Ma guarda tu la coincidenza. Arriva
un’altra
sentenza della Consulta che sembra fatta apposta per rilanciare la
questione posta di recente da chi lamentava
che «non
c’è praticamente giorno in cui non compaia qualche nuova notizia a
ricordarci come molte decisioni politiche dipendano dalle pronunce di
un tribunale amministrativo, civile, penale, oppure della Corte
costituzionale»,
e lanciava l’allarme
che ’sta
cazzo di «giustizia
onnipresente indebolisce la politica» (Giovanni
Belardelli – Corriere
della Sera,
11.5.2015); sentenza che sembra fatta apposta per rinnovare la
preoccupazione di chi non arrivava a dire che le sentenze non debbano
ripristinare i diritti violati se questo mette in difficoltà lo
Stato che li ha violati, ma andando per le ellittiche chiedeva
«quanti
diritti possiamo permetterci?» (Luigi
Ferrarella – Corriere
della Sera,
13.5.2015); sentenza che sembra fatta apposta per far girare i
coglioni a chi diceva che, certo, non si discute, «la
legge è legge»,
però, col mondo che gira sempre più veloce, la giustizia non può
essere più «attività
di accertamento della legge come è»,
ma deve diventare «attività
di governo dell’esistente»,
«creazione
della regola caso per caso»,
sensibile alla «necessità
politica» (Giuseppe
Maria Berruti – la
Repubblica,
13.5.2015).
Accade
che, dopo averne già abbattuti altri due nel 2009 e nel 2014, la
Consulta abbatta un terzo pilastro della legge n. 40 del 19.2.2004
(Norme
in materia di procreazione medicalmente assistita),
della quale adesso resta in piedi poco o niente. Legge che fu approvata da
un Parlamento democraticamente eletto. Legge che, peraltro, su
quattro dei suoi punti fu sottoposta al vaglio referendario, che non
ne corresse neanche una virgola. È un caso, insomma, al quale calza
ottimamente il paradigma di una giustizia che indebolisce la politica
(anche qui rivelandone le carenze di cultura giuridica), di diritti
violati il cui ripristino implica un costo alla collettività (qui
non eccessivo, ma comunque a carico del servizio sanitario
nazionale), del sacrificare la necessità politica all’applicazione
della norma costituzionale così com’è
(nel caso di specie, sacrificare all’art.
32 della Costituzione tutto quello che si era guadagnato leccando il
culo al cardinal Ruini).
E dunque? Come avrebbe dovuto comportarsi,
la Consulta, per evitare che chi ha votato la legge 40 rimediasse l’ennesima
figura di merda? Non ne ricava analoga figura anche il Paese che per
tre quarti si astenne quando fu chiamato a esprimersi su quella
legge, così riconfermandola? Ed è delicato che la Corte
costituzionale faccia presente che la volontà popolare, ancorché
espressa con la strafottenza, conta meno di niente quando è in
patente contraddizione con la Carta? È giusto che adesso il
contribuente debba accollarsi anche la spesa della diagnosi
pre-impianto per chi il sistema sanitario nazionale solleva da oneri
perché non abbiente? In fondo, a stabilire che per il diabete e
l’ipertensione
passi, ma per la diagnosi pre-impianto è troppo, non dovrebbe essere
la politica? E la giustizia, recependo l’esigenza posta dai tempi
alla creazione di regole caso per caso, secondo la necessità
politica, prima di stendere la sentenza che rinnova il giudizio della
legge 40 come legge di merda, non avrebbe dovuto chiedere al
Ministero della Sanità se c’era adeguata copertura finanziaria per
consentire ad una coppia di poveracci, per giunta portatori di
talassemia, di avere un figlio sano?
Domande provocatorie, certo, ma
voglio dare per scontato che tali fossero pure le questioni sollevate da Belardelli, Ferrarella e Berruti, sennò neanche ne discutevamo e li mandavamo direttamente a fare in culo.