Di
grazia, gentile @FedericaMog,
come verrebbe disrupted
’sto business
che sappiamo
avere numerose basi, delle quali tuttavia in molti casi si sa poco o
niente, ma che è certo siano tutte sulla terraferma,
sparse qua e là su un territorio immenso, che si estende dalla Siria
all’Algeria?
Con una naval operation –
dice – ho letto bene? Do per scontato che l’idea
non sia quella di mandare sul lastrico smugglers
e traffickers
affondando i loro carichi a colpi di cannone, in modo da rovinarne la reputazione di operatori nel settore dei trasporti. E allora? Come si fa a
colpire chi lucra sul traffico di migranti nel Mediterraneo – quella sembrerebbe la mission – con delle
navi, che al massimo potranno entrare in acque libiche o tunisine,
ammesso che sia loro consentito, il che al momento neppure si può dare per scontato? I toni del suo annuncio sembrano
trionfali, ma neanche la sfiora il sospetto che la Ue le abbia
offerto un contentino perché almeno per un po’ non rompa più i coglioni? O lo sa bene
e con questo tweet cerca di rifilarci l’anodino?
lunedì 18 maggio 2015
Appunti
Un
fondo di giacobinismo è presente in ogni populismo dal basso, ma nel
tratto peculiare che ne fa un modello dei processi di commutazione di
una democrazia in dispotismo è presente anche in quella declinazione
della post-democrazia nota come populismo dall’alto,
che al carattere disgregante del
populismo dal basso somma quello normalizzante del potere
istituzionalizzato, piegando così il malcontento degli oppressi al
disegno degli oppressori, nella logica che è tipica della
rivoluzione restauratrice, sicché potrà apparire grottesco, ma ha
una sua ratio, che in questi casi l’autoritarismo
riesca ad essere ottimamente spacciato come espressione della volontà
popolare finalmente liberata da freni ad essa posti da superflue
procedure di garanzia, che una controriforma riesca ad essere
ottimamente spacciata come riforma, che al vecchio basti un
maquillage nemmeno troppo elaborato per essere ottimamente spacciato
come il nuovo. In entrambi i casi, che il populismo sia dal basso o
dall’alto,
chi si intesta il merito dell’operazione
deve invariabilmente vestire i panni di un uomo in cui siano
rappresentati in sommo grado tutti i tratti caratteriali della platea
dalla quale aspira a raccogliere il consenso, riuscendo a dare forma di virtù a
ogni difetto che in quella cerchi aspirazione ad un avallo, accreditandosi così come mero strumento della volontà
popolare in ogni passaggio che sia contraddistinto da una resistenza
alla sua azione, sicché possa
agevolmente trovar modo di rappresentare ogni conflitto che ne possa
sorgere come il capitolo di un’epopea di liberazione. Ogni diritto
che intenderà negare a una parte della società dovrà assumere
l’aspetto di un privilegio lungamente e ingiustamente goduto da una minoranza a
scapito dell’intera collettività, in modo tale che il più
generale processo di negazione dei diritti acquisiti dall’intera
società venga diffratto in episodi che possano essere narrati come
vittorie contro caste, lobby, corporazioni, categorie che fin lì
erano riuscite a difendere i propri egoistici interessi a danno del
bene comune: ogni volta, contro ciascun settore che si intenderà
colpire si chiamerà a sostegno tutto il resto della società, reclutato contro un nemico pubblico, e non
sarà neppure necessario che la chiamata ottenga un reale sostegno
perché questo sarà sempre dichiarato solido, ancorché surrettizio, per il solo fatto che l’azione isolerà il bersaglio dell’attacco.
Di qui la necessità di non esplicitare mai nel dettaglio il progetto
di società cui si mira, ma di tenerlo invece nel vago di un felice
organicismo che può essere raggiunto solo se saranno espunti i
particolarismi che ne impediscono la realizzazione: un miraggio di
società, quindi, nella quale i conflitti siano annullati in una
generale condiscendenza, dalla quale possa sottrarsi solo chi coltivi
pulsioni antisociali, vuoi nella forma degli estremismi politici di
opposto colore, che si delegittimano per il solo fatto di avere un
colore (ideologismi), vuoi in quella della devianza morale o psichica (gufi, rosiconi, ecc.), comunque a prezzo della condanna di un senso comune incoronato a buonsenso. Giocoforza,
perché il diritto sia inteso come privilegio, il vecchio presentato
come nuovo, la critica liquidata come disfattismo, l’opposizione
come sabotaggio, l’arroganza
promossa a decisionismo, il cinismo e l’opportunismo
a metodi d’alta
politica, è opportuno che venga dispiegato tutto l’armamentario
della mistificazione semantica, che sortirà il miglior esito quanto
più i processi di formazione dell’opinione
pubblica verranno piegati al servizio del disegno populista, con l’acconcio dosaggio di minaccia e di blandizie, di furto e di mancia, di spietato ricatto e di condiscendenza complice. In ciò,
col singolare paradosso di una democrazia formale a paravento di un regime autoritario che si autolegittima come governo di salute pubblica, siamo dinanzi ad un
altro aspetto del giacobinismo: l’affermazione
della legittimità a piegare le leggi, secondo una incontestabile
logica, ad un incontestabile stato di necessità, che sul piano
semantico trova piena rispondenza nel sopruso della distorsione dei
termini più comunemente usati nel dibattito pubblico, per piegarli a
strumento di persuasione occulta. Chiunque si azzardi a segnalare e a denunciare questo sopruso dovrà aspettarsi di essere trattato almeno come con un petulante scassacazzi, se non addirittura come un guastatore della rinascita della nazione.
domenica 17 maggio 2015
E il resto vien da sé
Dunque. Ci abbiamo
messo qualche secolo, ma infine l’abbiam capito: c’è chi è nato per comandare e chi per obbedire, ’sta
stronzata che la sovranità appartiene al popolo in fondo è sempre stato un insulto alla
legge di natura, l’importante è non esagerare pretendendo che i
sudditi offrano a gratis le loro figlie vergini al re e ai nobili,
anzi, sarebbe consigliabile l’evitare di chiamarli a questo modo, così, in cambio, loro rinunceranno a farci pesare l’essere di una razza speciale, e
finalmente potremo godere della tanto agognata concordia sociale, che
è andata a farsi fottere da quando qualche anima bella s’è messa
a predicare che siamo tutti uguali. Stronzate. Certo, dirlo non è
delicato, ma l’importante è darlo per scontato, poi sopra, a mo’ d’addobbo, ci si può mettere pure un po’ di magnanimità. E il resto vien da
sé.
[...]
A
chi devo prestar fede? A Ernesto Galli della Loggia, tanto per dirne
uno, il primo che mi viene in mente fra quanti, un giorno sì e
l’altro
pure, lamenta la
generale
indifferenza
per le vittime della cristianofobia che...? No, aspettate, sarà
meglio che lo citi testualmente. Prendo uno dei suoi articoli
sull’argomento,
uno a caso, tanto sono tutti uguali. Dice che «i
due principali motivi di questa vasta indifferenza sono [il
fatto che] sempre
di più stentiamo a sentirci, e ancor di più a dirci, cristiani [e poi che abbiamo] paura
dell’islam
arabo, del suo potere di ricatto economico, […]
del
[suo]
terrorismo spietato».
Non è tutto, perché dice pure che ad impedirci di correre in
soccorso dei cristiani fatti oggetto in Medio Oriente di odiose persecuzioni e orribili massacri è la nostra «impossibilità
psicologica di avere un “nemico”, [...] che
unita al rifiuto/rimozione della morte – morte che il tramonto
della religione rende ormai impossibile accettare e dunque in qualche
modo esorcizzare – sta a sua volta producendo in occidente una
gigantesca svolta storica: la virtuale impossibilità per noi di
pensare e di fare la guerra».
Robe da far venire dei bei sensi di colpa, come minimo. Eventualmente, per non limitarsi al minimo, da fare un pensierino a una crociata.
Bene, dar credito a lui o a monsignor Antoine Audo, vescovo di Aleppo? Lui dice: «L’allarme ricorrente sui cristiani perseguitati può essere letto da almeno due punti di vista. In certi ambienti c’è una propaganda intensa che punta a aumentare la paura indistinta dell’occidente nei confronti dell’islam, per suscitare la spinta emotiva popolare e così giustificare un maggior controllo sugli ambienti musulmani, soprattutto in Europa. Dall’altro, ci sono Paesi della regione che con il loro islam wahhabita e l’ansia di rivalse storiche verso la cristianità non riescono a sopportare nemmeno l’idea di una presenza dei cristiani in Medio Oriente. Queste due logiche, per paradosso, si sostengono l’una con l’altra, e convergono fatalmente nello spingere i cristiani fuori da tutta la regione».
A chi credere? Capirete che, a dar retta a Sua Eccellenza, Ernesto Galli della Loggia mi diventa, ancorché «per paradosso», alleato dei wahhabiti... Oddio, quella barba potrebbe pure far venire un inquietante sospetto... Ma no, via, non voglio crederci.
Bene, dar credito a lui o a monsignor Antoine Audo, vescovo di Aleppo? Lui dice: «L’allarme ricorrente sui cristiani perseguitati può essere letto da almeno due punti di vista. In certi ambienti c’è una propaganda intensa che punta a aumentare la paura indistinta dell’occidente nei confronti dell’islam, per suscitare la spinta emotiva popolare e così giustificare un maggior controllo sugli ambienti musulmani, soprattutto in Europa. Dall’altro, ci sono Paesi della regione che con il loro islam wahhabita e l’ansia di rivalse storiche verso la cristianità non riescono a sopportare nemmeno l’idea di una presenza dei cristiani in Medio Oriente. Queste due logiche, per paradosso, si sostengono l’una con l’altra, e convergono fatalmente nello spingere i cristiani fuori da tutta la regione».
A chi credere? Capirete che, a dar retta a Sua Eccellenza, Ernesto Galli della Loggia mi diventa, ancorché «per paradosso», alleato dei wahhabiti... Oddio, quella barba potrebbe pure far venire un inquietante sospetto... Ma no, via, non voglio crederci.
sabato 16 maggio 2015
«Somiglia tremendamente»
«Tu
facevi la terza liceo, io ero ai primi anni di insegnamento... Tutto
per te era occasione di disturbo, ti piaceva creare confusione,
paralizzare l’attività didattica... Non hai mai studiato, per
tutto l’anno... Caro Giuliano, eri così...» (Maurizio
Lichter – il
manifesto,
29.1.2008). Non c’è
da stupirsi che si sia persa pure la lezione sul modello astronomico
cui Dante Alighieri si ispirò per costruire il suo Paradiso, cinquant’anni
dopo avrebbe potuto soccorrerlo il pur vago ricordo che era quello tolemaico: astri incastonati in sfere di cristallo, una dentro l’altra, un universo fatto a cipolla.
Niente, nel tappare le falle lasciate aperte da una gioventù
sprecata a far casino – dopo il Principe
e l’Orlando
furioso
ci tiene a far sapere che ora sta studiando la Divina Commedia, poi probabilmente sarà la volta dei Promessi sposi – è
inevitabile ci finisca dentro roba che non c’entra
un cazzo. Ecco, allora, che a un Ferrara visibilmente eccitato da un picco degli zuccheri sembra che le terzine dantesche possano tornare a fagiolo da didascalia alle foto di galassie e nebulose che
il telescopio Hubble ha scattato nelle abissali lontananze dello
spazio: dalla Nasa, insomma, la prova che l’universo «somiglia tremendamente» a come ce lo si immaginava nel Trecento. Argomentasse, almeno. Macché, nient’altro
che una mistica d’accatto:
«Nelle
foto di frate Hubble vedete i pilastri della Creazione che sono
l’allegoria
dell’Aquila
in non ricordo più quale cielo ma comunque molto in alto, una figura
esoterica della gerarchia angelica e di tanto altro, vedete i diademi
della Madonna incoronata, il manto di Cristo che la raccoglie e se la
porta nell’Empireo,
vedete tutto quello che non avete mai voluto o potuto vedere, tutti
gli ubi in cui consiste la divinità e il luogo da essa attribuita da
sempre e per sempre a tutto e a tutti; cose non viste né pensate per
mancanza di devozione, alla poesia medievale-moderna però, non alla
religione idoleggiata dal secolarismo come Arcinemica della ragione»
(Il
Foglio,
16.5.2015). A non vedercela, tutta ’sta
roba? Che domande, significa che si è insensibili. A Dio, ad Hubble
e a Dante.
[...]
Sono
contro la pena di morte, ma ritengo vi sia barbarie pure
nell’opporvisi argomentando che l’ergastolo sia pena che infligge
una maggiore sofferenza, il che peraltro è vero. Non faccio fatica a
comprendere che con questo argomento si cerchi comunque di evitare
che una vita venga sacrificata al bestiale istinto di vendetta, fatto
sta che lo si placa allettandolo con l’offerta di un sacrificio più
crudele. E questo mi fa perdere facoltà di distinguo tra il profilo
culturale (in prima stesura avevo scritto «morale») di chi è a
favore della pena di morte e di chi le è contro.
venerdì 15 maggio 2015
[...]
«Restituiremo
una parte dei soldi nei prossimi mesi» è come dire «rispetteremo
solo in parte la sentenza della Consulta ma non subito». Per uno che
prima di aprire bocca sulla faccenda ci ha messo una settimana, mandando avanti lacchè e famigli a dire solo «boh», «beh», «bah», è
come dire «sto nella merda ma in fondo somiglia a cioccolata».
E non c’è da stupirsene, perché si tratta di uno di quei tizi che, se gli dici «sì, ma è merda», ti dà del disfattista e ti rinfaccia di avere la puzza al naso.
E non c’è da stupirsene, perché si tratta di uno di quei tizi che, se gli dici «sì, ma è merda», ti dà del disfattista e ti rinfaccia di avere la puzza al naso.
Ma guarda tu la coincidenza
Ma guarda tu la coincidenza. Arriva
un’altra
sentenza della Consulta che sembra fatta apposta per rilanciare la
questione posta di recente da chi lamentava
che «non
c’è praticamente giorno in cui non compaia qualche nuova notizia a
ricordarci come molte decisioni politiche dipendano dalle pronunce di
un tribunale amministrativo, civile, penale, oppure della Corte
costituzionale»,
e lanciava l’allarme
che ’sta
cazzo di «giustizia
onnipresente indebolisce la politica» (Giovanni
Belardelli – Corriere
della Sera,
11.5.2015); sentenza che sembra fatta apposta per rinnovare la
preoccupazione di chi non arrivava a dire che le sentenze non debbano
ripristinare i diritti violati se questo mette in difficoltà lo
Stato che li ha violati, ma andando per le ellittiche chiedeva
«quanti
diritti possiamo permetterci?» (Luigi
Ferrarella – Corriere
della Sera,
13.5.2015); sentenza che sembra fatta apposta per far girare i
coglioni a chi diceva che, certo, non si discute, «la
legge è legge»,
però, col mondo che gira sempre più veloce, la giustizia non può
essere più «attività
di accertamento della legge come è»,
ma deve diventare «attività
di governo dell’esistente»,
«creazione
della regola caso per caso»,
sensibile alla «necessità
politica» (Giuseppe
Maria Berruti – la
Repubblica,
13.5.2015).
Accade
che, dopo averne già abbattuti altri due nel 2009 e nel 2014, la
Consulta abbatta un terzo pilastro della legge n. 40 del 19.2.2004
(Norme
in materia di procreazione medicalmente assistita),
della quale adesso resta in piedi poco o niente. Legge che fu approvata da
un Parlamento democraticamente eletto. Legge che, peraltro, su
quattro dei suoi punti fu sottoposta al vaglio referendario, che non
ne corresse neanche una virgola. È un caso, insomma, al quale calza
ottimamente il paradigma di una giustizia che indebolisce la politica
(anche qui rivelandone le carenze di cultura giuridica), di diritti
violati il cui ripristino implica un costo alla collettività (qui
non eccessivo, ma comunque a carico del servizio sanitario
nazionale), del sacrificare la necessità politica all’applicazione
della norma costituzionale così com’è
(nel caso di specie, sacrificare all’art.
32 della Costituzione tutto quello che si era guadagnato leccando il
culo al cardinal Ruini).
E dunque? Come avrebbe dovuto comportarsi,
la Consulta, per evitare che chi ha votato la legge 40 rimediasse l’ennesima
figura di merda? Non ne ricava analoga figura anche il Paese che per
tre quarti si astenne quando fu chiamato a esprimersi su quella
legge, così riconfermandola? Ed è delicato che la Corte
costituzionale faccia presente che la volontà popolare, ancorché
espressa con la strafottenza, conta meno di niente quando è in
patente contraddizione con la Carta? È giusto che adesso il
contribuente debba accollarsi anche la spesa della diagnosi
pre-impianto per chi il sistema sanitario nazionale solleva da oneri
perché non abbiente? In fondo, a stabilire che per il diabete e
l’ipertensione
passi, ma per la diagnosi pre-impianto è troppo, non dovrebbe essere
la politica? E la giustizia, recependo l’esigenza posta dai tempi
alla creazione di regole caso per caso, secondo la necessità
politica, prima di stendere la sentenza che rinnova il giudizio della
legge 40 come legge di merda, non avrebbe dovuto chiedere al
Ministero della Sanità se c’era adeguata copertura finanziaria per
consentire ad una coppia di poveracci, per giunta portatori di
talassemia, di avere un figlio sano?
Domande provocatorie, certo, ma
voglio dare per scontato che tali fossero pure le questioni sollevate da Belardelli, Ferrarella e Berruti, sennò neanche ne discutevamo e li mandavamo direttamente a fare in culo.
giovedì 14 maggio 2015
[...]
«Cultura umanista»
invece che «cultura umanistica». «Parliamoci chiari» invece che
«parliamoci chiaro». La riforma della scuola spiegata da un piazzista semianalfabeta.
Croccantini
Il
giovedì pomeriggio – non di regola come una volta, ma abbastanza spesso – mi
capita di bighellonare per le librerie di Port’Alba,
che un tempo assai di più – oggi, ahimè, quasi per niente –
erano pozzi senza fondo di volumi altrimenti introvabili, per giunta
venduti a prezzi davvero irrisori, prime edizioni, annate di riviste
ormai chiuse da decenni, intere librerie svendute in blocco da eredi
allergici alla polvere. Insomma, non è più come una volta che con due
soldi a casa ti portavi mezzo scaffale di delizie mai più
ristampate, ma intanto l’abitudine
m’è
restata, e oggi avrei in programma la solita capatina.
Fatt’è che oggi pomeriggio, a meno di cento metri in linea d’area da Port’Alba, in uno dei caffè letterari di Piazza Bellini, il mitico Pippo Civati presenta l’ultimo suo libro. La tentazione di allungarmi per andare a stringergli la mano c’è, ma mi conosco, so che farei fatica a trattenermi, comincerei a dargli consigli non richiesti sul lessico e sul look, tra il serioso e la presa per culo, insomma, risulterei sgradevole, anche se a muovermi sarebbe solo – giuro – l’enorme tenerezza che il Pippo mi scatena, la stessa tenerezza di quando su Youtube incappo in un video di gattini. E quindi eviterò di allungarmi, per evitare di allargarmi, ma poi, si sa, la tentazione è tentazione, anche perché mi prude una domanda: quando col tipaccio ci facevi le Leopolde, neanche il sospetto ti ha sfiorato di quanto fosse uomo di merda? E so che mi direbbe no, e allora sarà il caso, nel caso, che oggi nella borsa metta dei croccantini.
Fatt’è che oggi pomeriggio, a meno di cento metri in linea d’area da Port’Alba, in uno dei caffè letterari di Piazza Bellini, il mitico Pippo Civati presenta l’ultimo suo libro. La tentazione di allungarmi per andare a stringergli la mano c’è, ma mi conosco, so che farei fatica a trattenermi, comincerei a dargli consigli non richiesti sul lessico e sul look, tra il serioso e la presa per culo, insomma, risulterei sgradevole, anche se a muovermi sarebbe solo – giuro – l’enorme tenerezza che il Pippo mi scatena, la stessa tenerezza di quando su Youtube incappo in un video di gattini. E quindi eviterò di allungarmi, per evitare di allargarmi, ma poi, si sa, la tentazione è tentazione, anche perché mi prude una domanda: quando col tipaccio ci facevi le Leopolde, neanche il sospetto ti ha sfiorato di quanto fosse uomo di merda? E so che mi direbbe no, e allora sarà il caso, nel caso, che oggi nella borsa metta dei croccantini.
mercoledì 13 maggio 2015
Ci guadagneremmo solo in tanto shabadabadà
La
questione del se e del quanto la giustizia stia indebolendo la
politica – ne parlavamo ieri commentando l’articolo
di Giovanni Belardelli uscito l’altrieri
sul Corriere
della Sera
(La
giustizia onnipresente che indebolisce la politica)
– merita che si faccia un minimo di chiarezza sui termini in cui si
pone il problema, sennò a discuterne ingarbugliamo inevitabilmente
la matassa.
Senza intrattenerci troppo sui massimi sistemi, direi non
ci sia scandalo nel periodico conflitto tra poteri che lo stato di
diritto vuole separati e indipendenti: legislativo, esecutivo e
giudiziario erano in principio tre funzioni di una sola autorità,
quindi è del tutto naturale che di tanto in tanto ciascuno mostri la
tendenza ad assorbirne almeno in parte gli altri due, non foss’altro
a rammentarci che, se vuol esser mantenuto, lo stato di diritto
necessita di una costante cura e sorveglianza, non è dato una volta
e per sempre in forza di una sua intrinseca capacità di darsi
stabilità nell’equilibrio
tra i tre poteri, che infatti a volte è mantenuta, quando uno dei
tre mostra un indebolimento, con una transitoria azione vicariante di
uno degli altri due, o di entrambi.
È il caso che l’Italia
ha vissuto circa un quarto di secolo fa, quando il sistema politico,
già da decenni afflitto da una grave crisi, collassò sotto il peso
dei suoi errori: fu la magistratura a vicariare il vuoto di potere
lasciato da un ceto politico ampiamente screditato, chiamato
finalmente a render conto del suo fallimento. Era probabilmente
inevitabile che questo favorisse degli eccessi, che infatti non
mancarono, portando in breve a disdicevoli episodi di protagonismo da
parte di alcuni esponenti della magistratura, che cominciò ad
accusare un altrettanto inevitabile calo di consensi dell’opinione
pubblica che fino ad allora non aveva affatto percepito come
prevaricante, anzi, il suo ruolo di supplenza.
Di pari passo, il ceto
politico procedeva ad un riassetto che lo portava con sempre più
insistenza, e coi toni della più aspra polemica, a rivendicare le
sue naturali prerogative, di cui lamentava lo scippo.
Per quanto
abbia cercato di sterilizzarla da ogni umore di lizza, non pretendo
che questa lettura di quanto è accaduto in Italia venga unanimemente
condivisa, anzi, suppongo che sarà oggetto di critica sia da chi
pensa che quello della magistratura fu un colpo di stato, sia da chi
pensa che la sua meritoria opera di bonifica fu resa vana da quel
subdolo «cambiar
tutto perché nulla cambi» che
ridà forze al malaffare. Comunque si voglia leggerla, tuttavia, mi
auguro che questa storia possa vederci d’accordo
almeno su un punto: è la debolezza di uno dei tre poteri che lo
stato di diritto vorrebbe separati e indipendenti a renderne forte un
altro oltre il dovuto. Nel contempo, è inevitabile che il ritorno ad
una condizione di equilibrio, quando e se questa si ottenga, sia
segnato da fluttuazioni di forze di qua e di là dal limite che la
teoria dello stato di diritto fissa per ciascun potere.
E con
l’articolo di Giovanni Belardelli sul Corriere
della Sera
di lunedì 11 maggio, con quello odierno di Luigi Ferrarella, sempre
sul Corriere
della Sera
(Il
malessere delle sentenze),
e con la lettera di Giuseppe Maria Berruti sul numero de la
Repubblica
oggi in edicola (Quando
le sentenze rallentano la politica)
direi che siamo al punto in cui alla giustizia si chiede un po’
troppo, comunque assai di più di quanto spetti alla politica per suo
diritto.
Prima di passare
al commento di questi altri due contributi sul tema, però, mi è
necessaria una precisazione riguardo a un termine che ho usato anche
nel post qui sotto e che ha incontrato un’obiezione da parte di un
lettore. Infatti ho parlato di «giudici»
includendo nel termine sia i togati che nei tribunali amministrativi,
civili e penali provvedono a far rispettare le leggi per come esse
sono, sia quelli che siedono nella Consulta e che invece le
sottopongono al vaglio di costituzionalità: espediente lessicale che
intendeva mantenere la genericità di critica che Belardelli muoveva
alla «giustizia», senza alcuna distinzione
di funzione e di ruolo, per la sentenza della Corte costituzionale
che dichiara l’illegittimità
di un decreto sulle pensioni, per quella di un Tribunale penale che
ordina la
chiusura di una fabbrica responsabile di danni ambientali e alla
salute dei cittadini, per quella con la quale un Tar solleva
eccezione alla sospensione di un sindaco. Per quello che sarà
necessario al commento di ciò che scrivono Ferrarella e Berruti
potrò risparmiarmi la «confusione»
che ho ingenerato col parlare di «giudici», in senso
conseguentemente
lato: entrambi sembrano voler appuntare l’attenzione
in modo pressoché esclusivo sulla decisione della Consulta sul
taglio
delle indicizzazioni delle pensioni che era nel cosiddetto
Salva-Italia del governo Monti, e a buon motivo, perché, da un lato,
pretendere che la politica sia forte al punto da interferire con la
giustizia sull’applicazione
delle leggi era una «fluttuazione»
francamente eccessiva (in
ciò è da segnalare che l’articolo
di Ferrarella sembra voler riaggiustare il tiro di Belardelli) e,
dall’altro,
è il «buco»
che Renzi viene a trovarsi in cassa a costituire un handicap
oggettivo all’autonomia
delle decisioni politiche.
Col rischio di apparire malizioso, la
dozzina di miliardi di euro che dovrebbe andare ai pensionati azzera
il millantato tesoretto col quale il premier intendeva issare un palo
della cuccagna in vista delle elezioni regionali: quando a un premier
che galleggia su una nuvoletta di chiacchiere togli la possibilità
di raccattare consensi elargendo mance (vedi il caso degli ottanta
euro alla vigilia delle scorse elezioni europee), allora sì che la
politica – questo tipo di politica – oggettivamente si
indebolisce. Così riaggiustato il tiro, la questione può avere
anche una sua dignità, e dunque possiamo passare alla lettura di
Ferrarella e di Berruti. Il primo, ammettendo implicitamente (non
saprei dire se si tratti solo di un espediente retorico) che la Corte
costituzionale si è limitata a difendere dei diritti, si chiede
«quanti
diritti ci possiamo permettere», «quale dose di giustizia può
tollerare il nostro assetto sociale ed economico» e, col concedere
che «fino a pochi anni fa una simile domanda sarebbe suonata
bestemmia», sembra farci intendere che sono finiti i tempi in cui
diritti e giustizia erano garantiti dalla Costituzione, perché oggi
sarebbe più opportuno lasciar decidere all’esecutivo
quanto ne ce tocchino di volta in volta. «Cambiano infatti i casi,
ma il denominatore comune resta che la giurisdizione è sottoposta a
una pressione sociale molto più insidiosa di passate grossolane
ingerenze politiche»: in sostanza, con Berlusconi erano «ingerenze
politiche», per giunta «grossolane», con Renzi è «pressione
sociale». Suppongo, infatti, che in questi giorni abbiate visto le
strade piene di gente incazzatissima per la sentenza della Corte
costituzionale. No? Vabbè, sarà che affollava solo Via Solferino.
Come il lettore mi auguro abbia inteso, non riconosco all’articolo
di Ferrarella altro intento che ammorbidire la posizione di
Belardelli, per sottrarre il Corriere
della Sera
all’accusa di aver virato troppo in fretta il giudizio sull’azione
del governo, ieri guidato da un «caudillo maleducato» (De Bortoli)
e oggi impedito nel fare «una determinata scelta di politica
economica e sociale»
(Belardelli). È quella che passa per moderazione.
Di peso
notevolmente maggiore è ciò che scrive Berruti in forma di lettera
al direttore, e per «peso» intendo «grave», tanto più grave se
si tiene conto che il mittente è presidente di una sezione della
Cassazione, a indizio che anche tra i «giudici» (e qui rimando
all’accezione
cui facevo cenno prima) comincia ad esserci chi è sensibile alle
ragioni di un esecutivo che, all’indomani
di una sentenza della Consulta che ripristina dei diritti violati,
già si arrabatta a cercare il modo per aggirarla, lamentandosi
intanto che quella sentenza «fa perdere credibilità al paese in
sede internazionale» (Renzi).
Berruti scrive: «Si può dire: ma la
legge è legge, la Costituzione è nota e i governi debbono sapere i
limiti dei possibili impegni. Risposta ipocrita. I governi operano
nel presente economico e politico. Nell’attimo,
data la velocità dei mercati finanziari che richiedono risposte che
operano sul piano della pura percezione. In realtà, il problema del
contrasto tra la decisione giudiziaria, che opera su un dato di
certezza giuridica e quindi di immutabilità delle posizioni a regole
immutate, e la decisione politica che risponde alla relazione di
forza, esiste».
Sì, senza dubbio esiste, ma come andrebbe risolto?
Non con mutare le regole caso per caso, voglio sperare, né col
performarle in modo che al governo sia concesso di decidere un po’
come cazzo gli pare, sicuro che il principio di forza maggiore
giustifichi la sospensione della norma scritta. No, possiamo tirare
un sospiro di sollievo, neanche Berruti vuole questo, anzi, dice che
lo «preoccupa uno scenario che affidasse al governo poteri decisivi
e non ostacolabili». E allora? Quale sarebbe la soluzione? Non lo
dice. Dice che la democrazia «sta cambiando» (e su questo siamo
d’accordo,
basta constatare – per riprendere Ferrarella – che oggi si lavora
a rendere tollerabile la «bestemmia»), e che dunque «è urgente
una riflessione politica». Penserà mica a una Consulta i cui membri
siano scelti tutti dal governo? Ci guadagneremmo solo in tanto
shabadabadà.
martedì 12 maggio 2015
[...]
Per
Colin Crouch, che ne ha coniato il termine, la postdemocrazia
è una democrazia formale svuotata in modo rilevante di quanto in
partecipazione,
rappresentanza e decisione è sottratto ai cittadini da oligarchie di
burocrati,
tecnocrati, lobbisti, attori dell’alta
finanza, potentati economici multinazionali, organismi
intergovernativi e operatori nel campo dell’informazione.
E i giudici? Non ne fa cenno, neanche di striscio. Cosa pensare, dunque, di chi segnala il
rischio di postdemocrazia nella sentenza della Consulta che boccia
come incostituzionale il taglio delle indicizzazioni delle pensioni
incluso nel decreto cosiddetto Salva-Italia del governo Monti? È una
sentenza – dice – che causa uno «svuotamento
dell’autonomia di decisione dei governi democratici che ha indotto
alcuni a parlare
di postdemocrazia».
E chi, di grazia? D’altronde,
come avrebbe potuto parlarne, se non impropriamente, visto che con
postdemocrazia non si intende affatto uno svuotamento dell’autonomia
dei governi, ma delle prerogative che una democrazia sostanziale
assegna ai cittadini? «Non
c’è praticamente giorno – dice – in cui non
compaia qualche nuova notizia a ricordarci come molte decisioni
politiche a livello nazionale o locale dipendano dalle pronunce di un
tribunale amministrativo, civile, penale, oppure, come nel caso che
occupa le cronache di questi giorni, della Corte costituzionale».
E sarà che il ceto politico non sa prendere decisioni che non
cozzino con le leggi dello Stato, sicché accade che le infrangano: i
tribunali dovrebbero lasciar correre? Dove sarebbe il rischio per la
democrazia sostanziale, se la giustizia
si limita a dichiarare illegittime le decisioni del ceto politico che
riesce a dimostrare illegittime? Il
rischio – dice – sarebbe la «giuridicizzazione
della politica».
Ma a limitare il vaglio di legalità che i tribunali operano sulle
decisioni del ceto politico non si avrebbe di converso una
politicizzazione del diritto? E qual è il rischio maggiore?
Poi
uno smette di leggere e pensa. Pensa che in
Italia non c’è
mai stata una vera borghesia, ma solo un ceto quanto mai pleomorfo di
pezzenti più o meno arricchiti, per lo più incolti e felloni,
senz’altra
preoccupazione che cavalcare l’onda,
ma mai troppo vicino alla sua cresta, per non finirne sotto al suo
schiantarsi. Pensa che della stessa pasta è anche chi scrive sul
giornale di questa borghesia. Giornale che ad ogni onda cambia il
direttore, come di tanto in tanto certi animali a sangue freddo
cambiano pelle, ed ora ne ha uno nuovo, perché l’onda
renziana monta e non è il caso di farsi trovare impreparati. È la
stagione che celebra il ritorno dell’uomo
forte e, finché dura, in Via Solferino si suonerà la musica che
Renzi vuol sentire, sennò si incazza e manda un sms risentito. E
allora gli si suona la musica che vuol sentire.
Emmanuel Carrère, Il Regno, Adelphi 2015
Nel
1990 fu toccato dalla fede, ma durò solo tre anni. In quei tre anni,
su una ventina di quaderni, stese un commentario degli Atti
degli Apostoli.
A due decenni di distanza rimette mano al materiale per un’indagine
sul cristianesimo primitivo. Non si capisce se per alleggerirla o
appesantirla, ci infila moglie, madrina, psicoanalista, baby-sitter,
Philip Dick, un video porno amatoriale e soprattutto molto, troppo,
di se stesso. Difetto tutto francese, quello di dipingere pure sulla
cornice. Poco male, perché il libro, liberato dall’inutile, resta
una discreta opera divulgativa che ai pigri risparmia il Theissen, il
Lortz, il Vögtle... Scrittura agile, due o tre brillanti
osservazioni che rivelano una discreta capacità di cogliere la
psiche del I secolo, una leggera inclinazione alla ruffianeria verso
il lettore che tuttavia più che irritare intenerisce. Insomma, vale
la pena di leggerlo.
domenica 10 maggio 2015
Un po’ mi pento
Un
po’
mi pento del post qui sotto, ma ormai è fatta, mi serva da lezione
per le volte – rare, in verità – che cedo alla tentazione di
ritenere in buona fede un uomo di merda. Nel post qui sotto
ipotizzavo che, nell’affermare
che «la
differenza di mortalità tra chi la fa e chi non si sottopone alla
mammografia ogni due anni è di due su mille»,
Grillo riproducesse – con colpa, certo, ma non necessariamente con dolo –
l’errore
commesso da Gotzsche e Olsen in uno studio apparso su Lancet
nel gennaio del 2000, errore già ampiamente dimostrato tale, da subito, e
tuttavia di tanto in tanto riproposto da qualche autore, anche se non più in là del
2006, per essere regolarmente e tempestivamente segnalato come un granchio di analisi statistica. Ipotizzavo che la questione potesse essere risolta scendendo
nel merito, chiedendo a Grillo da quale fonte avesse attinto per
uscirsene con quella cazzata, per dimostrargli che si trattava di un
farlocco, che per giunta aveva pure digerito male, rivomitandolo nel
modo più osceno. Bene, sbagliavo. Che Grillo sia in patente malafede
è dimostrato dalla rettifica che segue ad appena dodici ore: «Non
penso che la mammografia non sia utile o necessaria. Anzi penso che
sia utilissima. Ce l’avevo con la cattiva informazione che fa
credere che facendo questo esame non venga il tumore».
Dodici ore fa ne salvava solo «due
su mille»,
ora è «utilissima»?
Non ammetti che hai detto una stronzata, nemmeno citi la fonte dalla
quale l’hai pescata per tentare di strappare un’attenuante, e che
fai, rivolti la frittata? E poi dove l’hai letto che la mammografia
è spacciata come un vaccino antineoplastico invece che essere
consigliata come indagine diagnostica? No, non meriti nemmeno di essere corretto: meriti solo fumanti palle di letame.
Is screening for breast cancer with mammography justifiable?
Ho
provato a cercarlo, volevo passarlo allo scanner e metterlo qui
sopra, ma chissà dove si sarà ficcato, insomma, non l’ho
trovato. Parlo di un articolo che fu pubblicato su Il
Mattino –
non so essere più preciso – negli ultimi mesi del 2000, tutt’al
più nei primi del 2001. Era su tre o quattro colonne, e il titolo
diceva pressappoco: «Uno
studio rivela che la
mammografia è inutile».
Nel testo si parlava del lavoro di Peter Gotzsche e Ole Olsen che era
uscito qualche mese prima su Lancet
(Is
screening for breast cancer with mammography justifiable? –
355/2000,
pagg. 129-134) e che presto aveva sollevato una furibonda polemica
sulla sua perentoria affermazione conclusiva che «screening
for breast cancer with mammography is unjustified».
In realtà, già su quello stesso numero di Lancet,
nella sezione dei commenti editoriali, Harry de Koning spiegava con lodevole
chiarezza – per quanto possa esser chiara una controargomentazione in ambito statistico – perché il lavoro fosse viziato da un metodo scorretto e da
una errata interpretazione dei dati. Il guaio è che lo faceva in modo
estremamente civile, sicché la critica, ineccepibile nei contenuti, parve sofficissima. Di fatto,
le contestazioni che negli anni successivi sono state mosse da gran
parte del mondo scientifico a chiunque riproducesse
analoghi difetti di metodo e di analisi per arrivare a conclusioni sostanzialmente simili a quelle di
Gotzsche e
Olsen (uno per tutti: Anthony Miller, Is
mammography screening for breast cancer really not justifiable?,
Recent
Results in Cancer Research,
163/2003, 115-128) erano già tutte nelle obiezioni di de Koning. La realtà è che lo screening torna di estrema utilità, e con un abbattimento
della mortalità che varia dal 30 al 63% secondo la popolazione presa
in oggetto per fascia di età. Purtuttavia sembra che a chi voglia
mettere in discussione un dato indiscutibile e per giunta con argomenti ormai ampiamente
destituiti di ogni fondamento – è il caso del Il
Mattino,
quindici anni fa, e di Grillo, ieri – non manchi mai l’opportunità di farsi sentire, persino di farsi ascoltare, coi danni che non è difficile immaginare. È che, per sua natura, la bufala ha radici profonde e robuste, non la si estirpa senza scavare fino in fondo. Invece di urlare a Grillo che è uno sconsiderato – sulla qual cosa non c’è dubbio, ma dirglielo non risolve niente – gli si chieda la fonte dalla quale ha attinto, gli si chieda di difenderne l’attendibilità a fronte di ciò che la confuta senza possibilità di appello.
sabato 9 maggio 2015
[...]
«Con
l’Italicum
adesso Cameron dovrebbe andare al ballottaggio», s’affretta
a far presente Renzi, e questo dà ennesima conferma di quanto sia
cazzaro, perché nel Regno Unito c’è
il maggioritario e il bicameralismo, e già questo rende impossibile
ogni paragone con l’Italia, tacendo della separazione tra il potere esecutivo e quello legislativo che lì è assicurata da secoli e che qui di fatto con l’Italicum andrà a farsi fottere.
venerdì 8 maggio 2015
Soft o, se preferite, light
Per
quanto il tempo possa cambiare anche profondamente il significato che
un termine ebbe in origine, nel suo significante resta immutata,
anche se solo in parte, e a volte esigua, l’evocazione
a ciò che il tempo ha tradito. Così è col termine partito,
che non bisogna affaticarsi troppo per capire tragga il significante
dalla parte di un
tutto, e che nell’espressione
partito della nazione tradisce il suo significato originario
per l’accostamento di un termine
che gli è antitetico, nella
costruzione di un ossimoro, cioè di una figura retorica che ha fine
eminentemente esornativo e provocatorio. Nel porci la questione di
cosa possa significare partito della nazione,
dunque, occorre chiederci quale sia l’oggetto
col quale si vorrebbe destare in noi la meraviglia per una sintesi
che la logica ci dice impossibile, e a quale abbellimento è
sottoposto per convincerci sia sintesi felice. Non possiamo far altro
che analizzare i cambiamenti che il tempo ha prodotto a carico di due
significanti come partito
e nazione.
C’è
stato un arco storico relativamente ampio – diciamo dalla metà del
Settecento alla metà del Novecento – nel quale al termine partito
non si è più dato il significato
prevalentemente negativo di fazione
che aveva prima e che ha riacquistato dopo. Col venir meno di una
visione organicistica della società, infatti, si è smesso di
avvertire come deleteri i contrasti che impegnano le fazioni avverse
presenti in essa, anzi, si è cominciato a sentirli come fisiologici,
fino ad arrivare a considerarli un vero e proprio motore di
democrazia e di progresso. È la stagione storica, questa, che vede
il trionfo del principio maggioritario, che ai partiti assegna il
ruolo di competitori per la guida di una nazione, riconoscendo ad
essi la legittimità di rappresentare i molteplici e contrapposti
interessi che accomunano differenti gruppi di individui. È per
questo che la struttura del partito riproduce giocoforza quella di un
esercito, ma qui il fine è la conquista della maggioranza dei
consensi, grazie alla quale è assicurato il ruolo di governo, mentre
a chi esce perdente dalla competizione è assegnato il ruolo
dell’opposizione,
alla quale viene riconosciuto e assicurato il diritto di ribaltare
gli esiti della battaglia persa col libero esercizio della
persuasione sull’opinione
pubblica.
Per
il ruolo che una fazione viene così ad assumere in questo contesto,
il fatto che un partito possa restare associazione privata, senza
personalità giuridica, e nel contempo avere il monopolio della
funzione pubblica che attraverso le elezioni esprime la guida del
governo, è premessa ad ogni deviazione del sistema partitico delle
cosiddette democrazie di massa in forme di parassitamento e abuso
della funzione di rappresentanza, e di queste deviazioni ne abbiamo
un lungo elenco, che qui non sarà il caso di ristendere: per
rispondere alla domanda che ci siamo posti – cosa c’è
dietro la sintesi impossibile che ci è spacciata con l’ossimoro
di un partito della nazione?
– basterà citare solo la trasformazione della leadership in
proprietà di fatto dell’organizzazione, della dirigenza in
comitato elettorale, della militanza in mero catalizzatore di
clientela e fidelizzazione, dell’elettorato in platea di
consumatori di un prodotto mediatico.
La sintesi impossibile offerta
da un partito della nazione,
dunque, si inscrive in tale contesto come proposta di una sospensione
di ogni conflitto sociale, assicurata dalla meraviglia di un ossimoro
che in realtà è una metonimia: la parte pretende di essere il
tutto, di poterlo interamente rappresentare in modo organicistico,
con la coincidenza di leader in partito, di partito in nazione e di
nazione in stato. Probabilmente la pace sociale avrà la forma di un nuovo corporativismo. Possiamo anche evitare di chiamarlo fascismo, così
ci evitiamo le sarcastiche punture delle piattole che pullulano nelle
sue più comode pieghe, ma il progetto è quello della sospensione
delle più elementari dinamiche democratiche, surrogandone le cinetiche col cliccare un like alle parole d’ordine lanciate on line dal leader del Partito della Nazione. È il progetto di un totalitarismo che
si offre soft o, se preferite, light. Ma è totalitarismo.
[...]
Visto
che già da qualche tempo va prendendo piede l’uso
del termine renzismo,
credo non sia affatto superfluo cercare di darne una definizione sul
piano lessicale, sicché al netto di ogni giudizio in merito si possa
concordemente convenire su cosa esattamente sia. Ora, se per
definizione
è da intendersi l’individuazione
e l’illustrazione
delle proprietà essenziali che danno piena ragione della relazione
funzionale tra significante e significato, che poi sarebbe la
definizione di definizione
che più compiutamente dà conto di ontologia, logica e linguaggio,
il nostro tentativo non può procedere che dal decidere in quale
categoria di termini che sfruttano il suffisso -ismo
sia più opportuno collocare il renzismo.
Con l’-ismo,
in questo caso, saremmo dinanzi a una dottrina?
Penso si debba escluderlo. Nulla, infatti, nel renzismo
rimanda ad un organico sistema di principi, anzi, direi che in questo
caso ne sia esplicito il rigetto, per la rigidità che sempre
caratterizza un simile costrutto. Il renzismo,
infatti,
rivendica con orgoglio il rifiuto della dimensione ideologica, e
dunque è quanto mai distante da qualsivoglia impianto di tipo
dottrinario, in favore, al contrario, di un insieme di assunti
valoriali – chiamarli principi sarebbe improprio – così
eclettico, mobile e disarticolato da rendere del tutto vana la
ricerca di un criterio che dia ad essi una struttura sistematica. E
allora, se non è una dottrina, cos’è
il renzismo?
In quale categoria di termini che sfruttano il suffisso -ismo
è da porre? Direi
non abbia a trovar posto nella
categoria di termini che indicano movimenti religiosi, filosofici,
letterari, artistici, tanto meno in quella che include fenomeni
fisici, funzioni organiche, processi naturali, ecc. Rimangono solo
due categorie, ma entrambe molto eterogenee, per giunta con un’ampia
area di intersezione. Anticipo fin d’ora
che a mio modesto avviso il renzismo
si situi proprio in questo sottoinsieme comune alle due categorie di
termini che ancora non abbiamo preso in considerazione, e cioè a
quella che include fenomeni sociali – dunque anche politici, seppur
nell’accezione
più ampia del termine – e a quella nella quale troviamo tutto
l’ampio
spettro delle configurazioni caratteriali che sono oggetto della
riflessione morale e di quella psicologica. A scanso di equivoci,
però, è bene precisare che quando la politica rigetta la dimensione
ideologica – e questo, come abbiamo già detto, è il caso del
renzismo
– accade giocoforza che sia portata a dare notevole risalto ai
tratti della narrazione individuale o collettiva che va a surrogarne
l’elemento
identitario, indispensabile a darle una cifra che serva a farla
riconoscere, e questo, di regola, implica la fondazione di uno
statuto
etico-estetico, il quale, a differenza di una Weltanschauung,
non è tenuto a darsi una logica di sistema. Ne consegue che l’-ismo
perderà,
allo stesso tempo, sia ciò che conferisce peculiarità di
connotazione sul piano della teoria politica, sia ciò che consente
l’individuazione
descrittiva di un profilo morale o psicologico. Con ciò siamo
nell’area
di intersezione cui facevo cenno prima, e il renzismo
vi si inscrive a pieno titolo proprio in virtù di questa doppia
perdita: patente inclinazione a esplicitarsi tutto nei mezzi
piuttosto che nei fini, con ciò esaurendo in mera postura tattica
una ambivalente, quando non ambigua, contraddittoria e perfino
confusa, posizione politica; ipertrofia del carattere in maschera,
con ciò che ne consegue in fissità e regressione della
configurazione morale o psichica del modello che si accredita.
giovedì 7 maggio 2015
Robe incredibili
Certo,
chi gestisce il traffico dei migranti nel Mediterraneo li stipa su
barconi più o meno come nei secoli passati i negrieri stipavano
sulle loro navi i disgraziati che deportavano dall’Africa
per venderli come schiavi ai proprietari delle piantagioni di cotone
in Alabama, ma usare il termine «schiavismo»
per definire il fenomeno delle migrazioni è manifestamente
improprio, perché lo schiavo era strappato a forza dalla terra
dov’era nato, mentre il migrante
fa di tutto per abbandonarla, e per necessità, senza dimenticare poi
che lo schiavo era merce di scambio tra un venditore e un acquirente,
mentre nel caso del migrante è lui che paga, e per un posto a bordo del
natante. Definire «schiavismo»
il trattamento cui sono sottoposti i migranti che dalle coste
dell’Africa
settentrionale arrivano in Italia,
insomma, è una stronzata.
Per meglio dire, lo era fino a ieri. Oggi un ministro dichiara di avere in testa l’ideuzza
di emanare una circolare che autorizzi i comuni cui sono destinati i migranti
che arrivano in Italia a farli lavorare, ma a gratis. Siamo dinanzi a un bell’esempio
di ribaltamento della logica piana: visto che il termine «schiavismo»
è improprio a definire la condizione dei migranti, non lo si evita,
ma si trasformano i migranti in schiavi. Un po’
come se a me scappasse di dire –
sia chiaro che è un’ipotetica del terzo tipo, non mi permetterei
mai nei confronti di un ministro – che
un’idea del genere è da vero stronzo, e non avessi neanche il tempo di dirmi mortificato e di chiedere umilmente scusa perché subitamente il
ministro mi diventa approssimativamente cilindrico e sostanzialmente
marrone. Robe incredibili.
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