Oltre
a quella torva, che è la più nota, c’è
una forma bonaria della velleità totalitaria, tanto bonaria che del totalitarismo mostra solo l’anelito, peraltro mitigato in aspirazione alla concordia, alla convergenza, alla grande intesa. Qui, l’annientamento
degli avversari è perseguita per assorbimento, previa aggregazione dichiarata indispensabile a fronte di cogenti istanze
emergenziali, non importa quanto reali o fittizie, in vista di
quell’unità
nazionale che è l’eufemismo dell’equivalenza
tra nazione, stato e partito.
Sotto diverse maschere, la via italiana
al socialismo del Pci ebbe proprio questa forma, e perciò sembrò sempre avere un volto umano: con Togliatti,
prima, con Berlinguer, dopo, ma anche con Occhetto, con D’Alema,
con Veltroni, con Bersani, quando dunque il Pci già aveva cambiato
pelle, e in quella prendeva a cambiare il resto, l’obiettivo
rimaneva quello di aggregare, per assorbirle, le tradizioni politiche
che avevano dato vita – sorvoliamo con quale risultato – alla Dc e al Psi: quella della dottrina sociale della Chiesa e quella del riformismo. Obiettivo che col Pd possiamo
dire sia parzialmente riuscito nel metodo, ma completamente fallito
nel merito, visto che, a otto anni dalla sua fondazione, il partito –
mi auguro che in quanto sto per affermare si sappia leggere l’ellissi
– è assai più democristiano che comunista, assai più craxiano che amendoliano o ingraiano.
Nulla di scandaloso,
quindi, nel fatto che i pochi sopravvissuti della vecchia dirigenza
del Pci di Togliatti e di Berlinguer siano tutti renziani: nel merito
non ha importanza quale sia il risultato, sta di fatto che Renzi
sembra dare successo al metodo, e allora si capisce perché
Napolitano lo coccoli, si capisce perché, dopo il risultato riscosso
alle Europee, Reichlin lo abbia designato a segretario di un Partito
della Nazione (l’Unità,
29.5.2014). E tuttavia il golem plasmato con tanto amore sembra
rischiare la stessa fine di quello creato da rabbi Yehudah Loew ben Bezalel:
di energia ne ha tanta, ma non sa controllarla a dovere, dando cenno
a pericolose pulsioni autodistruttive.
Si può comprendere, allora, l’angustia
di Napolitano: «Renzi
non avrebbe dovuto dare questa accentuazione politica personale [al
referendum di ottobre]»
(Corriere
della Sera,
3.5.2016). Si può comprendere la preoccupazione di Reichlin, che
oggi, in una lettera indirizzata a Mario Calabresi, scrive: «Non
mi piace il modo come si sta discutendo della riforma
costituzionale... Io
non voglio una crisi di governo al buio... Considero una sciagura
questa scelta calcolata di spaccare il Paese tra due schieramenti
contrapposti...» (la
Repubblica,
16.5.2016). C’è
da capirlo: ha più di 90 anni, più di 70 ne ha spesi sognando il megapartitone dell’unità nazionale e, ora che la creatura ha preso forma, la vede messa a repentaglio dal suo mostrare la vera faccia, tutt’altro che bonaria.
«La
“rottamazione” era in una certa misura necessaria – scrive – ma si è
creato anche un vuoto di identità e di valori che è il vero brodo
di cultura della corruzione. Non basta dire che tutto è “populismo”
né si può pensare di comandare con i plebisciti. Bisogna creare le
condizioni per un nuovo patto di cittadinanza. Io dico anche per un
nuovo compromesso sociale». Troppo tardi, forse. La maschera è caduta. Dietro il Partito della Nazione si è scorto il partito-stato, l’indomita tentazione di trasformare il consenso in egemonia.