Dinanzi
a un atto terroristico è disumano non provare pena, dolore, paura e
rabbia. D’altra parte sono proprio queste le emozioni che i
terroristi intendono suscitare, perché le vittime dei loro attentati
sono solo un mezzo, mentre il fine immediato è quello di influenzare
le opinioni pubbliche, che a sua volta mira a condizionare le
politiche governative, per pressione che dunque è indiretta, ma che
invariabilmente si fa diretta, perché l’istanza
di sicurezza non ha bisogno di essere rinnovata per essere assunta
dallo stato come obbligo primario.
Come acutamente è stato scritto
da chi a lungo ne ha studiato la logica che lo muove, gli strumenti
di cui si serve, le modalità che gli sono proprie, «il terrorismo è
teatro» (Salustiano Del Campo), tanto più efficace, quanto maggiore è l’onda emotiva
che le sue azioni sollevano in platea. Fosse possibile restare
indifferenti, freddi, insensibili allo spettacolo che mette in scena,
il terrorismo non avrebbe ragione di esistere, ma ovviamente questa è
ipotesi impensabile, perché presupporrebbe un’impassibilità
alla sofferenza e alla morte dei propri simili che non sarebbe poi
troppo diversa da quella di chi progetta e realizza atti
terroristici.
Sta di fatto che è proprio l’insopprimibile
pathos che la rappresentazione scatena a procurare vantaggio a chi ne
ha scritto il copione, a chi ne ha curato la regia, a chi se n’è
fatto interprete. Per questa ragione, il terrorismo dev’essere
considerato il mero innesco di un ordigno che ha proprio nelle
conseguenze del terrore, in ciò che di irrazionale inevitabilmente
suscita negli animi che intende scuotere, la sua massa esplosiva: può
indubbiamente infondere sgomento, accentuare pena, dolore, paura e
rabbia, infliggere un angoscioso senso di impotenza, ma si deve
prendere atto che solo gli spettatori possono decretare il successo
dell’evento teatrale.
È
possibile tenere a freno le passioni che suscita l’azione
terroristica per depotenziarla, in vista del neutralizzarla? Cosa può
temperare le passioni – senza estinguerle, sia chiaro – al punto
da evitare che si mettano a servizio di chi strumentalmente le
sollecita per servirsene? La ragione, probabilmente. Probabilmente,
il miglior omaggio che possiamo riservare alle vittime di un atto
terroristico è cercare di comprendere il meccanismo che le ha rese
tali, per disattivarlo. Questo è difficilissimo, ma occorre provare.
Occorre,
innanzitutto, sottrarre al terrorismo ogni aggettivo, ogni attributo
che miri a conferirgli una dignità politica, culturale, religiosa.
Che il terrorista se la attribuisca, la rivendichi, ne faccia la
ragione della sua azione, o al contrario ne faccia pretesto o
paravento per altri moventi, deve essere considerato irrilevante.
D’altronde le modalità dell’atto terroristico sono costanti
anche al variare delle ragioni che gli danno movente e dell’ideologia
che le trasfigura in giustificazioni. Solo un errore di analisi può
farci ritenere specifico un suo carattere, com’è nel caso del
terrorista che non esita a sacrificarsi pur di portare a termine il
compito che si è prefisso: è nel calcolo di ogni progetto
terroristico che l’esecutore materiale debba accollarsi il rischio
di morire portando a termine il suo compito, e che tale rischio sia
accettato come prezzo certo costituisce solo un dato di carattere
tecnico, che impone un’adeguata metodologia di approccio al
problema, ma che non cambia i termini della questione posta in sé
dall’atto terroristico.
Da questo punto di vista, occorre
ponderarne esclusivamente il reale potenziale offensivo: che a
compiere una strage sia stato un militante dell’Isis, un Anders
Breivik o lo studente del college americano, il problema è posto
dagli strumenti di cui ha potuto farsi forte, dall’effettiva
capacità di dare ad essi il voluto effetto letale, non già da
quanto egli dichiara averlo motivato. Con ciò non voglio dire che un
profilo criminale manchi di caratteri specifici che lo distinguono da
un altro, fatto sta che questi andrebbero esclusivamente considerati
elementi utili ad approntare soluzioni di natura tecnica, non già a
investire il terrorista del ruolo di officiante di un credo.
In
secondo luogo, occorre trattare il terrorismo al pari di una
qualsiasi altra causa di morte violenta per mettere in evidenza
l’enorme sproporzione tra il numero delle vittime che causa e
l’impatto emotivo che genera. Questo non mira a banalizzare il
problema che solleva, tanto meno a ricondurlo a evento fatale pari a
quello delle morti per incidente stradale o rottura di aneurisma
cerebrale, ma a sottrargli ogni aura che lo inscriva nelle
suggestioni dei miti che aspira a incarnare.
Di
pari passo, occorre decostruire la figura del terrorista, che anche
quando è avvertita come persona spregevole, tende a conservare,
almeno sul piano dell’immaginario meno avvertito, l’ombra del
cieco esecutore di un Male tutto trascendente oppure, il che è
ancora più insidioso, lo spettrale profilo del Barbaro. Occorre
ridurre il terrorista a psicopatico, dichiararlo intrattabile.
La
tendenza ad assecondare le passioni dinanzi all’atto terroristico,
invece, gli conferisce un nefasto potenziale allegorico,
mostrificando il terrorista come agente di un’entità sovrumana, aggravando il senso di insicurezza che il crimine intende infondere.
[segue]