Più
che un bar sembra un convivio di saggi, almeno la prima impressione che dà è quella. L’insegna, d’altronde,
reca il titolo di un’opera di Platone: la Repubblica.
Entro, mi
siedo a un tavolino e, mentre aspetto che il cameriere venga a
prendere l’ordinazione, non posso fare a meno di prestare
attenzione a quel che dice un tizio seduto poco distante.
È
sull’ottantina, secco come un eremita, ed è attorniato da una
mezza dozzina di signori dall’aspetto assai distinto che lo
ascoltano – mi pare – con reverenza.
«Che senso ha –
dice – il viaggio e il lungo soggiorno nello spazio di Samantha
Cristoforetti? Domandiamoci perché l’abbia voluto affrontare:
forse per provare a se stessa e al mondo il proprio sprezzo del
pericolo e in specie la sua vittoria, che a me appare per l’eccesso
di paura che mi ispira, sulla claustrofobia? Camminare fuori gravità
sostenuta da un vuoto immenso, sarebbe una superiore aggiunta di
libertà o una vertigine vasocostrittiva da perderci la circolazione
e la ragione? L’allenamento astronautico da Marine, l’arsenale
sedativo e nutritivo chimico dell’equipaggio, sono sufficienti a
persuadere che non avere la terra sotto i piedi è bello?».
Confesso che lì per lì resto confuso. Il tizio parla e non vola una
mosca. Stanno ad ascoltarlo col massimo rispetto, pare, e c’è
perfino chi ha un lento ciondolar del capo che sembra un annuire. E
tuttavia, per quanti sforzi faccia, non riesco a capire che cazzo
stia a dire.
Cioè, a capirlo, lo capisco, ma mi sembra una
scatarrata di stronzate. E però tengo a freno l’impressione,
direi quasi che m’impongo
di rimuoverla, e per un po’ –
devo dire – ci riesco. Sarà
quella sua chioma candida, quella parlata lenta, meditata...
Sarà
pure che tutti stanno a sentirlo come se non volessero perdersi una
sola sillaba. Insomma, do per scontato che sia persona autorevole,
può darsi stia imbastendo la sua riflessione sul filo del paradosso,
dell’ironia, va’ a capire, in fondo non sono del posto...
Poi
confesso che a farmi trattenere un giudizio negativo c’è quel tale
che dietro il bancone asciuga un bicchiere dopo l’altro con un
lembo del suo grembiule. Dev’essere il titolare, ha un sorriso di
soddisfazione stampato in faccia come a dire: «E dove lo trovate, un
bar come il mio? Mica ci limitiamo a servire drink e cappuccini:
questo è un cenacolo di dotti». Insomma, è brutto dirlo, ma resto
un poco intimidito, e non riesco a far altro che continuare ad
ascoltare.
«Di
fisiologia ginecologica – continua il tizio, e qui solleva un
dito in aria, alzando un poco il tono della voce – la sfidante
intrepida non avrà certamente avuto più nessuna traccia, fin, credo
dalla base, come in un evento patologico. Non so, ma quella ragazza
sorridente, ormai obbligata a vita alla stranezza del suo record
femminile di vacanza extragravitazionale, mi fa molta pena. Per
un’analisi freudiana si potrà interpretare una donna fluttuante
fuori gravità come desiderio soddisfatto di un rapporto incestuoso
col padre, senza nozze tragiche, senza esplicazione, irrorazione e
amorosa redenzione scenica. Qualcosa di molto simile alla violenza a
cui soggiace e a cui consente, nel romanzo Adelphi di cui sono autore
“In un amore felice” la protagonista dalla doppia vita Ada dove
il Padre esoterico e simbolico evocato emana il proprio sé dagli
Elohim, remote vestigia veterotestamentarie».
Qui, devo dire,
un’onda di fastidio spazza via
ogni riserva: o è pazzo, questo vecchio, o è ubriaco; e ubriachi
devono essere pure quanti lo ascoltano senza dire una parola, o sono
pazzi pure loro.
Perché Samantha
Cristoforetti va nello spazio? Per sballare, più o meno. Eventualmente per
cercare di vincere qualche sua vecchia tara psicologica. Che pena,
poverina. Chissà, le saranno saltate pure le mestruazioni. Per cosa,
poi? Per sublimare nell’impresa
astronautica un desiderio incestuoso. E tutti ad ascoltare, senza
fiatare, uno capace di sparare tutta in una volta questa sventagliata
di stronzate?
Se un po’
mi conoscete, sapete che dinanzi a roba del genere io non so stare
zitto. E infatti sto per intromettermi, quando in piedi, davanti al
tavolino, mi si para il tipo che prima era dietro il bancone, e mi
fa: «Cosa
le possiamo servire?».
Ordino un succo di pomodoro e un piattino di olive. Intanto ho perso
l’attimo
e mi rimetto ad ascoltare: «Le imprese spaziali –
dice il vecchio – non sono portatrici di luce: chiamarle
scientifiche è estenderle oltre le mura umane, e sgomenta la
veemenza del loro urto con l’ambiente, che dura dai primi Sputnik e
Apolli in cui sempre più incollati gli uni agli altri tentiamo di
sopravvivere ai maleodoranti purgatori politici. La Civitas Dei non è
più una speranza, la città umana si va trasformando sempre più in
un mostro. La nave spaziale è inabitabile, le fughe sui pianeti
impossibili. Dateci sogni, sogni, sogni…».
Un pazzo
fottuto, non c’è dubbio. M’è
passata pure la voglia di dirgliene due: cosa vuoi dire a uno che in testa deve averci tanti buchi quanti ne ha una forma di Emmental?
Ma ecco il vassoio col mio
succo di pomodoro.
«Grande, eh?», mi fa il tipo col grembiule.
«Sta
scherzando?», chiedo.
Mauro – ha una targhetta col quel nome
appuntata in petto, non deve essere il titolare, probabilmente è solo un cameriere – si fa livido in volto e mi fa: «Sarà lei a
voler scherzare. Ma lei sa chi è quello?».
«A me è parso uno di
quegli imbecilli di cui parlava Umberto Eco la settimana scorsa, uno
di quelli che un tempo, dopo averne bevuto uno di troppo, si
lasciavano andare a invereconde scempiaggini. Ho pensato: “Non ci
sono più i bar di una volta. Una volta, un tizio così l’avrebbero
zittito subito. Ora i bar somigliano ai social network, dove puoi
scrivere anche le più mastodontiche cazzate senza che nessuno...».
«Ma per piacere – mi interrompe Mauro – non bestemmi: quello era
Ceronetti, un Premio Nobel o giù di lì».
[in corsivo: Guido Ceronetti, Samantha, lo spazio e il signor Freud (la Repubblica, 21.6.2015 - pag. 50)]