venerdì 15 maggio 2015

[...]

«Restituiremo una parte dei soldi nei prossimi mesi» è come dire «rispetteremo solo in parte la sentenza della Consulta ma non subito». Per uno che prima di aprire bocca sulla faccenda ci ha messo una settimana, mandando avanti lacchè e famigli a dire solo «boh», «beh», «bah», è come dire «sto nella merda ma in fondo somiglia a cioccolata».
E non c’è da stupirsene, perché si tratta di uno di quei tizi che, se gli dici «sì, ma è merda», ti dà del disfattista e ti rinfaccia di avere la puzza al naso. 

Ma guarda tu la coincidenza

Ma guarda tu la coincidenza. Arriva unaltra sentenza della Consulta che sembra fatta apposta per rilanciare la questione posta di recente da chi lamentava che «non c’è praticamente giorno in cui non compaia qualche nuova notizia a ricordarci come molte decisioni politiche dipendano dalle pronunce di un tribunale amministrativo, civile, penale, oppure della Corte costituzionale», e lanciava lallarme che sta cazzo di «giustizia onnipresente indebolisce la politica» (Giovanni Belardelli – Corriere della Sera, 11.5.2015); sentenza che sembra fatta apposta per rinnovare la preoccupazione di chi non arrivava a dire che le sentenze non debbano ripristinare i diritti violati se questo mette in difficoltà lo Stato che li ha violati, ma andando per le ellittiche chiedeva «quanti diritti possiamo permetterci?» (Luigi Ferrarella – Corriere della Sera, 13.5.2015); sentenza che sembra fatta apposta per far girare i coglioni a chi diceva che, certo, non si discute, «la legge è legge», però, col mondo che gira sempre più veloce, la giustizia non può essere più «attività di accertamento della legge come è», ma deve diventare «attività di governo dell’esistente», «creazione della regola caso per caso», sensibile alla «necessità politica» (Giuseppe Maria Berruti – la Repubblica, 13.5.2015).
Accade che, dopo averne già abbattuti altri due nel 2009 e nel 2014, la Consulta abbatta un terzo pilastro della legge n. 40 del 19.2.2004 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), della quale adesso resta in piedi poco o niente. Legge che fu approvata da un Parlamento democraticamente eletto. Legge che, peraltro, su quattro dei suoi punti fu sottoposta al vaglio referendario, che non ne corresse neanche una virgola. È un caso, insomma, al quale calza ottimamente il paradigma di una giustizia che indebolisce la politica (anche qui rivelandone le carenze di cultura giuridica), di diritti violati il cui ripristino implica un costo alla collettività (qui non eccessivo, ma comunque a carico del servizio sanitario nazionale), del sacrificare la necessità politica allapplicazione della norma costituzionale così com’è (nel caso di specie, sacrificare all’art. 32 della Costituzione tutto quello che si era guadagnato leccando il culo al cardinal Ruini).
E dunque? Come avrebbe dovuto comportarsi, la Consulta, per evitare che chi ha votato la legge 40 rimediasse l’ennesima figura di merda? Non ne ricava analoga figura anche il Paese che per tre quarti si astenne quando fu chiamato a esprimersi su quella legge, così riconfermandola? Ed è delicato che la Corte costituzionale faccia presente che la volontà popolare, ancorché espressa con la strafottenza, conta meno di niente quando è in patente contraddizione con la Carta? È giusto che adesso il contribuente debba accollarsi anche la spesa della diagnosi pre-impianto per chi il sistema sanitario nazionale solleva da oneri perché non abbiente? In fondo, a stabilire che per il diabete e l’ipertensione passi, ma per la diagnosi pre-impianto è troppo, non dovrebbe essere la politica? E la giustizia, recependo l’esigenza posta dai tempi alla creazione di regole caso per caso, secondo la necessità politica, prima di stendere la sentenza che rinnova il giudizio della legge 40 come legge di merda, non avrebbe dovuto chiedere al Ministero della Sanità se c’era adeguata copertura finanziaria per consentire ad una coppia di poveracci, per giunta portatori di talassemia, di avere un figlio sano?
Domande provocatorie, certo, ma voglio dare per scontato che tali fossero pure le questioni sollevate da Belardelli, Ferrarella e Berruti, sennò neanche ne discutevamo e li mandavamo direttamente a fare in culo. 

giovedì 14 maggio 2015

[...]


«Cultura umanista» invece che «cultura umanistica». «Parliamoci chiari» invece che «parliamoci chiaro». La riforma della scuola spiegata da un piazzista semianalfabeta.

Croccantini

Il giovedì pomeriggio – non di regola come una volta, ma abbastanza spesso – mi capita di bighellonare per le librerie di PortAlba, che un tempo assai di più – oggi, ahimè, quasi per niente – erano pozzi senza fondo di volumi altrimenti introvabili, per giunta venduti a prezzi davvero irrisori, prime edizioni, annate di riviste ormai chiuse da decenni, intere librerie svendute in blocco da eredi allergici alla polvere. Insomma, non è più come una volta che con due soldi a casa ti portavi mezzo scaffale di delizie mai più ristampate, ma intanto labitudine mè restata, e oggi avrei in programma la solita capatina.
Fattè che oggi pomeriggio, a meno di cento metri in linea darea da PortAlba, in uno dei caffè letterari di Piazza Bellini, il mitico Pippo Civati presenta lultimo suo libro. La tentazione di allungarmi per andare a stringergli la mano cè, ma mi conosco, so che farei fatica a trattenermi, comincerei a dargli consigli non richiesti sul lessico e sul look, tra il serioso e la presa per culo, insomma, risulterei sgradevole, anche se a muovermi sarebbe solo – giuro – lenorme tenerezza che il Pippo mi scatena, la stessa tenerezza di quando su Youtube incappo in un video di gattini. E quindi eviterò di allungarmi, per evitare di allargarmi, ma poi, si sa, la tentazione è tentazione, anche perché mi prude una domanda: quando col tipaccio ci facevi le Leopolde, neanche il sospetto ti ha sfiorato di quanto fosse uomo di merda? E so che mi direbbe no, e allora sarà il caso, nel caso, che oggi nella borsa metta dei croccantini.

mercoledì 13 maggio 2015

Ci guadagneremmo solo in tanto shabadabadà

La questione del se e del quanto la giustizia stia indebolendo la politica – ne parlavamo ieri commentando larticolo di Giovanni Belardelli uscito laltrieri sul Corriere della Sera (La giustizia onnipresente che indebolisce la politica) – merita che si faccia un minimo di chiarezza sui termini in cui si pone il problema, sennò a discuterne ingarbugliamo inevitabilmente la matassa.
Senza intrattenerci troppo sui massimi sistemi, direi non ci sia scandalo nel periodico conflitto tra poteri che lo stato di diritto vuole separati e indipendenti: legislativo, esecutivo e giudiziario erano in principio tre funzioni di una sola autorità, quindi è del tutto naturale che di tanto in tanto ciascuno mostri la tendenza ad assorbirne almeno in parte gli altri due, non fossaltro a rammentarci che, se vuol esser mantenuto, lo stato di diritto necessita di una costante cura e sorveglianza, non è dato una volta e per sempre in forza di una sua intrinseca capacità di darsi stabilità nellequilibrio tra i tre poteri, che infatti a volte è mantenuta, quando uno dei tre mostra un indebolimento, con una transitoria azione vicariante di uno degli altri due, o di entrambi.
È il caso che lItalia ha vissuto circa un quarto di secolo fa, quando il sistema politico, già da decenni afflitto da una grave crisi, collassò sotto il peso dei suoi errori: fu la magistratura a vicariare il vuoto di potere lasciato da un ceto politico ampiamente screditato, chiamato finalmente a render conto del suo fallimento. Era probabilmente inevitabile che questo favorisse degli eccessi, che infatti non mancarono, portando in breve a disdicevoli episodi di protagonismo da parte di alcuni esponenti della magistratura, che cominciò ad accusare un altrettanto inevitabile calo di consensi dellopinione pubblica che fino ad allora non aveva affatto percepito come prevaricante, anzi, il suo ruolo di supplenza.
Di pari passo, il ceto politico procedeva ad un riassetto che lo portava con sempre più insistenza, e coi toni della più aspra polemica, a rivendicare le sue naturali prerogative, di cui lamentava lo scippo.

Per quanto abbia cercato di sterilizzarla da ogni umore di lizza, non pretendo che questa lettura di quanto è accaduto in Italia venga unanimemente condivisa, anzi, suppongo che sarà oggetto di critica sia da chi pensa che quello della magistratura fu un colpo di stato, sia da chi pensa che la sua meritoria opera di bonifica fu resa vana da quel subdolo «cambiar tutto perché nulla cambi» che ridà forze al malaffare. Comunque si voglia leggerla, tuttavia, mi auguro che questa storia possa vederci d’accordo almeno su un punto: è la debolezza di uno dei tre poteri che lo stato di diritto vorrebbe separati e indipendenti a renderne forte un altro oltre il dovuto. Nel contempo, è inevitabile che il ritorno ad una condizione di equilibrio, quando e se questa si ottenga, sia segnato da fluttuazioni di forze di qua e di là dal limite che la teoria dello stato di diritto fissa per ciascun potere.
E con l’articolo di Giovanni Belardelli sul Corriere della Sera di lunedì 11 maggio, con quello odierno di Luigi Ferrarella, sempre sul Corriere della Sera (Il malessere delle sentenze), e con la lettera di Giuseppe Maria Berruti sul numero de la Repubblica oggi in edicola (Quando le sentenze rallentano la politica) direi che siamo al punto in cui alla giustizia si chiede un po’ troppo, comunque assai di più di quanto spetti alla politica per suo diritto.
Prima di passare al commento di questi altri due contributi sul tema, però, mi è necessaria una precisazione riguardo a un termine che ho usato anche nel post qui sotto e che ha incontrato un’obiezione da parte di un lettore. Infatti ho parlato di «giudici» includendo nel termine sia i togati che nei tribunali amministrativi, civili e penali provvedono a far rispettare le leggi per come esse sono, sia quelli che siedono nella Consulta e che invece le sottopongono al vaglio di costituzionalità: espediente lessicale che intendeva mantenere la genericità di critica che Belardelli muoveva alla «giustizia», senza alcuna distinzione di funzione e di ruolo, per la sentenza della Corte costituzionale che dichiara lillegittimità di un decreto sulle pensioni, per quella di un Tribunale penale che ordina la chiusura di una fabbrica responsabile di danni ambientali e alla salute dei cittadini, per quella con la quale un Tar solleva eccezione alla sospensione di un sindaco. Per quello che sarà necessario al commento di ciò che scrivono Ferrarella e Berruti potrò risparmiarmi la «confusione» che ho ingenerato col parlare di «giudici», in senso conseguentemente lato: entrambi sembrano voler appuntare lattenzione in modo pressoché esclusivo sulla decisione della Consulta sul taglio delle indicizzazioni delle pensioni che era nel cosiddetto Salva-Italia del governo Monti, e a buon motivo, perché, da un lato, pretendere che la politica sia forte al punto da interferire con la giustizia sullapplicazione delle leggi era una «fluttuazione» francamente eccessiva (in ciò è da segnalare che larticolo di Ferrarella sembra voler riaggiustare il tiro di Belardelli) e, dallaltro, è il «buco» che Renzi viene a trovarsi in cassa a costituire un handicap oggettivo allautonomia delle decisioni politiche.
Col rischio di apparire malizioso, la dozzina di miliardi di euro che dovrebbe andare ai pensionati azzera il millantato tesoretto col quale il premier intendeva issare un palo della cuccagna in vista delle elezioni regionali: quando a un premier che galleggia su una nuvoletta di chiacchiere togli la possibilità di raccattare consensi elargendo mance (vedi il caso degli ottanta euro alla vigilia delle scorse elezioni europee), allora sì che la politica – questo tipo di politica – oggettivamente si indebolisce. Così riaggiustato il tiro, la questione può avere anche una sua dignità, e dunque possiamo passare alla lettura di Ferrarella e di Berruti. Il primo, ammettendo implicitamente (non saprei dire se si tratti solo di un espediente retorico) che la Corte costituzionale si è limitata a difendere dei diritti, si chiede «quanti diritti ci possiamo permettere», «quale dose di giustizia può tollerare il nostro assetto sociale ed economico» e, col concedere che «fino a pochi anni fa una simile domanda sarebbe suonata bestemmia», sembra farci intendere che sono finiti i tempi in cui diritti e giustizia erano garantiti dalla Costituzione, perché oggi sarebbe più opportuno lasciar decidere allesecutivo quanto ne ce tocchino di volta in volta. «Cambiano infatti i casi, ma il denominatore comune resta che la giurisdizione è sottoposta a una pressione sociale molto più insidiosa di passate grossolane ingerenze politiche»: in sostanza, con Berlusconi erano «ingerenze politiche», per giunta «grossolane», con Renzi è «pressione sociale». Suppongo, infatti, che in questi giorni abbiate visto le strade piene di gente incazzatissima per la sentenza della Corte costituzionale. No? Vabbè, sarà che affollava solo Via Solferino.

Come il lettore mi auguro abbia inteso, non riconosco all’articolo di Ferrarella altro intento che ammorbidire la posizione di Belardelli, per sottrarre il Corriere della Sera all’accusa di aver virato troppo in fretta il giudizio sull’azione del governo, ieri guidato da un «caudillo maleducato» (De Bortoli) e oggi impedito nel fare «una determinata scelta di politica economica e sociale» (Belardelli). È quella che passa per moderazione.
Di peso notevolmente maggiore è ciò che scrive Berruti in forma di lettera al direttore, e per «peso» intendo «grave», tanto più grave se si tiene conto che il mittente è presidente di una sezione della Cassazione, a indizio che anche tra i «giudici» (e qui rimando allaccezione cui facevo cenno prima) comincia ad esserci chi è sensibile alle ragioni di un esecutivo che, allindomani di una sentenza della Consulta che ripristina dei diritti violati, già si arrabatta a cercare il modo per aggirarla, lamentandosi intanto che quella sentenza «fa perdere credibilità al paese in sede internazionale» (Renzi).
Berruti scrive: «Si può dire: ma la legge è legge, la Costituzione è nota e i governi debbono sapere i limiti dei possibili impegni. Risposta ipocrita. I governi operano nel presente economico e politico. Nellattimo, data la velocità dei mercati finanziari che richiedono risposte che operano sul piano della pura percezione. In realtà, il problema del contrasto tra la decisione giudiziaria, che opera su un dato di certezza giuridica e quindi di immutabilità delle posizioni a regole immutate, e la decisione politica che risponde alla relazione di forza, esiste».
Sì, senza dubbio esiste, ma come andrebbe risolto? Non con mutare le regole caso per caso, voglio sperare, né col performarle in modo che al governo sia concesso di decidere un po come cazzo gli pare, sicuro che il principio di forza maggiore giustifichi la sospensione della norma scritta. No, possiamo tirare un sospiro di sollievo, neanche Berruti vuole questo, anzi, dice che lo «preoccupa uno scenario che affidasse al governo poteri decisivi e non ostacolabili». E allora? Quale sarebbe la soluzione? Non lo dice. Dice che la democrazia «sta cambiando» (e su questo siamo daccordo, basta constatare – per riprendere Ferrarella – che oggi si lavora a rendere tollerabile la «bestemmia»), e che dunque «è urgente una riflessione politica». Penserà mica a una Consulta i cui membri siano scelti tutti dal governo? Ci guadagneremmo solo in tanto shabadabadà. 

martedì 12 maggio 2015

[...]


Per Colin Crouch, che ne ha coniato il termine, la postdemocrazia è una democrazia formale svuotata in modo rilevante di quanto in partecipazione, rappresentanza e decisione è sottratto ai cittadini da oligarchie di burocrati, tecnocrati, lobbisti, attori dell’alta finanza, potentati economici multinazionali, organismi intergovernativi e operatori nel campo dell’informazione. E i giudici? Non ne fa cenno, neanche di striscio. Cosa pensare, dunque, di chi segnala il rischio di postdemocrazia nella sentenza della Consulta che boccia come incostituzionale il taglio delle indicizzazioni delle pensioni incluso nel decreto cosiddetto Salva-Italia del governo Monti? È una sentenza – dice – che causa uno «svuotamento dell’autonomia di decisione dei governi democratici che ha indotto alcuni a parlare di postdemocrazia». E chi, di grazia? D’altronde, come avrebbe potuto parlarne, se non impropriamente, visto che con postdemocrazia non si intende affatto uno svuotamento dell’autonomia dei governi, ma delle prerogative che una democrazia sostanziale assegna ai cittadini? «Non c’è praticamente giorno – dice – in cui non compaia qualche nuova notizia a ricordarci come molte decisioni politiche a livello nazionale o locale dipendano dalle pronunce di un tribunale amministrativo, civile, penale, oppure, come nel caso che occupa le cronache di questi giorni, della Corte costituzionale». E sarà che il ceto politico non sa prendere decisioni che non cozzino con le leggi dello Stato, sicché accade che le infrangano: i tribunali dovrebbero lasciar correre? Dove sarebbe il rischio per la democrazia sostanziale, se la giustizia si limita a dichiarare illegittime le decisioni del ceto politico che riesce a dimostrare illegittime? Il rischio – dice – sarebbe la «giuridicizzazione della politica». Ma a limitare il vaglio di legalità che i tribunali operano sulle decisioni del ceto politico non si avrebbe di converso una politicizzazione del diritto? E qual è il rischio maggiore?

Poi uno smette di leggere e pensa. Pensa che in Italia non cè mai stata una vera borghesia, ma solo un ceto quanto mai pleomorfo di pezzenti più o meno arricchiti, per lo più incolti e felloni, senzaltra preoccupazione che cavalcare londa, ma mai troppo vicino alla sua cresta, per non finirne sotto al suo schiantarsi. Pensa che della stessa pasta è anche chi scrive sul giornale di questa borghesia. Giornale che ad ogni onda cambia il direttore, come di tanto in tanto certi animali a sangue freddo cambiano pelle, ed ora ne ha uno nuovo, perché londa renziana monta e non è il caso di farsi trovare impreparati. È la stagione che celebra il ritorno delluomo forte e, finché dura, in Via Solferino si suonerà la musica che Renzi vuol sentire, sennò si incazza e manda un sms risentito. E allora gli si suona la musica che vuol sentire.

Emmanuel Carrère, Il Regno, Adelphi 2015


Nel 1990 fu toccato dalla fede, ma durò solo tre anni. In quei tre anni, su una ventina di quaderni, stese un commentario degli Atti degli Apostoli. A due decenni di distanza rimette mano al materiale per un’indagine sul cristianesimo primitivo. Non si capisce se per alleggerirla o appesantirla, ci infila moglie, madrina, psicoanalista, baby-sitter, Philip Dick, un video porno amatoriale e soprattutto molto, troppo, di se stesso. Difetto tutto francese, quello di dipingere pure sulla cornice. Poco male, perché il libro, liberato dall’inutile, resta una discreta opera divulgativa che ai pigri risparmia il Theissen, il Lortz, il Vögtle... Scrittura agile, due o tre brillanti osservazioni che rivelano una discreta capacità di cogliere la psiche del I secolo, una leggera inclinazione alla ruffianeria verso il lettore che tuttavia più che irritare intenerisce. Insomma, vale la pena di leggerlo.

domenica 10 maggio 2015

Un po’ mi pento

Un po mi pento del post qui sotto, ma ormai è fatta, mi serva da lezione per le volte – rare, in verità – che cedo alla tentazione di ritenere in buona fede un uomo di merda. Nel post qui sotto ipotizzavo che, nellaffermare che «la differenza di mortalità tra chi la fa e chi non si sottopone alla mammografia ogni due anni è di due su mille», Grillo riproducesse – con colpa, certo, ma non necessariamente con dolo – l’errore commesso da Gotzsche e Olsen in uno studio apparso su Lancet nel gennaio del 2000, errore già ampiamente dimostrato tale, da subito, e tuttavia di tanto in tanto riproposto da qualche autore, anche se non più in là del 2006, per essere regolarmente e tempestivamente segnalato come un granchio di analisi statistica. Ipotizzavo che la questione potesse essere risolta scendendo nel merito, chiedendo a Grillo da quale fonte avesse attinto per uscirsene con quella cazzata, per dimostrargli che si trattava di un farlocco, che per giunta aveva pure digerito male, rivomitandolo nel modo più osceno. Bene, sbagliavo. Che Grillo sia in patente malafede è dimostrato dalla rettifica che segue ad appena dodici ore: «Non penso che la mammografia non sia utile o necessaria. Anzi penso che sia utilissima. Ce l’avevo con la cattiva informazione che fa credere che facendo questo esame non venga il tumore». Dodici ore fa ne salvava solo «due su mille», ora è «utilissima»? Non ammetti che hai detto una stronzata, nemmeno citi la fonte dalla quale l’hai pescata per tentare di strappare un’attenuante, e che fai, rivolti la frittata? E poi dove l’hai letto che la mammografia è spacciata come un vaccino antineoplastico invece che essere consigliata come indagine diagnostica? No, non meriti nemmeno di essere corretto: meriti solo fumanti palle di letame.  

Is screening for breast cancer with mammography justifiable?

Ho provato a cercarlo, volevo passarlo allo scanner e metterlo qui sopra, ma chissà dove si sarà ficcato, insomma, non lho trovato. Parlo di un articolo che fu pubblicato su Il Mattino – non so essere più preciso – negli ultimi mesi del 2000, tuttal più nei primi del 2001. Era su tre o quattro colonne, e il titolo diceva pressappoco: «Uno studio rivela che la mammografia è inutile». Nel testo si parlava del lavoro di Peter Gotzsche e Ole Olsen che era uscito qualche mese prima su Lancet (Is screening for breast cancer with mammography justifiable? – 355/2000, pagg. 129-134) e che presto aveva sollevato una furibonda polemica sulla sua perentoria affermazione conclusiva che «screening for breast cancer with mammography is unjustified». In realtà, già su quello stesso numero di Lancet, nella sezione dei commenti editoriali, Harry de Koning spiegava con lodevole chiarezza – per quanto possa esser chiara una controargomentazione in ambito statistico – perché il lavoro fosse viziato da un metodo scorretto e da una errata interpretazione dei dati. Il guaio è che lo faceva in modo estremamente civile, sicché la critica, ineccepibile nei contenuti, parve sofficissima. Di fatto, le contestazioni che negli anni successivi sono state mosse da gran parte del mondo scientifico a chiunque riproducesse analoghi difetti di metodo e di analisi per arrivare a conclusioni sostanzialmente simili a quelle di Gotzsche e Olsen (uno per tutti: Anthony Miller, Is mammography screening for breast cancer really not justifiable?, Recent Results in Cancer Research, 163/2003, 115-128) erano già tutte nelle obiezioni di de Koning. La realtà è che lo screening torna di estrema utilità, e con un abbattimento della mortalità che varia dal 30 al 63% secondo la popolazione presa in oggetto per fascia di età. Purtuttavia sembra che a chi voglia mettere in discussione un dato indiscutibile e per giunta con argomenti ormai ampiamente destituiti di ogni fondamento – è il caso del Il Mattino, quindici anni fa, e di Grillo, ieri – non manchi mai lopportunità di farsi sentire, persino di farsi ascoltare, coi danni che non è difficile immaginare. È che, per sua natura, la bufala ha radici profonde e robuste, non la si estirpa senza scavare fino in fondo. Invece di urlare a Grillo che è uno sconsiderato  sulla qual cosa non c’è dubbio, ma dirglielo non risolve niente  gli si chieda la fonte dalla quale ha attinto, gli si chieda di difenderne l’attendibilità a fronte di ciò che la confuta senza possibilità di appello.

sabato 9 maggio 2015

[...]

«Con lItalicum adesso Cameron dovrebbe andare al ballottaggio», saffretta a far presente Renzi, e questo dà ennesima conferma di quanto sia cazzaro, perché nel Regno Unito cè il maggioritario e il bicameralismo, e già questo rende impossibile ogni paragone con lItalia, tacendo della separazione tra il potere esecutivo e quello legislativo che lì è assicurata da secoli e che qui di fatto con lItalicum andrà a farsi fottere. 

venerdì 8 maggio 2015

Soft o, se preferite, light

Per quanto il tempo possa cambiare anche profondamente il significato che un termine ebbe in origine, nel suo significante resta immutata, anche se solo in parte, e a volte esigua, levocazione a ciò che il tempo ha tradito. Così è col termine partito, che non bisogna affaticarsi troppo per capire tragga il significante dalla parte di un tutto, e che nellespressione partito della nazione tradisce il suo significato originario per l’accostamento di un termine che gli è antitetico, nella costruzione di un ossimoro, cioè di una figura retorica che ha fine eminentemente esornativo e provocatorio. Nel porci la questione di cosa possa significare partito della nazione, dunque, occorre chiederci quale sia loggetto col quale si vorrebbe destare in noi la meraviglia per una sintesi che la logica ci dice impossibile, e a quale abbellimento è sottoposto per convincerci sia sintesi felice. Non possiamo far altro che analizzare i cambiamenti che il tempo ha prodotto a carico di due significanti come partito e nazione.
Cè stato un arco storico relativamente ampio – diciamo dalla metà del Settecento alla metà del Novecento – nel quale al termine partito non si è più dato il significato prevalentemente negativo di fazione che aveva prima e che ha riacquistato dopo. Col venir meno di una visione organicistica della società, infatti, si è smesso di avvertire come deleteri i contrasti che impegnano le fazioni avverse presenti in essa, anzi, si è cominciato a sentirli come fisiologici, fino ad arrivare a considerarli un vero e proprio motore di democrazia e di progresso. È la stagione storica, questa, che vede il trionfo del principio maggioritario, che ai partiti assegna il ruolo di competitori per la guida di una nazione, riconoscendo ad essi la legittimità di rappresentare i molteplici e contrapposti interessi che accomunano differenti gruppi di individui. È per questo che la struttura del partito riproduce giocoforza quella di un esercito, ma qui il fine è la conquista della maggioranza dei consensi, grazie alla quale è assicurato il ruolo di governo, mentre a chi esce perdente dalla competizione è assegnato il ruolo dellopposizione, alla quale viene riconosciuto e assicurato il diritto di ribaltare gli esiti della battaglia persa col libero esercizio della persuasione sullopinione pubblica.
Per il ruolo che una fazione viene così ad assumere in questo contesto, il fatto che un partito possa restare associazione privata, senza personalità giuridica, e nel contempo avere il monopolio della funzione pubblica che attraverso le elezioni esprime la guida del governo, è premessa ad ogni deviazione del sistema partitico delle cosiddette democrazie di massa in forme di parassitamento e abuso della funzione di rappresentanza, e di queste deviazioni ne abbiamo un lungo elenco, che qui non sarà il caso di ristendere: per rispondere alla domanda che ci siamo posti – cosa cè dietro la sintesi impossibile che ci è spacciata con l’ossimoro di un partito della nazione? – basterà citare solo la trasformazione della leadership in proprietà di fatto dell’organizzazione, della dirigenza in comitato elettorale, della militanza in mero catalizzatore di clientela e fidelizzazione, dell’elettorato in platea di consumatori di un prodotto mediatico.
La sintesi impossibile offerta da un partito della nazione, dunque, si inscrive in tale contesto come proposta di una sospensione di ogni conflitto sociale, assicurata dalla meraviglia di un ossimoro che in realtà è una metonimia: la parte pretende di essere il tutto, di poterlo interamente rappresentare in modo organicistico, con la coincidenza di leader in partito, di partito in nazione e di nazione in stato. Probabilmente la pace sociale avrà la forma di un nuovo corporativismo. Possiamo anche evitare di chiamarlo fascismo, così ci evitiamo le sarcastiche punture delle piattole che pullulano nelle sue più comode pieghe, ma il progetto è quello della sospensione delle più elementari dinamiche democratiche, surrogandone le cinetiche col cliccare un like alle parole d’ordine lanciate on line dal leader del Partito della Nazione. È il progetto di un totalitarismo che si offre soft o, se preferite, light. Ma è totalitarismo.

@MinghiA

[...]

Visto che già da qualche tempo va prendendo piede luso del termine renzismo, credo non sia affatto superfluo cercare di darne una definizione sul piano lessicale, sicché al netto di ogni giudizio in merito si possa concordemente convenire su cosa esattamente sia. Ora, se per definizione è da intendersi lindividuazione e lillustrazione delle proprietà essenziali che danno piena ragione della relazione funzionale tra significante e significato, che poi sarebbe la definizione di definizione che più compiutamente dà conto di ontologia, logica e linguaggio, il nostro tentativo non può procedere che dal decidere in quale categoria di termini che sfruttano il suffisso -ismo sia più opportuno collocare il renzismo. Con l-ismo, in questo caso, saremmo dinanzi a una dottrina? Penso si debba escluderlo. Nulla, infatti, nel renzismo rimanda ad un organico sistema di principi, anzi, direi che in questo caso ne sia esplicito il rigetto, per la rigidità che sempre caratterizza un simile costrutto. Il renzismo, infatti, rivendica con orgoglio il rifiuto della dimensione ideologica, e dunque è quanto mai distante da qualsivoglia impianto di tipo dottrinario, in favore, al contrario, di un insieme di assunti valoriali – chiamarli principi sarebbe improprio – così eclettico, mobile e disarticolato da rendere del tutto vana la ricerca di un criterio che dia ad essi una struttura sistematica. E allora, se non è una dottrina, cosè il renzismo? In quale categoria di termini che sfruttano il suffisso -ismo è da porre? Direi non abbia a trovar posto nella categoria di termini che indicano movimenti religiosi, filosofici, letterari, artistici, tanto meno in quella che include fenomeni fisici, funzioni organiche, processi naturali, ecc. Rimangono solo due categorie, ma entrambe molto eterogenee, per giunta con unampia area di intersezione. Anticipo fin dora che a mio modesto avviso il renzismo si situi proprio in questo sottoinsieme comune alle due categorie di termini che ancora non abbiamo preso in considerazione, e cioè a quella che include fenomeni sociali – dunque anche politici, seppur nellaccezione più ampia del termine – e a quella nella quale troviamo tutto lampio spettro delle configurazioni caratteriali che sono oggetto della riflessione morale e di quella psicologica. A scanso di equivoci, però, è bene precisare che quando la politica rigetta la dimensione ideologica – e questo, come abbiamo già detto, è il caso del renzismo – accade giocoforza che sia portata a dare notevole risalto ai tratti della narrazione individuale o collettiva che va a surrogarne lelemento identitario, indispensabile a darle una cifra che serva a farla riconoscere, e questo, di regola, implica la fondazione di uno statuto etico-estetico, il quale, a differenza di una Weltanschauung, non è tenuto a darsi una logica di sistema. Ne consegue che l-ismo perderà, allo stesso tempo, sia ciò che conferisce peculiarità di connotazione sul piano della teoria politica, sia ciò che consente lindividuazione descrittiva di un profilo morale o psicologico. Con ciò siamo nellarea di intersezione cui facevo cenno prima, e il renzismo vi si inscrive a pieno titolo proprio in virtù di questa doppia perdita: patente inclinazione a esplicitarsi tutto nei mezzi piuttosto che nei fini, con ciò esaurendo in mera postura tattica una ambivalente, quando non ambigua, contraddittoria e perfino confusa, posizione politica; ipertrofia del carattere in maschera, con ciò che ne consegue in fissità e regressione della configurazione morale o psichica del modello che si accredita.

giovedì 7 maggio 2015

Robe incredibili

Certo, chi gestisce il traffico dei migranti nel Mediterraneo li stipa su barconi più o meno come nei secoli passati i negrieri stipavano sulle loro navi i disgraziati che deportavano dallAfrica per venderli come schiavi ai proprietari delle piantagioni di cotone in Alabama, ma usare il termine «schiavismo» per definire il fenomeno delle migrazioni è manifestamente improprio, perché lo schiavo era strappato a forza dalla terra dovera nato, mentre il migrante fa di tutto per abbandonarla, e per necessità, senza dimenticare poi che lo schiavo era merce di scambio tra un venditore e un acquirente, mentre nel caso del migrante è lui che paga, e per un posto a bordo del natante. Definire «schiavismo» il trattamento cui sono sottoposti i migranti che dalle coste dellAfrica settentrionale arrivano in Italia, insomma, è una stronzata.
Per meglio dire, lo era fino a ieri. Oggi un ministro dichiara di avere in testa lideuzza di emanare una circolare che autorizzi i comuni cui sono destinati i migranti che arrivano in Italia a farli lavorare, ma a gratis. Siamo dinanzi a un bellesempio di ribaltamento della logica piana: visto che il termine «schiavismo» è improprio a definire la condizione dei migranti, non lo si evita, ma si trasformano i migranti in schiavi. Un po come se a me scappasse di dire – sia chiaro che è un’ipotetica del terzo tipo, non mi permetterei mai nei confronti di un ministro – che un’idea del genere è da vero stronzo, e non avessi neanche il tempo di dirmi mortificato e di chiedere umilmente scusa perché subitamente il ministro mi diventa approssimativamente cilindrico e sostanzialmente marrone. Robe incredibili. 

mercoledì 6 maggio 2015

Avrà tanti limiti, Civati

Con una legge elettorale come l’Italicum mi ero riproposto di saltare il primo turno, per limitarmi a votare solo in caso di ballottaggio, e in quel caso per votare chiunque sulla scheda mi sarei trovato opposto a Matteo Renzi, anche un Beppe Grillo, anche un Matteo Salvini, anche un Silvio Berlusconi. Intenzioni che almeno in parte mi sento costretto da subito a rivedere per la decisione annunciata oggi da Pippo Civati: al primo turno voterò lui, in qualsiasi lista sarà candidato, qualunque sia il suo programma elettorale. Lo voterò perché la decisione di lasciare il gruppo parlamentare del Pd e le motivazioni che accompagnano questo passo conferiscono alla sua persona, seppur retrospettivamente, dimensioni eccezionali in tutta la storiaccia che si è conclusa con l’approvazione dell’Italicum, e so che può sembrare esagerato, ma si tenga conto che il livello medio della dignità morale e politica espressa dai parlamentari del Pd è stato pressappoco allaltezza di un Gennaro Migliore. Non farò mistero del fatto che dargli il mio voto servirà pure, e in buona misura, a risarcirlo di un’opinione non del tutto benevola che mi ero fatto sul suo conto: significa pure saldare un debito. Avrà tanti limiti, Civati, ma da oggi, almeno ai miei occhi, ha acquistato un merito enorme.  

Sull’analogia

Opinioni che potremmo stringare in formule del tipo «quella di Carminati è (o non è) mafia» o «quello di Renzi è (o non è) fascismo» sollevano sul piano retorico la questione delluso proprio (o improprio) dellanalogia. A tal riguardo, comè buona regola in ogni controversia, occorre chiarire la natura e la funzione di ciò che è in discussione, rammentando che nel discorso lanalogia «differisce dalla proporzione puramente matematica, in quanto non pone luguaglianza di due rapporti, ma afferma una somiglianza di rapporti, [sicché] mentre in algebra si pone a/b=c/d, [e] ciò consente di affermare per simmetria che c/d=a/b e di effettuare su questi termini operazioni matematiche che daranno luogo ad equazioni come ad-cb = 0, nellanalogia si afferma che a sta a b” come “c” sta a “d”, [e] dunque non si tratta più di una divisione, ma di un rapporto che viene assimilato ad un altro rapporto, [di modo che] fra la coppia “a-b” (il tema dell’analogia) e la coppia “c-d” (il foro dell’analogia) non si afferma un’uguaglianza simmetrica, ma un’assimilazione che ha per fine quello di chiarire, strutturare e valutare il tema grazie a ciò che si sa del foro» (Chaїm Perelman, Lempire rhétorique. Rhétorique et argumentation, 1977).
Posta questa premessa, dovrebbero cadere le obiezioni che contestano le legittimità dellanalogia nei casi sopra presi a esempio con controargomentazioni che potremmo stringare in formule del tipo «gli uomini di Carminati non avevano coppola e lupara» o «Renzi non ha squadracce che scorrazzano in lungo e in largo per lItalia con olio di ricino e manganello»: tema e foro non stanno in relazione di uguaglianza, ma di proporzione, la quale, dunque, non cade dinanzi allovvia constatazione che nulla somigli mai del tutto a nullaltro, non fossaltro perché nulla somiglia mai del tutto neppure a se stesso nel corso del suo divenire, come d’altronde è nel caso della mafia e nel caso del fascismo.
Lanalogia – sarà il caso di dirlo in modo esplicito – non pretende che sia attestata una peraltro sempre impossibile coincidenza, ma che sia riconosciuta quella serie di elementi che realizzino una puntuale relazione tra tema e foro, conservando per ciascuno una congrua proporzione. L’analogia, insomma, cade solo con la dimostrazione che questo tipo di relazione non abbia sostegno, non già che non sia in grado di comprovare una perfetta coincidenza tra tema e foro. Rigettando la liceità della naturale funzione che l’analogia ha nel discorso, si dimostra di temerne lefficacia. E il tentativo di delegittimarla come strumento improprio rivela lincapacità di contestarne l’uso che una corretta argomentazione non le preclude. 

martedì 5 maggio 2015

L’unica via

Dieci anni fa, di questi tempi, infuriava la battaglia sulla legge 40... Ok, «infuriava la battaglia» è bassa retorica, correggo subito...
Dieci anni fa, di questi tempi, mancavano pochi giorni al referendum sulla legge 40, e da un lato c’era chi voleva ne fossero abrogati almeno i punti che la rendevano tra le più stronze e crudeli della storia repubblicana, sgolandosi ad urlare dello scempio che infliggeva al buonsenso e alla Costituzione, mentre dall’altro c’era chi laveva voluta e, con assai miglior polso del paese, sapendo bene che da un popolo di merda il consenso non si ottiene invocando la logica e in nome dei principi, anzi, puntò sul vincere la partita senza combatterla nemmeno, sommando cinismo e strafottenza, per impedire che si raggiungesse il quorum. Sappiamo come andò: il quorum non fu raggiunto, la legge restò in vigore, e tutti, o quasi, a cantar lodi al cardinal Ruini, gran figlio di puttana, e perciò politico sopraffino. Sappiamo pure che fine ha fatto, in questi anni, la legge 40: smontata pezzo a pezzo da una dozzina di sentenze della Cassazione, ne resta in piedi solo il poco che sta a memoria della feroce idiozia che le diede vita.
Ma forse pure raccontarla a questo modo vuol dire far dellepica dove non c’è che cronaca. Andrebbe raccontata senza metterci passione, come l’apologo di una delle tante leggi che si scoprono essere incostituzionali solo dopo aver causato danni incalcolabili.
Leggi approvate nell’indifferenza pressoché generale dell’opinione pubblica, che rimane indifferente anche quando è chiamata a esprimere un parere su di esse. Come è stato col Porcellum, no? Anche in quel caso il referendum non interessò più di tanto, anche in quel caso s’è dovuto aspettare una sentenza che lo dichiarasse incostituzionale.
Non c’è dubbio che così sarà anche per l’Italicum, la cui approvazione, oggi, incorona Renzi come gran figlio di puttana, e perciò politico sopraffino. Lo schema – il solito – si ripropone: un mascalzone scrive una legge a cazzo di cane, una maggioranza parlamentare di insulse comparse lapprova, una corte di ruffiani leva al cielo losanna per cotanta vis legislativa, le opposizioni bestemmiano e raccolgono firme per abrogare lobbrobrio, mentre il resto del paese se ne fotte, perché «capolista bloccato» è termine incomprensibile almeno quanto «ovocita fecondato».
Per carità di Dio, raccoglietele, ste firme, ché val la pena spendersi pure per le guerre perse in partenza. Ma non sperate troppo in quella che chiamate «gente», perché ormai da tempo è plebe. Appena sarà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, sottoponete lItalicum alla Corte Costituzionale: lunica via è quella.

lunedì 4 maggio 2015

[...]

Quando non trattato, lipotiroidismo congenito porta inevitabilmente a gravi forme di ritardo mentale. È una patetica arrampicata sugli specchi, dunque, concedere che cretino derivi da cristiano (fr. chrétiencrétin), ma obiettare che in origine non venisse usato, come oggi accade, per indicare un individuo di scarsa intelligenza, ma una persona affetta da cretinismo, termine che fino a qualche decennio fa era usato proprio per definire il quadro clinico dellipotiroidismo congenito non trattato. A conferma, tuttavia, che cretino e cristiano indichino una consimile condizione di deficit mentale cè quella nota acquiescenza del cretino alle derive autoritarie che nel cristiano trova ragione nel «non cè autorità se non da Dio» (Rm 13, 1). Certo, Paolo lavrà detto per dare unaria inoffensiva ai suoi e per strappare un po di tolleranza a Nerone, fatto sta che il monito a sottomettersi allautorità, perché chi vi si oppone «si oppone allordine stabilito da Dio» (Rm 13, 2), tornò utile dopo il patto stretto tra trono e altare, sicché potremmo dire che da chrétien si passa a crétin quando lacquiescenza a questo o quel tiranno perde la funzione di trasporre lintesa tra Stato e Chiesa nella coincidenza di obbedienza nel suddito e nel fedele, per diventare il riflesso condizionato che porta a vedere in ogni dittatore un Uomo della Provvidenza. Quando questo passaggio si è compiuto, non ha più alcuna rilevanza che il cretino sia anche cristiano, perché sarà acquiescente alla dittatura anche in quei rari casi in cui la Chiesa non vi avrà stretto un concordato, e tuttavia in lui resta ladorazione della forza come manifestazione del divino. Il lungo ragionare per venticinque secoli su come la forza si legittimi in potere, e su come il potere si legittimi in autorità, non gli appartiene: ogni ipertiroideo gli sembra Dio.

domenica 3 maggio 2015

sabato 2 maggio 2015

[...]

Lidea di cambiare il «siam pronti alla morte» dellInno di Mameli con un «siam pronti alla vita» è duna imbecillità che sapparenta a quella di mettere la lancetta dei minuti all’orologio di Palazzo Vecchio (ricordate?), dunque è probabile che lItalia renziana ladotterà in via definitiva. Resta la questione della rima con «stringiamci a coorte», che così salta, ma, se tanto mi dà tanto, probabilmente si provvederà con un «partiam per la gita» o un «la cena è servita».