocco da eredi
allergici alla polvere. Insomma, non è più come una volta che con due
soldi a casa ti portavi mezzo scaffale di delizie mai più
ristampate, ma intanto l’abitudine
m’è
restata, e oggi avrei in programma la solita capatina.
Fatt’è che oggi pomeriggio, a meno di cento metri in linea d’area da Port’Alba, in uno dei caffè letterari di Piazza Bellini, il mitico Pippo Civati presenta l’ultimo suo libro. La tentazione di allungarmi per andare a stringergli la mano c’è, ma mi conosco, so che farei fatica a trattenermi, comincerei a dargli consigli non richiesti sul lessico e sul look, tra il serioso e la presa per culo, insomma, risulterei sgradevole, anche se a muovermi sarebbe solo – giuro – l’enorme tenerezza che il Pippo mi scatena, la stessa tenerezza di quando su Youtube incappo in un video di gattini. E quindi eviterò di allungarmi, per evitare di allargarmi, ma poi, si sa, la tentazione è tentazione, anche perché mi prude una domanda: quando col tipaccio ci facevi le Leopolde, neanche il sospetto ti ha sfiorato di quanto fosse uomo di merda? E so che mi direbbe no, e allora sarà il caso, nel caso, che oggi nella borsa metta dei croccantini.
Fatt’è che oggi pomeriggio, a meno di cento metri in linea d’area da Port’Alba, in uno dei caffè letterari di Piazza Bellini, il mitico Pippo Civati presenta l’ultimo suo libro. La tentazione di allungarmi per andare a stringergli la mano c’è, ma mi conosco, so che farei fatica a trattenermi, comincerei a dargli consigli non richiesti sul lessico e sul look, tra il serioso e la presa per culo, insomma, risulterei sgradevole, anche se a muovermi sarebbe solo – giuro – l’enorme tenerezza che il Pippo mi scatena, la stessa tenerezza di quando su Youtube incappo in un video di gattini. E quindi eviterò di allungarmi, per evitare di allargarmi, ma poi, si sa, la tentazione è tentazione, anche perché mi prude una domanda: quando col tipaccio ci facevi le Leopolde, neanche il sospetto ti ha sfiorato di quanto fosse uomo di merda? E so che mi direbbe no, e allora sarà il caso, nel caso, che oggi nella borsa metta dei croccantini.
mercoledì 13 maggio 2015
Ci guadagneremmo solo in tanto shabadabadà
La
questione del se e del quanto la giustizia stia indebolendo la
politica – ne parlavamo ieri commentando l’articolo
di Giovanni Belardelli uscito l’altrieri
sul Corriere
della Sera
(La
giustizia onnipresente che indebolisce la politica)
– merita che si faccia un minimo di chiarezza sui termini in cui si
pone il problema, sennò a discuterne ingarbugliamo inevitabilmente
la matassa.
Senza intrattenerci troppo sui massimi sistemi, direi non
ci sia scandalo nel periodico conflitto tra poteri che lo stato di
diritto vuole separati e indipendenti: legislativo, esecutivo e
giudiziario erano in principio tre funzioni di una sola autorità,
quindi è del tutto naturale che di tanto in tanto ciascuno mostri la
tendenza ad assorbirne almeno in parte gli altri due, non foss’altro
a rammentarci che, se vuol esser mantenuto, lo stato di diritto
necessita di una costante cura e sorveglianza, non è dato una volta
e per sempre in forza di una sua intrinseca capacità di darsi
stabilità nell’equilibrio
tra i tre poteri, che infatti a volte è mantenuta, quando uno dei
tre mostra un indebolimento, con una transitoria azione vicariante di
uno degli altri due, o di entrambi.
È il caso che l’Italia
ha vissuto circa un quarto di secolo fa, quando il sistema politico,
già da decenni afflitto da una grave crisi, collassò sotto il peso
dei suoi errori: fu la magistratura a vicariare il vuoto di potere
lasciato da un ceto politico ampiamente screditato, chiamato
finalmente a render conto del suo fallimento. Era probabilmente
inevitabile che questo favorisse degli eccessi, che infatti non
mancarono, portando in breve a disdicevoli episodi di protagonismo da
parte di alcuni esponenti della magistratura, che cominciò ad
accusare un altrettanto inevitabile calo di consensi dell’opinione
pubblica che fino ad allora non aveva affatto percepito come
prevaricante, anzi, il suo ruolo di supplenza.
Di pari passo, il ceto
politico procedeva ad un riassetto che lo portava con sempre più
insistenza, e coi toni della più aspra polemica, a rivendicare le
sue naturali prerogative, di cui lamentava lo scippo.
Per quanto
abbia cercato di sterilizzarla da ogni umore di lizza, non pretendo
che questa lettura di quanto è accaduto in Italia venga unanimemente
condivisa, anzi, suppongo che sarà oggetto di critica sia da chi
pensa che quello della magistratura fu un colpo di stato, sia da chi
pensa che la sua meritoria opera di bonifica fu resa vana da quel
subdolo «cambiar
tutto perché nulla cambi» che
ridà forze al malaffare. Comunque si voglia leggerla, tuttavia, mi
auguro che questa storia possa vederci d’accordo
almeno su un punto: è la debolezza di uno dei tre poteri che lo
stato di diritto vorrebbe separati e indipendenti a renderne forte un
altro oltre il dovuto. Nel contempo, è inevitabile che il ritorno ad
una condizione di equilibrio, quando e se questa si ottenga, sia
segnato da fluttuazioni di forze di qua e di là dal limite che la
teoria dello stato di diritto fissa per ciascun potere.
E con
l’articolo di Giovanni Belardelli sul Corriere
della Sera
di lunedì 11 maggio, con quello odierno di Luigi Ferrarella, sempre
sul Corriere
della Sera
(Il
malessere delle sentenze),
e con la lettera di Giuseppe Maria Berruti sul numero de la
Repubblica
oggi in edicola (Quando
le sentenze rallentano la politica)
direi che siamo al punto in cui alla giustizia si chiede un po’
troppo, comunque assai di più di quanto spetti alla politica per suo
diritto.
Prima di passare
al commento di questi altri due contributi sul tema, però, mi è
necessaria una precisazione riguardo a un termine che ho usato anche
nel post qui sotto e che ha incontrato un’obiezione da parte di un
lettore. Infatti ho parlato di «giudici»
includendo nel termine sia i togati che nei tribunali amministrativi,
civili e penali provvedono a far rispettare le leggi per come esse
sono, sia quelli che siedono nella Consulta e che invece le
sottopongono al vaglio di costituzionalità: espediente lessicale che
intendeva mantenere la genericità di critica che Belardelli muoveva
alla «giustizia», senza alcuna distinzione
di funzione e di ruolo, per la sentenza della Corte costituzionale
che dichiara l’illegittimità
di un decreto sulle pensioni, per quella di un Tribunale penale che
ordina la
chiusura di una fabbrica responsabile di danni ambientali e alla
salute dei cittadini, per quella con la quale un Tar solleva
eccezione alla sospensione di un sindaco. Per quello che sarà
necessario al commento di ciò che scrivono Ferrarella e Berruti
potrò risparmiarmi la «confusione»
che ho ingenerato col parlare di «giudici», in senso
conseguentemente
lato: entrambi sembrano voler appuntare l’attenzione
in modo pressoché esclusivo sulla decisione della Consulta sul
taglio
delle indicizzazioni delle pensioni che era nel cosiddetto
Salva-Italia del governo Monti, e a buon motivo, perché, da un lato,
pretendere che la politica sia forte al punto da interferire con la
giustizia sull’applicazione
delle leggi era una «fluttuazione»
francamente eccessiva (in
ciò è da segnalare che l’articolo
di Ferrarella sembra voler riaggiustare il tiro di Belardelli) e,
dall’altro,
è il «buco»
che Renzi viene a trovarsi in cassa a costituire un handicap
oggettivo all’autonomia
delle decisioni politiche.
Col rischio di apparire malizioso, la
dozzina di miliardi di euro che dovrebbe andare ai pensionati azzera
il millantato tesoretto col quale il premier intendeva issare un palo
della cuccagna in vista delle elezioni regionali: quando a un premier
che galleggia su una nuvoletta di chiacchiere togli la possibilità
di raccattare consensi elargendo mance (vedi il caso degli ottanta
euro alla vigilia delle scorse elezioni europee), allora sì che la
politica – questo tipo di politica – oggettivamente si
indebolisce. Così riaggiustato il tiro, la questione può avere
anche una sua dignità, e dunque possiamo passare alla lettura di
Ferrarella e di Berruti. Il primo, ammettendo implicitamente (non
saprei dire se si tratti solo di un espediente retorico) che la Corte
costituzionale si è limitata a difendere dei diritti, si chiede
«quanti
diritti ci possiamo permettere», «quale dose di giustizia può
tollerare il nostro assetto sociale ed economico» e, col concedere
che «fino a pochi anni fa una simile domanda sarebbe suonata
bestemmia», sembra farci intendere che sono finiti i tempi in cui
diritti e giustizia erano garantiti dalla Costituzione, perché oggi
sarebbe più opportuno lasciar decidere all’esecutivo
quanto ne ce tocchino di volta in volta. «Cambiano infatti i casi,
ma il denominatore comune resta che la giurisdizione è sottoposta a
una pressione sociale molto più insidiosa di passate grossolane
ingerenze politiche»: in sostanza, con Berlusconi erano «ingerenze
politiche», per giunta «grossolane», con Renzi è «pressione
sociale». Suppongo, infatti, che in questi giorni abbiate visto le
strade piene di gente incazzatissima per la sentenza della Corte
costituzionale. No? Vabbè, sarà che affollava solo Via Solferino.
Come il lettore mi auguro abbia inteso, non riconosco all’articolo
di Ferrarella altro intento che ammorbidire la posizione di
Belardelli, per sottrarre il Corriere
della Sera
all’accusa di aver virato troppo in fretta il giudizio sull’azione
del governo, ieri guidato da un «caudillo maleducato» (De Bortoli)
e oggi impedito nel fare «una determinata scelta di politica
economica e sociale»
(Belardelli). È quella che passa per moderazione.
Di peso
notevolmente maggiore è ciò che scrive Berruti in forma di lettera
al direttore, e per «peso» intendo «grave», tanto più grave se
si tiene conto che il mittente è presidente di una sezione della
Cassazione, a indizio che anche tra i «giudici» (e qui rimando
all’accezione
cui facevo cenno prima) comincia ad esserci chi è sensibile alle
ragioni di un esecutivo che, all’indomani
di una sentenza della Consulta che ripristina dei diritti violati,
già si arrabatta a cercare il modo per aggirarla, lamentandosi
intanto che quella sentenza «fa perdere credibilità al paese in
sede internazionale» (Renzi).
Berruti scrive: «Si può dire: ma la
legge è legge, la Costituzione è nota e i governi debbono sapere i
limiti dei possibili impegni. Risposta ipocrita. I governi operano
nel presente economico e politico. Nell’attimo,
data la velocità dei mercati finanziari che richiedono risposte che
operano sul piano della pura percezione. In realtà, il problema del
contrasto tra la decisione giudiziaria, che opera su un dato di
certezza giuridica e quindi di immutabilità delle posizioni a regole
immutate, e la decisione politica che risponde alla relazione di
forza, esiste».
Sì, senza dubbio esiste, ma come andrebbe risolto?
Non con mutare le regole caso per caso, voglio sperare, né col
performarle in modo che al governo sia concesso di decidere un po’
come cazzo gli pare, sicuro che il principio di forza maggiore
giustifichi la sospensione della norma scritta. No, possiamo tirare
un sospiro di sollievo, neanche Berruti vuole questo, anzi, dice che
lo «preoccupa uno scenario che affidasse al governo poteri decisivi
e non ostacolabili». E allora? Quale sarebbe la soluzione? Non lo
dice. Dice che la democrazia «sta cambiando» (e su questo siamo
d’accordo,
basta constatare – per riprendere Ferrarella – che oggi si lavora
a rendere tollerabile la «bestemmia»), e che dunque «è urgente
una riflessione politica». Penserà mica a una Consulta i cui membri
siano scelti tutti dal governo? Ci guadagneremmo solo in tanto
shabadabadà.
martedì 12 maggio 2015
[...]
Per
Colin Crouch, che ne ha coniato il termine, la postdemocrazia
è una democrazia formale svuotata in modo rilevante di quanto in
partecipazione,
rappresentanza e decisione è sottratto ai cittadini da oligarchie di
burocrati,
tecnocrati, lobbisti, attori dell’alta
finanza, potentati economici multinazionali, organismi
intergovernativi e operatori nel campo dell’informazione.
E i giudici? Non ne fa cenno, neanche di striscio. Cosa pensare, dunque, di chi segnala il
rischio di postdemocrazia nella sentenza della Consulta che boccia
come incostituzionale il taglio delle indicizzazioni delle pensioni
incluso nel decreto cosiddetto Salva-Italia del governo Monti? È una
sentenza – dice – che causa uno «svuotamento
dell’autonomia di decisione dei governi democratici che ha indotto
alcuni a parlare
di postdemocrazia».
E chi, di grazia? D’altronde,
come avrebbe potuto parlarne, se non impropriamente, visto che con
postdemocrazia non si intende affatto uno svuotamento dell’autonomia
dei governi, ma delle prerogative che una democrazia sostanziale
assegna ai cittadini? «Non
c’è praticamente giorno – dice – in cui non
compaia qualche nuova notizia a ricordarci come molte decisioni
politiche a livello nazionale o locale dipendano dalle pronunce di un
tribunale amministrativo, civile, penale, oppure, come nel caso che
occupa le cronache di questi giorni, della Corte costituzionale».
E sarà che il ceto politico non sa prendere decisioni che non
cozzino con le leggi dello Stato, sicché accade che le infrangano: i
tribunali dovrebbero lasciar correre? Dove sarebbe il rischio per la
democrazia sostanziale, se la giustizia
si limita a dichiarare illegittime le decisioni del ceto politico che
riesce a dimostrare illegittime? Il
rischio – dice – sarebbe la «giuridicizzazione
della politica».
Ma a limitare il vaglio di legalità che i tribunali operano sulle
decisioni del ceto politico non si avrebbe di converso una
politicizzazione del diritto? E qual è il rischio maggiore?
Poi
uno smette di leggere e pensa. Pensa che in
Italia non c’è
mai stata una vera borghesia, ma solo un ceto quanto mai pleomorfo di
pezzenti più o meno arricchiti, per lo più incolti e felloni,
senz’altra
preoccupazione che cavalcare l’onda,
ma mai troppo vicino alla sua cresta, per non finirne sotto al suo
schiantarsi. Pensa che della stessa pasta è anche chi scrive sul
giornale di questa borghesia. Giornale che ad ogni onda cambia il
direttore, come di tanto in tanto certi animali a sangue freddo
cambiano pelle, ed ora ne ha uno nuovo, perché l’onda
renziana monta e non è il caso di farsi trovare impreparati. È la
stagione che celebra il ritorno dell’uomo
forte e, finché dura, in Via Solferino si suonerà la musica che
Renzi vuol sentire, sennò si incazza e manda un sms risentito. E
allora gli si suona la musica che vuol sentire.
Emmanuel Carrère, Il Regno, Adelphi 2015
Nel
1990 fu toccato dalla fede, ma durò solo tre anni. In quei tre anni,
su una ventina di quaderni, stese un commentario degli Atti
degli Apostoli.
A due decenni di distanza rimette mano al materiale per un’indagine
sul cristianesimo primitivo. Non si capisce se per alleggerirla o
appesantirla, ci infila moglie, madrina, psicoanalista, baby-sitter,
Philip Dick, un video porno amatoriale e soprattutto molto, troppo,
di se stesso. Difetto tutto francese, quello di dipingere pure sulla
cornice. Poco male, perché il libro, liberato dall’inutile, resta
una discreta opera divulgativa che ai pigri risparmia il Theissen, il
Lortz, il Vögtle... Scrittura agile, due o tre brillanti
osservazioni che rivelano una discreta capacità di cogliere la
psiche del I secolo, una leggera inclinazione alla ruffianeria verso
il lettore che tuttavia più che irritare intenerisce. Insomma, vale
la pena di leggerlo.
domenica 10 maggio 2015
Un po’ mi pento
Un
po’
mi pento del post qui sotto, ma ormai è fatta, mi serva da lezione
per le volte – rare, in verità – che cedo alla tentazione di
ritenere in buona fede un uomo di merda. Nel post qui sotto
ipotizzavo che, nell’affermare
che «la
differenza di mortalità tra chi la fa e chi non si sottopone alla
mammografia ogni due anni è di due su mille»,
Grillo riproducesse – con colpa, certo, ma non necessariamente con dolo –
l’errore
commesso da Gotzsche e Olsen in uno studio apparso su Lancet
nel gennaio del 2000, errore già ampiamente dimostrato tale, da subito, e
tuttavia di tanto in tanto riproposto da qualche autore, anche se non più in là del
2006, per essere regolarmente e tempestivamente segnalato come un granchio di analisi statistica. Ipotizzavo che la questione potesse essere risolta scendendo
nel merito, chiedendo a Grillo da quale fonte avesse attinto per
uscirsene con quella cazzata, per dimostrargli che si trattava di un
farlocco, che per giunta aveva pure digerito male, rivomitandolo nel
modo più osceno. Bene, sbagliavo. Che Grillo sia in patente malafede
è dimostrato dalla rettifica che segue ad appena dodici ore: «Non
penso che la mammografia non sia utile o necessaria. Anzi penso che
sia utilissima. Ce l’avevo con la cattiva informazione che fa
credere che facendo questo esame non venga il tumore».
Dodici ore fa ne salvava solo «due
su mille»,
ora è «utilissima»?
Non ammetti che hai detto una stronzata, nemmeno citi la fonte dalla
quale l’hai pescata per tentare di strappare un’attenuante, e che
fai, rivolti la frittata? E poi dove l’hai letto che la mammografia
è spacciata come un vaccino antineoplastico invece che essere
consigliata come indagine diagnostica? No, non meriti nemmeno di essere corretto: meriti solo fumanti palle di letame.
Is screening for breast cancer with mammography justifiable?
Ho
provato a cercarlo, volevo passarlo allo scanner e metterlo qui
sopra, ma chissà dove si sarà ficcato, insomma, non l’ho
trovato. Parlo di un articolo che fu pubblicato su Il
Mattino –
non so essere più preciso – negli ultimi mesi del 2000, tutt’al
più nei primi del 2001. Era su tre o quattro colonne, e il titolo
diceva pressappoco: «Uno
studio rivela che la
mammografia è inutile».
Nel testo si parlava del lavoro di Peter Gotzsche e Ole Olsen che era
uscito qualche mese prima su Lancet
(Is
screening for breast cancer with mammography justifiable? –
355/2000,
pagg. 129-134) e che presto aveva sollevato una furibonda polemica
sulla sua perentoria affermazione conclusiva che «screening
for breast cancer with mammography is unjustified».
In realtà, già su quello stesso numero di Lancet,
nella sezione dei commenti editoriali, Harry de Koning spiegava con lodevole
chiarezza – per quanto possa esser chiara una controargomentazione in ambito statistico – perché il lavoro fosse viziato da un metodo scorretto e da
una errata interpretazione dei dati. Il guaio è che lo faceva in modo
estremamente civile, sicché la critica, ineccepibile nei contenuti, parve sofficissima. Di fatto,
le contestazioni che negli anni successivi sono state mosse da gran
parte del mondo scientifico a chiunque riproducesse
analoghi difetti di metodo e di analisi per arrivare a conclusioni sostanzialmente simili a quelle di
Gotzsche e
Olsen (uno per tutti: Anthony Miller, Is
mammography screening for breast cancer really not justifiable?,
Recent
Results in Cancer Research,
163/2003, 115-128) erano già tutte nelle obiezioni di de Koning. La realtà è che lo screening torna di estrema utilità, e con un abbattimento
della mortalità che varia dal 30 al 63% secondo la popolazione presa
in oggetto per fascia di età. Purtuttavia sembra che a chi voglia
mettere in discussione un dato indiscutibile e per giunta con argomenti ormai ampiamente
destituiti di ogni fondamento – è il caso del Il
Mattino,
quindici anni fa, e di Grillo, ieri – non manchi mai l’opportunità di farsi sentire, persino di farsi ascoltare, coi danni che non è difficile immaginare. È che, per sua natura, la bufala ha radici profonde e robuste, non la si estirpa senza scavare fino in fondo. Invece di urlare a Grillo che è uno sconsiderato – sulla qual cosa non c’è dubbio, ma dirglielo non risolve niente – gli si chieda la fonte dalla quale ha attinto, gli si chieda di difenderne l’attendibilità a fronte di ciò che la confuta senza possibilità di appello.
sabato 9 maggio 2015
[...]
«Con
l’Italicum
adesso Cameron dovrebbe andare al ballottaggio», s’affretta
a far presente Renzi, e questo dà ennesima conferma di quanto sia
cazzaro, perché nel Regno Unito c’è
il maggioritario e il bicameralismo, e già questo rende impossibile
ogni paragone con l’Italia, tacendo della separazione tra il potere esecutivo e quello legislativo che lì è assicurata da secoli e che qui di fatto con l’Italicum andrà a farsi fottere.
venerdì 8 maggio 2015
Soft o, se preferite, light
Per
quanto il tempo possa cambiare anche profondamente il significato che
un termine ebbe in origine, nel suo significante resta immutata,
anche se solo in parte, e a volte esigua, l’evocazione
a ciò che il tempo ha tradito. Così è col termine partito,
che non bisogna affaticarsi troppo per capire tragga il significante
dalla parte di un
tutto, e che nell’espressione
partito della nazione tradisce il suo significato originario
per l’accostamento di un termine
che gli è antitetico, nella
costruzione di un ossimoro, cioè di una figura retorica che ha fine
eminentemente esornativo e provocatorio. Nel porci la questione di
cosa possa significare partito della nazione,
dunque, occorre chiederci quale sia l’oggetto
col quale si vorrebbe destare in noi la meraviglia per una sintesi
che la logica ci dice impossibile, e a quale abbellimento è
sottoposto per convincerci sia sintesi felice. Non possiamo far altro
che analizzare i cambiamenti che il tempo ha prodotto a carico di due
significanti come partito
e nazione.
C’è
stato un arco storico relativamente ampio – diciamo dalla metà del
Settecento alla metà del Novecento – nel quale al termine partito
non si è più dato il significato
prevalentemente negativo di fazione
che aveva prima e che ha riacquistato dopo. Col venir meno di una
visione organicistica della società, infatti, si è smesso di
avvertire come deleteri i contrasti che impegnano le fazioni avverse
presenti in essa, anzi, si è cominciato a sentirli come fisiologici,
fino ad arrivare a considerarli un vero e proprio motore di
democrazia e di progresso. È la stagione storica, questa, che vede
il trionfo del principio maggioritario, che ai partiti assegna il
ruolo di competitori per la guida di una nazione, riconoscendo ad
essi la legittimità di rappresentare i molteplici e contrapposti
interessi che accomunano differenti gruppi di individui. È per
questo che la struttura del partito riproduce giocoforza quella di un
esercito, ma qui il fine è la conquista della maggioranza dei
consensi, grazie alla quale è assicurato il ruolo di governo, mentre
a chi esce perdente dalla competizione è assegnato il ruolo
dell’opposizione,
alla quale viene riconosciuto e assicurato il diritto di ribaltare
gli esiti della battaglia persa col libero esercizio della
persuasione sull’opinione
pubblica.
Per
il ruolo che una fazione viene così ad assumere in questo contesto,
il fatto che un partito possa restare associazione privata, senza
personalità giuridica, e nel contempo avere il monopolio della
funzione pubblica che attraverso le elezioni esprime la guida del
governo, è premessa ad ogni deviazione del sistema partitico delle
cosiddette democrazie di massa in forme di parassitamento e abuso
della funzione di rappresentanza, e di queste deviazioni ne abbiamo
un lungo elenco, che qui non sarà il caso di ristendere: per
rispondere alla domanda che ci siamo posti – cosa c’è
dietro la sintesi impossibile che ci è spacciata con l’ossimoro
di un partito della nazione?
– basterà citare solo la trasformazione della leadership in
proprietà di fatto dell’organizzazione, della dirigenza in
comitato elettorale, della militanza in mero catalizzatore di
clientela e fidelizzazione, dell’elettorato in platea di
consumatori di un prodotto mediatico.
La sintesi impossibile offerta
da un partito della nazione,
dunque, si inscrive in tale contesto come proposta di una sospensione
di ogni conflitto sociale, assicurata dalla meraviglia di un ossimoro
che in realtà è una metonimia: la parte pretende di essere il
tutto, di poterlo interamente rappresentare in modo organicistico,
con la coincidenza di leader in partito, di partito in nazione e di
nazione in stato. Probabilmente la pace sociale avrà la forma di un nuovo corporativismo. Possiamo anche evitare di chiamarlo fascismo, così
ci evitiamo le sarcastiche punture delle piattole che pullulano nelle
sue più comode pieghe, ma il progetto è quello della sospensione
delle più elementari dinamiche democratiche, surrogandone le cinetiche col cliccare un like alle parole d’ordine lanciate on line dal leader del Partito della Nazione. È il progetto di un totalitarismo che
si offre soft o, se preferite, light. Ma è totalitarismo.
[...]
Visto
che già da qualche tempo va prendendo piede l’uso
del termine renzismo,
credo non sia affatto superfluo cercare di darne una definizione sul
piano lessicale, sicché al netto di ogni giudizio in merito si possa
concordemente convenire su cosa esattamente sia. Ora, se per
definizione
è da intendersi l’individuazione
e l’illustrazione
delle proprietà essenziali che danno piena ragione della relazione
funzionale tra significante e significato, che poi sarebbe la
definizione di definizione
che più compiutamente dà conto di ontologia, logica e linguaggio,
il nostro tentativo non può procedere che dal decidere in quale
categoria di termini che sfruttano il suffisso -ismo
sia più opportuno collocare il renzismo.
Con l’-ismo,
in questo caso, saremmo dinanzi a una dottrina?
Penso si debba escluderlo. Nulla, infatti, nel renzismo
rimanda ad un organico sistema di principi, anzi, direi che in questo
caso ne sia esplicito il rigetto, per la rigidità che sempre
caratterizza un simile costrutto. Il renzismo,
infatti,
rivendica con orgoglio il rifiuto della dimensione ideologica, e
dunque è quanto mai distante da qualsivoglia impianto di tipo
dottrinario, in favore, al contrario, di un insieme di assunti
valoriali – chiamarli principi sarebbe improprio – così
eclettico, mobile e disarticolato da rendere del tutto vana la
ricerca di un criterio che dia ad essi una struttura sistematica. E
allora, se non è una dottrina, cos’è
il renzismo?
In quale categoria di termini che sfruttano il suffisso -ismo
è da porre? Direi
non abbia a trovar posto nella
categoria di termini che indicano movimenti religiosi, filosofici,
letterari, artistici, tanto meno in quella che include fenomeni
fisici, funzioni organiche, processi naturali, ecc. Rimangono solo
due categorie, ma entrambe molto eterogenee, per giunta con un’ampia
area di intersezione. Anticipo fin d’ora
che a mio modesto avviso il renzismo
si situi proprio in questo sottoinsieme comune alle due categorie di
termini che ancora non abbiamo preso in considerazione, e cioè a
quella che include fenomeni sociali – dunque anche politici, seppur
nell’accezione
più ampia del termine – e a quella nella quale troviamo tutto
l’ampio
spettro delle configurazioni caratteriali che sono oggetto della
riflessione morale e di quella psicologica. A scanso di equivoci,
però, è bene precisare che quando la politica rigetta la dimensione
ideologica – e questo, come abbiamo già detto, è il caso del
renzismo
– accade giocoforza che sia portata a dare notevole risalto ai
tratti della narrazione individuale o collettiva che va a surrogarne
l’elemento
identitario, indispensabile a darle una cifra che serva a farla
riconoscere, e questo, di regola, implica la fondazione di uno
statuto
etico-estetico, il quale, a differenza di una Weltanschauung,
non è tenuto a darsi una logica di sistema. Ne consegue che l’-ismo
perderà,
allo stesso tempo, sia ciò che conferisce peculiarità di
connotazione sul piano della teoria politica, sia ciò che consente
l’individuazione
descrittiva di un profilo morale o psicologico. Con ciò siamo
nell’area
di intersezione cui facevo cenno prima, e il renzismo
vi si inscrive a pieno titolo proprio in virtù di questa doppia
perdita: patente inclinazione a esplicitarsi tutto nei mezzi
piuttosto che nei fini, con ciò esaurendo in mera postura tattica
una ambivalente, quando non ambigua, contraddittoria e perfino
confusa, posizione politica; ipertrofia del carattere in maschera,
con ciò che ne consegue in fissità e regressione della
configurazione morale o psichica del modello che si accredita.
giovedì 7 maggio 2015
Robe incredibili
Certo,
chi gestisce il traffico dei migranti nel Mediterraneo li stipa su
barconi più o meno come nei secoli passati i negrieri stipavano
sulle loro navi i disgraziati che deportavano dall’Africa
per venderli come schiavi ai proprietari delle piantagioni di cotone
in Alabama, ma usare il termine «schiavismo»
per definire il fenomeno delle migrazioni è manifestamente
improprio, perché lo schiavo era strappato a forza dalla terra
dov’era nato, mentre il migrante
fa di tutto per abbandonarla, e per necessità, senza dimenticare poi
che lo schiavo era merce di scambio tra un venditore e un acquirente,
mentre nel caso del migrante è lui che paga, e per un posto a bordo del
natante. Definire «schiavismo»
il trattamento cui sono sottoposti i migranti che dalle coste
dell’Africa
settentrionale arrivano in Italia,
insomma, è una stronzata.
Per meglio dire, lo era fino a ieri. Oggi un ministro dichiara di avere in testa l’ideuzza
di emanare una circolare che autorizzi i comuni cui sono destinati i migranti
che arrivano in Italia a farli lavorare, ma a gratis. Siamo dinanzi a un bell’esempio
di ribaltamento della logica piana: visto che il termine «schiavismo»
è improprio a definire la condizione dei migranti, non lo si evita,
ma si trasformano i migranti in schiavi. Un po’
come se a me scappasse di dire –
sia chiaro che è un’ipotetica del terzo tipo, non mi permetterei
mai nei confronti di un ministro – che
un’idea del genere è da vero stronzo, e non avessi neanche il tempo di dirmi mortificato e di chiedere umilmente scusa perché subitamente il
ministro mi diventa approssimativamente cilindrico e sostanzialmente
marrone. Robe incredibili.
mercoledì 6 maggio 2015
Avrà tanti limiti, Civati
Con
una legge elettorale come l’Italicum mi ero riproposto di saltare
il primo turno, per limitarmi a votare solo in caso di ballottaggio,
e in quel caso per votare chiunque sulla scheda mi sarei trovato
opposto a Matteo Renzi, anche un Beppe Grillo, anche un Matteo
Salvini, anche un Silvio Berlusconi. Intenzioni che almeno in parte
mi sento costretto da subito a rivedere per la decisione annunciata
oggi da Pippo Civati: al primo turno voterò lui, in qualsiasi lista
sarà candidato, qualunque sia il suo programma elettorale. Lo voterò perché la decisione di lasciare il gruppo
parlamentare del Pd e le motivazioni che accompagnano questo passo conferiscono alla
sua persona, seppur retrospettivamente, dimensioni eccezionali in
tutta la storiaccia che si è conclusa con l’approvazione
dell’Italicum, e so che può sembrare esagerato, ma si tenga conto
che il livello medio della dignità morale e politica espressa dai
parlamentari del Pd è stato pressappoco all’altezza
di un
Gennaro Migliore. Non farò mistero del fatto che dargli il mio voto servirà pure, e in buona misura, a risarcirlo di un’opinione non del tutto benevola che mi ero fatto sul suo conto: significa pure saldare un debito. Avrà tanti limiti, Civati, ma da oggi, almeno ai miei occhi, ha acquistato un merito enorme.
Sull’analogia
Opinioni
che potremmo stringare in formule del tipo «quella
di Carminati è (o non è) mafia» o
«quello di Renzi è (o non è)
fascismo» sollevano sul piano
retorico la questione dell’uso
proprio (o improprio) dell’analogia.
A tal riguardo, com’è
buona regola in ogni controversia, occorre chiarire la natura e la
funzione di ciò che è in discussione,
rammentando che nel discorso l’analogia «differisce dalla proporzione puramente matematica, in quanto non pone
l’uguaglianza
di due rapporti, ma afferma una somiglianza di rapporti, [sicché]
mentre in algebra si
pone a/b=c/d, [e]
ciò consente di
affermare per simmetria che c/d=a/b e di effettuare su questi termini
operazioni matematiche che daranno luogo ad equazioni come ad-cb = 0,
nell’analogia
si afferma che “a”
sta a “b”
come “c”
sta a “d”,
[e]
dunque non si tratta più di una divisione, ma di un rapporto che
viene assimilato ad un altro rapporto, [di
modo che] fra la coppia
“a-b”
(il tema dell’analogia) e la coppia “c-d”
(il foro dell’analogia) non si afferma un’uguaglianza simmetrica,
ma un’assimilazione che ha per fine quello di chiarire, strutturare
e valutare il tema grazie a ciò che si sa del foro»
(Chaїm
Perelman, L’empire
rhétorique. Rhétorique et argumentation,
1977).
Posta questa premessa, dovrebbero cadere le obiezioni che
contestano le legittimità dell’analogia
nei casi sopra presi a esempio con controargomentazioni che potremmo stringare in formule del tipo «gli uomini di Carminati non
avevano coppola e lupara» o «Renzi non ha squadracce che
scorrazzano in lungo e in largo per l’Italia
con olio di ricino e manganello»: tema e foro non stanno in relazione
di uguaglianza, ma di proporzione, la quale, dunque, non cade dinanzi
all’ovvia
constatazione che nulla somigli mai del tutto a null’altro,
non foss’altro
perché nulla somiglia mai del tutto neppure a se stesso nel corso
del suo divenire, come
d’altronde è nel
caso della mafia e nel caso del fascismo.
L’analogia
– sarà il caso di dirlo in modo esplicito – non pretende che sia
attestata una peraltro sempre impossibile coincidenza, ma che sia
riconosciuta quella serie di elementi che realizzino una puntuale
relazione tra tema e foro, conservando per ciascuno una congrua
proporzione. L’analogia, insomma, cade solo con la dimostrazione che questo tipo di relazione non abbia sostegno, non già che non sia in grado di comprovare una perfetta coincidenza tra tema e foro. Rigettando la liceità della naturale funzione che l’analogia ha nel discorso, si dimostra
di temerne l’efficacia.
E il tentativo di delegittimarla come strumento improprio rivela
l’incapacità
di contestarne l’uso che una corretta argomentazione non le preclude.
martedì 5 maggio 2015
L’unica via
Dieci
anni fa, di questi tempi, infuriava la battaglia sulla legge 40...
Ok, «infuriava la battaglia» è bassa retorica, correggo subito...
Dieci anni fa, di questi tempi, mancavano pochi giorni al referendum
sulla legge 40, e da un lato c’era chi voleva ne fossero abrogati
almeno i punti che la rendevano tra le più stronze e crudeli della
storia repubblicana, sgolandosi ad urlare dello scempio che
infliggeva al buonsenso e alla Costituzione, mentre dall’altro
c’era chi l’aveva
voluta e, con assai miglior
polso del paese, sapendo bene che da un popolo di merda il consenso
non si ottiene invocando la logica e in nome dei principi, anzi,
puntò sul vincere la partita senza combatterla nemmeno, sommando
cinismo e strafottenza, per impedire che si raggiungesse il quorum.
Sappiamo come andò: il quorum non fu raggiunto, la legge restò in
vigore, e tutti, o quasi, a cantar lodi al cardinal Ruini, gran
figlio di puttana, e perciò politico sopraffino. Sappiamo pure che
fine ha fatto, in questi anni, la legge 40: smontata pezzo a pezzo da
una dozzina di sentenze della Cassazione, ne resta in piedi solo il
poco che sta a memoria della
feroce idiozia
che le diede vita.
Ma forse pure raccontarla a questo modo vuol dire
far dell’epica
dove non c’è
che cronaca. Andrebbe raccontata senza metterci passione, come
l’apologo di una delle tante leggi che si scoprono essere
incostituzionali solo dopo aver causato danni incalcolabili.
Leggi
approvate nell’indifferenza pressoché generale dell’opinione
pubblica, che rimane indifferente anche quando è chiamata a
esprimere un parere su di esse. Come è stato col Porcellum, no?
Anche in quel caso il referendum non interessò più di tanto, anche
in quel caso s’è dovuto aspettare una sentenza che lo dichiarasse
incostituzionale.
Non c’è dubbio che così sarà anche per
l’Italicum, la cui approvazione, oggi, incorona Renzi come gran
figlio di puttana, e perciò politico sopraffino. Lo schema – il
solito – si ripropone: un mascalzone scrive una legge a cazzo di
cane, una maggioranza parlamentare di insulse comparse l’approva,
una corte di ruffiani leva al cielo l’osanna
per cotanta vis legislativa, le opposizioni bestemmiano e raccolgono
firme per abrogare l’obbrobrio,
mentre il resto del paese se ne fotte, perché «capolista
bloccato»
è termine incomprensibile almeno quanto «ovocita
fecondato».
Per carità di Dio, raccoglietele, ’ste
firme, ché val la pena spendersi pure per le guerre perse in
partenza. Ma non sperate troppo in quella che chiamate «gente»,
perché ormai da tempo è plebe. Appena sarà pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale, sottoponete l’Italicum
alla Corte Costituzionale: l’unica
via è quella.
lunedì 4 maggio 2015
[...]
Quando
non trattato, l’ipotiroidismo
congenito porta inevitabilmente a gravi forme di ritardo mentale. È
una patetica arrampicata sugli specchi, dunque, concedere che cretino
derivi da cristiano
(fr. chrétien
→ crétin),
ma obiettare che in origine non venisse usato, come oggi accade, per
indicare un individuo di scarsa intelligenza, ma una persona affetta
da cretinismo,
termine che fino a qualche decennio fa era usato proprio per definire
il quadro clinico dell’ipotiroidismo
congenito non trattato. A conferma, tuttavia, che cretino
e cristiano
indichino
una consimile condizione di deficit mentale c’è
quella nota acquiescenza del cretino alle derive autoritarie che nel
cristiano trova ragione nel «non
c’è
autorità se non da Dio»
(Rm
13, 1). Certo, Paolo l’avrà
detto per dare un’aria
inoffensiva ai suoi e per strappare un po’
di tolleranza a Nerone, fatto sta che il monito a sottomettersi
all’autorità,
perché chi vi si oppone «si
oppone all’ordine
stabilito da Dio»
(Rm
13, 2), tornò utile dopo il patto stretto tra trono e altare, sicché
potremmo dire che da chrétien
si passa a crétin
quando l’acquiescenza
a questo o quel tiranno perde la funzione di trasporre l’intesa
tra Stato e Chiesa nella coincidenza di obbedienza nel suddito e nel
fedele, per diventare il riflesso condizionato che porta a vedere in
ogni dittatore un Uomo della Provvidenza. Quando questo passaggio si
è compiuto, non ha più alcuna rilevanza che il cretino sia anche
cristiano, perché sarà acquiescente alla dittatura anche in quei
rari casi in cui la Chiesa non vi avrà stretto un concordato, e
tuttavia in lui resta l’adorazione
della forza come manifestazione del divino. Il lungo ragionare per
venticinque secoli su come la forza si legittimi in potere, e su come
il potere si legittimi in autorità, non gli appartiene: ogni ipertiroideo gli sembra Dio.
domenica 3 maggio 2015
sabato 2 maggio 2015
[...]
L’idea
di cambiare il «siam
pronti alla morte»
dell’Inno
di Mameli
con
un «siam
pronti alla vita» è
d’una
imbecillità che s’apparenta
a quella di mettere la lancetta dei minuti all’orologio di Palazzo
Vecchio (ricordate?), dunque è probabile che l’Italia
renziana l’adotterà
in via definitiva. Resta la questione della rima con «stringiamci
a coorte»,
che così salta, ma, se tanto mi dà tanto, probabilmente si provvederà con un
«partiam per la gita» o un «la cena è servita».
venerdì 1 maggio 2015
L’uovo del serpente
Più
o meno un anno e mezzo fa ho scritto che sarebbe «buona
norma, quando si polemizza, essere onesti con gli altrui argomenti e
usare toni garbati»,
ma che purtroppo questo «non
sempre è possibile»,
perché «spesso
fallacia chiama fallacia, sarcasmo chiama sarcasmo, e qualche volta
la polemica degenera in rissa»,
sicché, «quando
voglio evitare che questo accada, e tuttavia sento irrinunciabile la
polemica avverso una tesi che ritengo insostenibile»,
ho l’abitudine
di «prendere
in considerazione solo gli argomenti che in sostegno di quella tesi
sono prodotti da persona di riprovata onestà intellettuale e
d’indole affabile».
Eccomi, dunque, a prendere in considerazione gli argomenti che
Formamentis
ritiene destituiscano di fondamento la mia convinzione che Matteo
Renzi costituisca un grave pericolo per la democrazia, non prima però
di confessare di essere lieto che Formamentis
abbia voluto che questo scambio di opinioni sia pubblico, per darmi
modo di ricalibrare meglio il giudizio estremamente duro che ho
espresso su chi la pensa come lui, e che mi ha procurato alcuni
severi rimproveri. Qualche giorno fa, infatti, ho scritto che
considero un «fiancheggiatore»
di Matteo Renzi chiunque minimizzi la gravità delle sue
scelleratezze, soprattutto poi se col sarcasmo nei confronti di chi
le ritenga articolate in un processo di deriva autoritaria teso a
fare della democrazia formale un guscio vuoto di ogni sostanza, né
sono riuscito a trovare attenuanti alla buona fede che concedevo
possa pure motivare questa complicità di fatto, perché l’ho
definita, seppur con sofficissime perifrasi, da fessi: quei fessi che
non sono mai mancati a sottovalutare i prodromi di ogni catastrofe,
pensando che bastasse toccarsi le palle per scongiurare i pericoli
segnalati da una Cassandra.
Bene,
per affrontare la questione, Formamentis
è l’interlocutore
ideale. Tutto è meno che fesso. Sa polemizzare senza incorrere in
scorrettezze. Nel
post col quale mi interpella,
poi, quasi a far presente che non ha alcuna intenzione di cedere al
sarcasmo, propone che la discussione abbia uno scanzonato registro
ironico e autoironico. Infatti attacca così: «Ne
discutevo oggi con Luigi: stiamo scivolando verso una dittatura
mascherata, finiremo come la Bielorussia? Questo non credo».
«Questo
non credo»:
nell’uso
di una frase che evoca il Razzi di Crozza vedo l’invito a toni
leggeri, che accetto con piacere. E dunque: (1) «che
ci sia in questo momento una posizione dominante di Renzi è
evidente, ma questo principalmente per la pochezza degli avversari»;
(2)
«quella
di Renzi non la vedo come un’egemonia
tale da impedire la riorganizzazione e la futura affermazione
dell’avversario,
[...] ma a questa alternativa si dovrà pur dare il tempo di
riorganizzarsi»;
(3) «io
penso che la democrazia oggi si trovi svuotata non tanto da Renzi
quanto dalle stringenti necessità del sistema economico e
finanziario con le quali si trova a fare i conti»;
(4) «mi
piacerebbe capire cos’è
democrazia per Luigi: quando possiamo sostanzialmente esserne certi,
quando da forma ridiventa sostanza».
Temo che l’ultimo
punto mi prenderà un po’
di tempo, ma per i primi tre credo si possa fare in fretta.
E dico
subito che sono d’accordo:
al momento, Renzi non ha avversari in grado di opporglisi
efficacemente. D’accordo,
ma questo in cosa costituirebbe argomento ad escludere che la sua
forza possa essere impiegata per renderne irreversibile la
preponderanza? Se io sono fisicamente assai più forte di
Formamentis,
questo renderà possibile o meno che io lo massacri di botte, tutt’è
vedere se lo faccio, se minaccio di farlo o se semplicemente abuso
della possibilità di farlo per impedirgli in qualche modo di
acquistare forza pari o superiore alla mia. È sulle azioni di Renzi,
dunque, che va valutato l’uso
che egli intenda fare della sua forza e a me pare che nel metodo e
nel merito sia indiscutibile che le intenzioni non siano delle
migliori. L’armamentario
caratteriale, attitudinale e comportamentale è quello del despota
cinico, spregiudicato, vendicativo, smisuratamente ambizioso, con una
irrefrenabile smania di accentramento del potere nella sua persona,
cui non manca neanche uno dei tratti che sono distintivi della
personalità pesantemente disturbata dalle caratteristiche pulsioni
del mentitore abituale, del manipolatore, del narcisista, del sadico,
che costituiscono la configurazione psicopatologica costante in ogni
dittatore. Se posso esprimermi con un’immagine,
direi che Renzi sia l’uovo
del serpente. Posso concordare anche sul fatto che a covarlo possano
essere state le circostanze storiche – certo, accade così per ogni
tiranno, non è che dipenda dal segno zodiacale – ma questo in cosa
lo rende meno pericoloso? Dovremmo trattarlo da epifenomeno e
tollerarlo come sintomo di un febbrone che deve fare il suo naturale
decorso? Non escludo che qualcuno possa obiettare che le suddette caratteristiche siano in vario grado riscontrabili in ogni professionista della politica e in ogni amministratore della cosa pubblica, per cui trovarle così marcatamente rappresentate in Renzi sarebbe prova dell’eccezionalità di doti che sono necessarie e intrinseche al ruolo. Bene, penso che questo sia il sintomo più grave della malattia sociale che per prognosi si dà lo stato organico, la coincidenza tra partito e stato, la proiezione di una nazione in un solo uomo. Più che Renzi, disprezzo chi lo ammira come politico. E il disprezzo diventa immenso se lo ammira pure come uomo.
Più
complessa è la risposta alla domanda con la quale Formamentis
chiude il suo post. Qui, dicevo, sarebbe necessario molto tempo, ma
mi rendo conto di aver tediato già abbastanza i nostri lettori,
perciò, con tutti i rischi del caso, mi limito a dire che per me la
democrazia è la condizione nella quale si realizzi la piena
rappresentatività di ogni cittadino nell’esercizio
della sovranità popolare, le cui linee direttrici devono fedelmente
riprodurre le proporzioni di volontà che concorrono a determinarle.
Tanto più la forma della democrazia si riempie di sostanza quanto
meno la rappresentatività venga sacrificata alla governabilità. In
altri termini: quanto meno ciò che la democrazia affida a tutti e a
ciascuno venga requisito da uno o da pochi – o a pochi o ad uno
ceduto – nella sospensione o nella illimitata dilazione della
funzione di controllo. Ma qui è assai probabile che la voglia di
stringere mi abbia fatto incorrere in qualche ambiguità di formula.
Ci ritornerò sopra.
Iscriviti a:
Post (Atom)