«Prendere in mano il
libro d’uno scrittore vivente e, a giusta ragione, stimato;
ripetere alcune sue proposizioni, esaminarle punto per punto, trovare
in tutto che dire, fargli, per dir così, il dottore a ogni passo, è
una cosa che, a lungo andare, è quasi impossibile che non lasci una
certa impressione di presunzione, e di basso e insistente litigio.
Per prevenire questa impressione, non dirò al lettore: vedete se non
ho ragione ogni volta che prendo a contraddire: so e sento che l’aver
ragione non basta sempre a giustificare una critica, e soprattutto a
nobilitarla. Ma dirò: considerate la natura dell’argomento».
Alessandro Manzoni,
Osservazioni sulla morale
cattolica
I. La
decisione di sospendere l’aggiornamento di queste pagine nasceva,
come ho provato a spiegare, dall’insofferenza alle norme che da
qualche tempo sono vigenti nella comunicazione pubblica, e che di
fatto abrogano quelle della retta argomentazione, sempre violate da
quando esiste il mondo, questo sì, ma mai come negli ultimi anni
dichiarate formalmente invalide sull’assunto che nel foro sia
legittimo cercare, e dunque legittimo ottenere, la persuasione col
piegare la logica al paralogismo: dichiaravo, in sostanza, che nel
foro pubblico la mia scrittura potesse tutt’al più assolvere al
compito di testimoniare la cocciuta fedeltà a norme ormai desuete,
riconosciute valide solo in contesti sempre più marginalizzati. Se
questo è l’andazzo che ormai segna la comunicazione pubblica sugli
affari correnti, tutto si esaspera su quelli speciali, e questo è
quel che accade in queste ore, con lo spaccio di narrazioni che non
lasciano dubbi: si cercano e si offrono semplificazioni che possano
nutrire l’emozione, renderla sazia di certezze facilmente
commestibili, per reclutare l’opinione pubblica in opposte fazioni
armate di sentimento e di risentimento. E tutto questo accade
proprio nel momento in cui dovremmo sforzarci di non fare il gioco
dei terroristi, e invece anche stavolta è proprio quest’uso
improprio dell’emozione a farci correre
il rischio di dar loro un consistente aiuto nel riuscire a ottenere
proprio quello che si prefiggevano.
Voglio
dare per scontato sia solo l’emozione
a farci correre questo rischio: voglio sterilizzare ogni sospetto che
qualcuno stia tentando di strumentalizzarla, con ciò rendendosi di
fatto complice dei terroristi, e tuttavia spacciandosi come il suo
più fiero nemico; voglio evitare il ben che minimo cenno a quel fin
troppo generoso tributo di compassione che, a dispetto d’ogni buona
fede, ci consente di sentirci esentati dal dovere di capire, per
quanto ci sia dato; voglio astenermi perfino dal segnalare le patenti
incongruenze cui l’emozione trascina, demolendo in pochi istanti
ciò che abbiamo faticosamente costruito in decenni di sforzi
personali e in secoli di impegno collettivo. Cercherò di essere
bonario, diciamo, ma per essere onesto fino in fondo devo premettere
che lo spettacolo che vedo scorrere in queste ore non mi assicura di
riuscirci, perciò avviso che potrei risultare irritante
nell’attribuire ignoranza o malafede a chi sta dando prova di
credere o voler far credere che il problema posto dai fatti di Parigi
stia tutto nell’islam oppure, di converso, nelle politiche
imperialistiche dell’occidente capitalistico: costruzioni che
reggono solo su pseudoargomenti, che tuttavia sono riusciti a
conquistare tanto successo da risultare inattaccabili perfino
all’evidenza che l’imperialismo sia una categoria ormai
inservibile per dar ragione degli interessi del capitalismo e che di
islam ce ne siano almeno tre o quattro. Le rappresentazioni di comodo
vincono su ogni tentativo di leggere ciò che accade.
II. Ora
che i fatti del 13 novembre non sono più in cima ai temi del
dibattito pubblico, e al punto che forse a tanti già non basterà la
sola data per richiamarli con immediatezza alla memoria, è possibile
qualche considerazione che per freddezza di argomento sarebbe apparsa
sconveniente nel tumulto delle emozioni – dolore, rabbia, paura –
scatenato dagli eventi. A chi voglia prendervi parte senza correre il
rischio di procurarsi cattiva fama, infatti, il dibattito pubblico
impone la regola di non arrecare la ben che minima offesa alle
emozioni che sono prevalenti nel momento in cui si prende la
parola, offesa che talvolta risulta gravissima anche al solo sospetto
che esse non siano pienamente condivise, figurarsi il concedere che
siano pienamente condivisibili, ma per ciò stesso rammentare quanto
siano in tutto funzionali al disegno terroristico. E dico rammentare,
perché il terrorismo è stato studiato a fondo, sappiamo cosa sia, a
cosa veramente miri, come si serva proprio delle emozioni che scatena
per ottenerlo, quanto più facilmente riesca nello scopo quanto meno
si riesca a offrirgli altro che quelle, coi loro ciechi automatismi.
Oggi, ad appena un mese dalla strage di innocenti consumatasi a
Parigi, dolore, rabbia e paura riverberano quasi esclusivamente nella
loro eco, nella quale finiranno per spegnersi fino a quando non
saranno riaccese dal prossimo attentato terroristico: siamo
nell’intervallo concessoci per
poter rammentare che il terrorismo è teatro, che le sue vittime sono
solo un mezzo, che il vero fine dei terroristi è quello di suscitare
paura, dolore e paura in platea, per condizionare le opinioni,
piegarle alla convinzione che la risposta migliore a una strage sia
proprio quella cui la strage mirava, dando il destro ai governi di
farsi complici più o meno consapevoli, più o meno interessati, di
chi ha seminato il terrore. In questa occasione, con chi ha
riproposto la tesi che fossimo dinanzi all’episodio
di una guerra di religione, possiamo dire di essere stati al gioco
dei terroristi, che infatti non si risparmiano per convincerci sia
davvero così. Anche in questo caso, come sempre d’altronde,
la religione è mera sovrastruttura degli interessi che ne fanno il
vessillo in battaglia.
III. I
dizionari etimologici sono soliti dar conto in modo estremamente
algido di controversie che a volte sono state incandescenti sul donde
di alcuni lemmi. Uno di questi è legge,
che a lungo s’accettò
venisse da ligare,
e cioè legare,
dunque obbligare,
fino a quando sortì chi sostenne venisse da legere,
e cioè scegliere,
raccogliere,
ma anche eleggere
e
prim’ancora
– letteralmente – leggere,
ben presto trovandosi d’affianco,
e poi opposto, chi affermava venisse da λέγειν,
che insieme sta per dichiarare,
proclamare,
esporre,
ma anche – estensivamente – ordinare,
e con la stessa duplicità di significato che questo verbo conserva
in italiano (comandare
e
mettere
in ordine).
Litigarono per qualche secolo, poi, quando parve che la disputa
potesse ritenersi destinata a non avere un vincitore, e le tre tesi
dovessero convivere nel compromesso, accadde un fatto nuovo: scese in
campo chi affermò che legge
venisse
dal celtico legh
o
dal sassone lagh,
participi passati di verbi che stanno per porre,
stabilire,
fissare.
Lì la disputa si riaccese, cominciando a farsi, a fasi alterne, ora
semasiologica, ora onomasiologica, fin quando schizzò dall’ambito
in cui era nata per andare ad appiccare fuoco in quello della
filosofia politica: posto che la legge proclama e stabilisce e ordina
e obbliga – così qui la questione fu riformulata – quale delle
quattro funzioni implica le altre tre? Questione che a ben vedere,
dunque, rimaneva su un donde, però spostando l’attenzione
dal significante al significato. Ci si cominciò a chiedere: la legge
è
antecedente e superiore all’uomo
(perché in ultima analisi è sempre divina e/o naturale, e dunque
non può che sostanziarsi in obbligo, in aderenza a una verità che,
essendo prima, conviene resti ultima) o è piuttosto la soluzione che
di volta in volta l’uomo
si dà per far fronte a bisogni che sono inevitabilmente sempre
nuovi, perciò ricontrattualizzandone incessantemente i termini, che
in sostanza sono quelli propri a un pattuire? Anche qui, dove tuttora
si consuma, è difficile che la disputa possa chiudersi in modo
definitivo, tanto meno che se ne possa prevedere l’esito.
Dev’essere
per questa ragione che Carl Schmitt elude la questione del donde
venga lex
e
tutta la sua attenzione va a νόμος
(Der
Nomos der Erde,
I, 4), il cui etimo sterilizza il problema se la norma preceda l’uomo
o lo segua. Se νόμος,
infatti, è quanto divide, ripartisce e assegna la proprietà con
quanto le allegato in termini di potere, la sua origine sta
certamente prima di ogni patto, che di fatto subentra solo a sancire
la divisione, la ripartizione e l’assegnazione,
ma certamente dopo che sia dato ciò che è da dividere, ripartire e
assegnare, sicché nel limite che separa, circoscrive e conferisce si
trova la coincidenza di trascendente e immanente, e questo taglia la
testa al toro: la norma – così risolve – sta in una dimensione
ancestrale che precede la storia, anzi potremmo dire che addirittura
la generi, e donde tragga origine a sua volta diventa questione che
rimanda alla natura umana, sulla quale è opportuno discutere in
altra sede, dove d’altronde
trova ulteriore accantonamento, perché con «teologia
politica» il
donde torna ancora alla coincidenza di trascendente e immanente,
soluzione che può tornare comoda per ogni teocrazia e per ogni
cesaropapismo. Non così se la questione parte dal dove venga
la legge,
perché, se lega, elegge, ordina o fissa, resta insoluto il problema
di cosa o chi la muova a farlo, e come abbia acquistato questo
potere. Discorso a parte è quello sulle armi che si impiegano nel
sostenere l’una
o l’altra
delle ipotesi sul donde venga la legge:
ad esse si affidano le sorti di una partita che evidentemente è
fatale, dunque si penserebbe debbano essere micidiali, di fatto
tuttavia non sono mai troppo diverse dagli attrezzi coi quali gli
etimologi scavano in cerca di radici. È che, al pari del seme, che
si estende verso il basso, perdendosi in profondità spesso
insondabili, ma pure verso l’alto,
con uno sviluppo quasi sempre imprevedibile, ed è in questo –
semplicemente in questo, che poi è il suo destino, verso l’alto
e verso il basso – che il seme va irrimediabilmente perso, anche
l’origine
di un lemma diventa privo del senso primigenio nel suo proiettato
anteriore e in quello posteriore. Nell’impossibilità
di riandare al momento della semina (altra cosa è rappresentarsela,
ma qui subentra l’arte
storiografica, necessariamente al servizio di questo o quel
committente), non resta che andare a considerare quel che di sé il
seme riproduce in seno al frutto: si può almeno – ecco cosa ci
rimane – tentare di riconoscere la legge
in
seno a ogni singola legge, ma, quand’anche
vi si riesca – e chi può mai dire d’esserci
davvero riuscito? – resta il fatto che si è sempre ben lungi dal
poter essere certi su chi davvero sia il soggetto che le ha dato
profondità e altezza, mentre resta assodato solo che questi ne abbia
avuto il potere, senza che peraltro neppure si possa fare un passo
avanti nel capire se ciò gli fosse intrinseco ab
origine o
gli sia stato conferito, ed eventualmente quando, e come, e da chi.
Per meglio dire: questi problemi sono sempre – irrimediabilmente –
spostati in altro ambito, quello mitologico o quello storico, dove
daranno luogo ad altre dispute, ma di fatto, per quanto sia possibile
tracciare il farsi di una singola legge fino al più minuto dei suoi
dettagli, la legge
che
ne ha guidato il farsi resterà comunque inaccessibile alla piena
comprensione. Ancora meglio, e perché l’affermazione
non suoni come radicalmente scettica come se messa in mano a un
novello Sesto Empirico: ci resterà oscuro il modo in cui la ratio
che
la informa, e che probabilmente potremo pure dire riconoscibile con
un buon margine di approssimazione, sia poi riuscita a farsi attiva
in essa. Perché, alla fin fine, la natura del potere rimane oscura
anche a chi lo detiene, e forse è proprio per questo che teologia e
politica furono a lungo inestricabili, e per millenni il λόγος
del
λέγειν
parve
la ratio
che
dall’onnipotenza
di Dio scendesse ad ipostatizzarsi nel potere dell’uomo.
È sconsolante – tanto sconsolante, a volte, da doverlo rimuoverlo
– ma chi governa (rectius:
chi legifera e impone il rispetto delle leggi) spesso non ha pieno
controllo della ratio
che
lo muove: la legge
– diremmo
– lo attraversa. Con ciò, sia chiaro, non si vuol disconoscere che
nel suo agire siano evidenti i fini che lo spingono all’azione,
né si vuol sminuire il fatto che essi rispondano sempre ad interessi
miranti a dividere, ripartire e assegnare, per la ridefinizione del
limite che separa, circoscrive e conferisce: semplicemente qui si
afferma che la ratio
che
muove il legislatore trascende i suoi calcoli quand’anche
siano giusti, ed è per questo che la governabilità di un popolo
resta in ultima analisi nella capacità di convincerlo che il donde
della legge
riposi
nel compromesso tra le ipotesi sul suo etimo. In sostanza, che il
potere non si sappia donde venga, ma che si legittimi nell’esserci.
Un’aporia
che si scioglie in una tautologia. E sia ben chiaro che questo vale
per ogni genere di legge, da quella morale a quella fisica, da quella
che fonda la logica a quella che si traduce in norma sintattica. La
legge
è
legge,
e le leggi la contemplano.
IV. Tutti
i gesti coi quali l’anima
fece cadere ad uno ad uno ogni suo velo l’avvilupparono
in una fitta ipocrisia, sicché allo stolto, infine, parve nuda,
tremante, e invece era tutta infagottata di tutto il suo gesticolato,
e non tremava per pudore o freddo: il suo era il sussulto d’un
ghigno. Stava al centro del romanzo, fingendo un bel rossore di
verecondia, ma dentro – nell’anima
dell’anima
– c’era
la fiera perfidia di avere infinocchiato il lettore.
V. «La forza di un argomento – dice Chaïm Perelman – dipende dall’adesione degli ascoltatori alle premesse dell’argomentazione, dalla pertinenza di quest’ultima, dal rapporto prossimo o remoto che essa può avere con la tesi sostenuta, dalle obiezioni che le si potrebbero muovere, dal modo con cui si potrebbe confutarle». Nella forza di un argomento – tiene, però, a precisare – «si mischiano, in modo quasi inestricabile, due qualità: l’efficacia e la validità». Di qui l’impossibilità di dare per scontato che un argomento sia valido per il solo fatto che si riveli efficace, ma anche di poter essere sicuri che esso possa rivelarsi efficace per il solo fatto di esser valido, e Chaïm Perelman ne dà ragione col dire che «l’efficacia di un argomento è relativa all’uditorio [sicché] è impossibile valutarla senza far riferimento all’uditorio cui esso viene presentato», mentre «la validità, al contrario, è relativa a un uditorio competente, nella maggior parte dei casi all’uditorio universale». Ne conseguirebbe che l’efficacia di un argomento sia il fine cui solo la validità può offrirsi come retto mezzo: giacché a nessuno sfugge che la retorica sia un’arte affine a quella bellica, sarebbe come a dire che ci si possa dire vincitori sul campo solo se nel corso della battaglia si siano rispettate delle ben precise regole. Sappiamo che questo non accade, e non è mai accaduto: nobile o meno che fosse il fine per cui si entrasse in guerra, la regola di risparmiare le popolazioni civili non si è quasi mai rispettata; né mai ci si è fatto scrupolo nell’uso di fallacie per vincere una causa, quando sentita giusta, sebbene non lo fosse, e non lo fosse proprio perché difesa da argomenti invalidi, poco importa se non ve ne fossero di validi spendibili, o ve ne fossero, ma non venissero spesi. In ciò la retorica mostrò fin dagli esordi il grave limite posto al suo statuto fondativo: nata per trasformare il campo di battaglia in foro, e la forza bruta in logica, ben presto fu costretta a fare i conti con l’impossibilità di separare quanto fosse valido da quanto risultasse efficace. Come la democrazia, nata perché la legge fosse uguale per tutti («competente» e «universale», diciamo), così la logica che informa la retta argomentazione: giacché «la forza di un argomento dipende dall’adesione degli ascoltatori alle premesse dell’argomentazione, dalla pertinenza di quest’ultima, dal rapporto prossimo o remoto che essa può avere con la tesi sostenuta, dalle obiezioni che le si potrebbero muovere, dal modo con cui si potrebbe confutarle», era ed è sufficiente che il foro non sia «competente» perché da giudice si trasformi in oggetto conteso. Può dolere a chi scenda nel foro aspettandosi il giusto verdetto da un «uditorio competente» perché «universale» (un uditorio che riconosca la cogenza delle norme che informano la logica, rigettando col dovuto sdegno la loro violazione e, ancor più, i mezzucci per aggirarle), ma si rassegni: quasi mai le premesse saranno tali da premiare le sue attese, che dunque, a condizioni date, sono legittime solo dinanzi a un giudice tutto fittizio, sostanzialmente aleatorio. Chi scende nel foro con la certezza che un argomento valido possa anche risultare efficace compie un atto di fede nell’onnipotenza della logica, che in realtà può solo dove, come e quando le è lasciato spazio per mettere ordine, a prezzo di un sacrificio che è insostenibile per la gran parte degli umani, e non si può pretendere. Tutto sommato, potremmo dire che pretendere di aver ragione su un argomento invalido sia …
Ma come cazzo mi viene di star lì a rotolare dolorante, urlando «arbitro! arbitro!»?
VI. «Cesare Abbo aveva portato dalla natura un temperamento estremamente lussurioso. Appartenente a famiglia ricca e di ottime origini, che godeva di gran credito nella migliore società, egli si era abbandonato giovanissimo a tutti gli eccessi, ed aveva sciupato il proprio patrimonio nel giuoco, nella crapula, negli stravizi di ogni genere, seminando il sentiero della sua vita di vittime infelici della sua foia. [...] Compromesso da una serie di fatti turpi Cesare Abbo, per non incorrere in guai maggiori, dovette lasciar Roma e lo stato pontificio. Dopo aver passato qualche anno soggiornando in varie città d’Italia, passò all’estero e finì collo stabilirsi a Parigi, dove, dato fondo fino agli ultimi resti della sua fortuna, aveva dovuto, per vivere, ricorrere alla sua cultura e trar profitto dalle sue cognizioni. [...] Riparato a Liegi ebbe un posto di professore in un collegio cattolico e corruppe una quantità di fanciulli affidati alla sua cura, suscitando uno scandalo gravissimo e facendosi istruire un processo, dal quale non sarebbe uscito incolume, senza l’aiuto della famiglia la quale riuscì ad assopire la cosa. Era stato in quel mezzo investito della sacra porpora un suo nepote in linea femminile e questi spiegò tutta la sua influenza a favor dello zio. Erano passati di molti anni e la memoria dei fatti di Cesare Abbo era impallidita a Roma. Il cardinale, fatte le debite diligenze pensò di richiamarlo a sé, e gliene fece la proposta per lettera. L’offerta non poteva essere più lusinghiera e vantaggiosa per il lussurioso e randagio buontempone. Egli vide aprirsi innanzi un nuovo orizzonte e si promise di approfittare largamente di tutte le gioconde prospettive che esso gli presentava. Chiese ed ottenne di entrare negli ordini e sorvolando per volere del nipote a tutte le difficoltà, vincendo tutti gli ostacoli, fu fatto prete in breve volger di tempo, mutando il suo nome di Cesare troppo compromesso in quello di Domenico. […] Il cardinale fu molto sorpreso di trovarsi avanti uno zio che pareva meno anziano di lui, quantunque foss’egli il più giovane dei membri del sacro collegio; investito della porpora cardinalizia da Sua Santità Gregorio XVI per la grandissima dottrina ond’era fornito. Tuttavia sedotto dai modi squisitamente signorili del neoprete, giudicò che sarebbe tornato di lustro alla sua corte e gli fece pertanto le migliori accoglienze. [...] Domenico Abbo conservò per parecchio tempo un contegno castigatissimo ed una condotta irreprensibile. […] I favori di Gregorio XVI uniti a quelli del cardinale nipote nocquero all’antico libertino. Imbaldanzito, egli non avea più veruna cura ad occultare i suoi intrighi colle belle penitenti. I sontuosi pranzi, le luculliane cene incitavano sempre più i suoi sensi e le lascivie succedevano alle lascivie degeneranti in oscenità indescrivibili. Le spose e le zitelle non bastavano più alla sua foia invereconda e andava ripescando nella storia della prostituzione greca, assira, babilonese i più infami riti per soddisfare le luride sue cupidigie. Appositi provveditori gli procuravano teneri garzoncelli, ai quali imprimeva il marchio della sua libidine, escogitando sempre nuovi adescamenti, per ravvivare la sua sensibilità ed acuirla, quando sembravagli intorpidita. Egli rinnovava nel palazzo stesso del cardinale le neroniane orgie di Capri e di Baia, giungendo ad infiggere degli spilli nelle carni de’ giovinetti pazienti, che si assoggettavano alle sue lubriche voglie, per trar godimento più intenso dai sussulti che cagionavan loro gli spasimi delle atroci punture. […] Avvertito una notte che nell’appartamento dello zio doveva aver luogo una delle solite orgie, deliberò di assistervi e di piombare su Domenico Abbo, al momento opportuno, per cacciarlo dal palazzo, come nostro signor Gesù Cristo cacciò i mercatanti dal tempio». È qui che accade il fattaccio: lo zio prete uccide il nipote cardinale. A morsi.
Si tratta di stralci da Mastro Titta (Le memorie del boia di Roma. Memorie di un carnefice scritte da lui stesso), pubblicato in Roma, presso la Tipografia Perino, nel 1891. Anonimo l’autore, che in molti hanno individuato in Ernesto Mezzabotta, liberamente ispiratosi agli appunti lasciati da Giovanbattista Bugatti, boia della Roma papalina, ritrovati da Alessandro Ademollo, che ne curò la pubblicazione per l’editore Lapi, in Città di Castello, nel 1886. Ispirazione estremamente libera, basti pensare che «nepote carnale» diventò «nepote cardinale» per costruirci sopra il romanzaccio che abbiamo scorso nei soli passaggi salienti (nel Mastro Titta copre ben sei capitoli, dal LXXXII al LXXXVII).
È il diario del principe Agostino Chigi (Le Edizioni del Borghese, 1966) che ci consente di dare alla vicenda i suoi reali contorni. Qui, in data 30 maggio 1842, leggiamo che due giorni prima «fu arrestato un prete genovese di cognome Abbo, abitante nella via del Seminario, nell’atto che mandava alle sepolture il cadavere, da lui stesso rinchiuso nella cassa, di un ragazzo di 8 o 10 anni, suo nipote, che conviveva con lui e sul quale si sono riconosciute le tracce evidenti delle più orribili sevizie, di cui tutti i coinquilini e vicini erano informati, e che pare sicuramente siano state compite con la morte. Il prete è stato tradotto in Castel S. Angelo in mezzo alla universale esecrazione»; e in data 19 settembre 1842 che «questa mattina si è tenuta sull’interno di Castel S. Angelo la seduta del Tribunale criminale del Governo per giudicare la causa dello sciagurato prete Abbo, che ivi è detenuto; il risultato è del tutto segreto». Al caso il Chigi dedica altre note nel gennaio 1843: per dire che si è tenuta la seconda udienza, il 4; che «corre voce» si sia proceduto alla «degradazione del prete Abbo», l’11; che «oggi si mette in dubbio che seguisse ieri la [sua] degradazione», il 12; e che«avendo [egli] ricusato ostinatamente di prestarsi, se no costretto dalla forza, alla sua degradazione secondo il rito, si assicura avere il Papa ordinato che prescindendo dalla cerimonia gli si legga il decreto, e quindi si vada avanti nella processura», il 29. In data 12 febbraio, poi, leggiamo che «corre voce che nella seduta del Tribunale tenuta ieri in Castel S. Angelo fosse condannato alla pena di morte», alla cui voce dà conferma il 30 giugno, per dar notizia, in data 4 ottobre, che «questa mattina si è eseguita tra le 8 e le 9 di Francia sulla piazza d’armi di Castel S. Angelo la sentenza della decapitazione nella persona del celebre Abbo», ma che «l’ingresso [alla piazza d’armi] è stato indistintamente interdetto [al pubblico]», facendo «prevalere nel volgo l’opinione che il reo sia stato occultamente sottratto al supplizio». Tre mesi prima, il 4 luglio: «Ha dato luogo a molto discorsi l’arresto seguito vari giorni fa a Civitavecchia (si dice per conto del Sant’Uffizio) nell’atto che stava per imbarcarsi, del Sacerdote D. Ignazio Ralli, primo maestro della scuola dei Sordo Muti a Termini. [Appena un anno prima la scuola aveva avuto l’onore di una visita del papa, Gregorio XVI, che si era profuso in complimenti per l’opera di don Ralli.] Si vuole che il delitto, di cui viene accusato, abbia in parte dell’analogia con quello dell’abate Abbo». Stavolta, tuttavia, non era scappato il morto, dunque c’è da supporre che il «delitto» in questione fosse quello dell’abuso ai danni di minori. Se non per don Abbo, almeno per don Ralli, possiamo parlare di un religioso arrestato dalle autorità pontificie per ciò che oggi definiremmo pedofilia.
E dunque è da considerare errato quanto si afferma in queste ore, a margine della notizia della morte di Jozef Wesolowski: non si è trattato del primo caso di un religioso messo agli arresti in Vaticano per aver commesso abusi sessuali su minori, ma è che, a fronte di quanto la stessa Santa Sede non ha avuto difficoltà ad ammettere nel 2010 (a detta del cardinale Hummes, la percentuale di pedofili tra i religiosi sfiorerebbe il 5%), tra il primo e il secondo arresto corrono più di 170 anni.
VII. L’esperienza tenta disperatamente di insegnarci che lasciarsi andare alle emozioni ci infligge quasi sempre cocenti delusioni e crudeli castighi, tuttavia come si fa a restare freddi dinanzi a gente proverbialmente fredda che accoglie in patria una marea di rifugiati cantando l’Inno alla Gioia? Come si fa a restare freddi dinanzi a un bimbo che stringe al petto un cagnolino di peluche dopo tremila chilometri di stenti? L’esperienza ci guarda lasciarci andare alle emozioni e ammonisce: «Ai tempi in cui l’Ungheria era sotto il tallone comunista, Viktor Orban era un giovanotto molto liberale che lottava per i diritti umani: avresti mai pensato sarebbe diventato una tal merda umana? Tra vent’anni il bimbo non può diventare uno jihadista e far strage alla Oktoberfest?». Si fa odiare, l’esperienza, sembra fatta apposta per farsi odiare. E più la odi, più sembra farsi forte, e insiste: «Ricordi com’eri contento nel 1989, quand’eri convinto che si fosse alla Fine della Storia?». E tu lì sei ad un passo dal mandarla a farsi fottere, ma lei non te ne dà il tempo, e continua: «Ma lasciamo da parte i massimi sistemi, devo rammentarti tutte le volte che per lasciarti andare alle emozioni – e sto parlando delle tue cosine personali, non del tuo eccezionale naso in questioni geopolitiche – poi ti sei dovuto dare del cretino?». Non puoi più mandarla a farsi fottere, la stronza, ma ce la mandi lo stesso: «Lasciami in pace», le dici, ma è più un implorarla che un mandarla a farsi fottere. «Lasciami sbagliare, poi pagherò, ma lasciami sbagliare. Non sbagliassi adesso, potrei guardarmi con soddisfazione allo specchio dopodomani, ma non domani».
VII.
Sarà davvero interessante leggere le motivazioni della sentenza che ieri ha mandato assolto Erri De Luca dal reato di istigazione a delinquere («perché il fatto non sussiste»), soprattutto laddove esse mostrassero che sia stata accolta la tesi difensiva, peraltro ampiamente illustrata in più occasioni dallo stesso imputato, secondo la quale, nel suo caso, il verbo «sabotare» non dovesse essere ristretto al significato di «danneggiare», perché usato in senso figurato per esprimere quello di «ostacolare». Sarà davvero interessante – dico – perché l’esortazione a «ostacolare» la realizzazione di un’opera come la Tav realizzava in ogni caso l’istigazione a commettere un reato, quello di «attentato a impianti di pubblica utilità» (art. 420 c.p.), sicché non si capisce quale sia la ratio che qui possa trasformare in una libera espressione del pensiero quella di fatto resta un’istigazione a delinquere, tanto più perché, nell’intervista concessa il 1° settembre 2013 all’Huffington Post e dalla quale ha preso avvio la vicenda processuale, l’esortazione non era solo al «sabotaggio», ma anche al «vandalismo», di cui risulta pressoché impossibile trovare un senso figurato sostanzialmente differente da quello letterale. Anche qui il giudice può aver accolto la tesi difensiva? Negli atti vandalici che Erri De Luca definiva «necessari» può davvero aver intravvisto il principio della resistenza passiva predicato da Gandhi e da Mandela, cui l’imputato ha spudoratamente accostato la sua persona, sostenendo che la violenza alla quale esortava aveva come fine una «legittima difesa»? Per il rispetto che ci imponiamo nei confronti dei giudici, anche dei giudici che emettono sentenze che ci sembrano ingiuste, c’è da augurarsi di no: le motivazioni di una sentenza che ci sembra ingiusta dovrebbero almeno scalfire la nostra convinzione, non rafforzarla, come qui invece sarebbe inevitabile se il giudice mostrasse di aver fatto propri gli argomenti dell’imputato.
A scanso di ogni equivoco, chiariamo: sull’utilità della Tav è pienamente legittimo che si possano esprimere dubbi (non starò a elencare tutti quelli sollevati, mi limito a dire, e per il poco che vale, che personalmente ne condivido parecchi); pienamente legittimo, altresì, che questi dubbi possano maturare in una franca contrarietà alla realizzazione dell’opera (da parte di chiunque e, ancor più, da parte di chi vive in Val di Susa); altrettanto legittimo – e pienamente legittimo – che questa contrarietà si manifesti in protesta (in loco o altrove); laddove, tuttavia, questa assuma i connotati dell’azione mirante a «ostacolare» la realizzazione dell’opera, mi pare pacifico si configuri quanto sia diretto a danneggiarla, e cioè il reato di cui all’art. 420 c.p.; e allora com’è possibile che l’esortazione a commetterlo non sia istigazione a delinquere?