martedì 12 luglio 2016

Malammore


Nellultima o penultima puntata della seconda serie di Gomorra (Sky Atlantic, 2016) – non ricordo bene – cè la scena in cui Malammore, il fedelissimo di don Pietro Savastano, uccide Maria Rita, una ragazzina di undici o dodici anni, figlia di Ciro Di Marzio: un caso di vendetta trasversale, tanto più bestiale perché ad esserne fatto oggetto è un minore. Non è solo questo, tuttavia, a destare il comprensibile raccapriccio nello spettatore: prima di sparare, quasi per uno straccio di anticipata resipiscenza, Malammore prende il crocifisso che porta appeso ad una catenina che ha al collo, lo porta alle labbra e lo bacia. Anche con un certo trasporto, occorre dire.
È evidente che la religione centri poco o nulla, ma è altrettanto evidente che quel crocifisso è senza alcun dubbio un simbolo religioso. Come possiamo sciogliere il paradosso?
Una soluzione potrebbe essere quella di ascrivere il gesto a tutta quella serie di rituali che in passato precedevano le operazioni belliche che avessero per fine più o meno dichiarato quello dello sterminio di infedeli, e che ancora oggi persistono in forma residuale nella benedizione delle truppe inviate in guerra, in certi casi perfino delle loro armi, da parte dei cappellani militari, come a dare una sorta di copertura morale al soldato per ciò che si appresta a fare. Bene, ma tutto questo ha qualche attinenza con ciò che è propriamente religione? Tutto sta nel propriamente, perché ogni religione – insieme – vieta severamente lomicidio e poi concede sempre qualche deroga a commetterlo, soprattutto quando è in gioco la difesa della fede, anche se per alcune religioni la deroga ormai si è assai ristretta. Si prenda proprio il caso del crocifisso di Malammore: in passato giustificava ammazzamenti dogni genere, oggi solo la legittima difesa, nella quale rientrano, anche se sempre meno comodamente, pure la pena di morte e la cosiddetta «guerra giusta» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2263-2267).
Diremmo che Malammore è tre volte in difetto verso il crocifisso che bacia prima di far fuori la ragazzina. Innanzitutto, è pesantemente anacronistico rispetto ai tempi in cui nelloccidente cristiano bastava baciare un crocifisso per sentirsi a posto con la coscienza e passare ad ammazzare chiunque stesse sul cazzo a chi comandava di farlo. Il Pietro che gli ha commissionato quellomicidio, inoltre, non ha proprio niente a che vedere col Pietro che invece avrebbe avuto piena potestà di commissionarglielo, in passato, semmai insignendolo del titolo di defensor fidei. Infine, la piccola Maria Rita è soggetto che si presta in modo assai poco congruo a poter essere considerata nemica della fede, quandanche la scena fosse retrodatata di secoli: non è ebrea, non è eretica, non è strega.
In definitiva, potremmo dire che il bacio che Malammore dà al crocifisso, più che muoverci a sgomento, deve interrogarci sulla funzione che quel gesto ha avuto in passato, e sul come ne sia arrivato fino a noi del tutto privo, per finire collindurci a una reazione che somiglia molto, per l’automatismo che fa mix di ignoranza e pigrizia mentale, al biasimo di cui facciamo oggetto chi usi posate e bicchieri tenendo il migliolo sollevato in aria, retaggio dei tempi in cui a quel dito i nobili portavano un anello, quello solitamente usato per apporre il proprio sigillo, che a tavola cercavano di evitare si sporcasse di pietanze. Nato come gesto con una sua precisa funzione, è diventato, prima, ciò che segnalava il possesso di un titolo nobiliare e, poi, uno stigma da cafone.
Ecco, dunque, cosa abbiamo visto in quella scena della seconda serie di Gomorra: un fossile del cristianesimo che ieri era vivo e pulsante (immaginate un esercito di crociati sfilare davanti a uno stendardo sul quale è ricamata una croce da baciare prima di schierarsi in battaglia) e che oggi emerge dal passato ormai pietrificato, roba che un creazionista può azzardare sia una prova cui Dio ci sottopone per saggiare la nostra cocciutaggine nell’eresia darwinista. Il crocifisso di Malammore – possiamo dire – assume la funzione di un feticcio di cui si sia smarrita la comprensione del perché la sua protezione sia potente.

Questa era la premessa. Si è capito che lintenzione era quella di commentare leditoriale che Ernesto Galli della Loggia firmava ieri sul Corriere della Sera per dare una risposta indiretta a quanti mi hanno accusato di aver omesso ogni cordoglio per gli imprenditori tessili italiani morti a Dacca per limitarmi ad insinuare che potessero essere lì a delocalizzare la produzione per il basso costo della manodopera locale? No, eh? E vabbè, significava pretender troppo. Passiamo a Ernesto Galli della Loggia.

«Chissà se in quella tragica sera di Dacca qualcuno dei nove italiani, mentre veniva torturato e si preparava ad essere sgozzato per non aver saputo rispondere a dovere alle domande di catechismo islamico, avrà pensato che i suoi compatrioti avrebbero preso l’impegno di vendicarlo. Penso proprio di no, dal momento che quegli italiani erano certamente esperti del mondo e della vita. Non sta bene covare sentimenti di vendetta, e tantomeno dirlo: loro sapevano che noi la pensiamo così, e dunque non potevano certo farsi illusioni».
Se non fosse che siamo così intensamente cristiani da non riuscire neppure a concepirla, la vendetta, come avremmo potuto vendicarli, volendo? A chi farla pagare, visto che gli attentatori hanno seguito la stessa sorte delle loro vittime? Prendercela con tutti i musulmani di casa nostra o con i soli musulmani dorigine bengalese? Dichiarare guerra al Bangladesh? «Quegli italiani erano certamente esperti del mondo e della vita», non cè motivo per dubitarlo, non a caso facevano affari in un paese dove un salario medio è sui 60-70 euro, a fronte dei 1.600-1.700 che costerebbe in Italia: nulla a che vedere con lesperienza che rende impossibile attendersi vendetta, per sensibilità cristiana, dai propri connazionali, men che meno da quelli licenziati perché la loro produzione veniva trasferita in Bangladesh. Diciamo che il mondo e la vita di cui erano certamente esperti li rendeva scettici sulla possibilità di essere vendicati, ma per tutt’altre ragioni che la nostra indiscutibile sensibilità cristiana.
«Verso la memoria di quelle vittime però, dovremmo tutti prendere almeno un impegno di serietà e di verità. Dunque, parlando di ciò che li ha condotti alla morte, rinunciare al buonismo di principio, ai giudizi programmaticamente tranquillizzanti, agli equilibrismi. Che ad esempio i maggiori quotidiani del loro Paese, quasi per farsi perdonare l’audacia di aver avanzato in un primo momento il sospetto che nella macelleria bengalese, vedi mai, la religione islamica c’entrasse qualcosa, che quei giornali, dicevo, immediatamente dopo si sarebbero sentiti in dovere, in omaggio a una presunta obiettività, di pubblicare articoli volti a rigettare il sospetto di cui sopra giudicandolo calunnioso e frutto di ignoranza, ebbene che una cosa simile sarebbe accaduta questo forse nessuna di quelle vittime è arrivata certamente a pensarlo».
Se guardando la puntata di Gomorra di cui abbiamo parlato nella premessa hanno rigettato l’idea che quel crocifisso avesse a che fare con la natura prima e ultima del cristianesimo, può darsi invece che siano arrivati a pensarlo: perché dare per scontato che gente esperta del mondo e della vita non sappia che la religione è sovrastruttura che copre mille schifezze?
«Da anni infatti terroristi islamici seminano dovunque la morte ma l’opinione pubblica occidentale si sente puntualmente ripetere che la loro religione non c’entra nulla. Il più delle volte con l’argomento (evidentemente reputato in grado di chiudere la bocca a chiunque) che, a tal punto il terrorismo islamico non c’entrerebbe nulla con la religione islamica che spesso le sue vittime sono proprio gli stessi islamici. Come chi dicesse che poiché le guerre di religione nell’Europa del Cinque-Seicento vedevano dei cristiani ammazzare altri cristiani, proprio per questo la religione con quella violenza non avesse nulla a che dividere».
Ma anche in quel caso, infatti, la religione era sovrastruttura, stupisce che un professorone del calibro di Ernesto Galli della Loggia possa pensare che cattolici e protestanti si scannassero perché avevano una diversa comprensione del concetto di Grazia.
Prendete fiato, qui Ernesto Galli della Loggia scende nella profondità nel messaggio cristiano: se vogliamo seguirlo senza rischiare l’asfissia, occorre adeguata ventilazione. E attenti a quando lo seguirete nel risalire in superficie, sennò vi scappa l’embolo.  
«“I jihadisti — ha scritto Tahar Ben Jelloun, conosciutissimo teorizzatore dell’Islam tollerante all’interno di un’auspicata tolleranza universale — prendono a riferimento dei versetti che erano validi all’epoca della loro rivelazione ma oggi non hanno più senso”. Già. Ma mi chiedo: e chi è che lo decide quali versetti del Corano continuano ad “avere senso” e quali invece sono per così dire passati di moda? Chi? E in ogni caso non vuol forse dire quanto scrive Ben Jelloun che comunque in quel testo ci sono parole e precetti che si prestano e magari incitano ad un certo uso della violenza? Certo, tutti sappiamo che il monoteismo in quanto tale intrattiene un oscuro rapporto con la violenza. Ma fa qualche differenza o no — mi chiedo ancora sperando di non incorrere per questo nell’accusa di islamofobia — fa qualche differenza o no se nel testo fondativo di un monoteismo i riferimenti alla violenza ci sono, espliciti e ripetuti, e in un altro invece sono del tutto assenti? Fa una differenza o no, ad esempio, se i Vangeli non registrano nella predicazione di Gesù di Nazareth alcuna azione o proposito violento contro coloro che non credono? Non ha significato forse proprio questo la possibilità nell’ambito del monoteismo cristiano di mantenere aperto costantemente uno spazio di contraddizione, di obiezione nei confronti della violenza pur commessa in suo nome che altrove invece non ha mai potuto vedere la luce? Mi pare assai dubbio insomma che tutte le cosiddette religioni del Libro adorino davvero lo stesso Dio come sostengono gli instancabili promotori delle tante occasioni di “dialogo interreligioso” che si organizzano dovunque tranne però, chissà perché, nei Paesi musulmani. Per la semplice ragione che in realtà quel Libro è per ognuna di esse un Libro dal contenuto e dal significato ben diversi».
Quanto spreco di fiato solo per riaffermare le ragioni del Manuele II Paleologo citato da Ratzinger a Ratisbona! Nell’islam sarebbe intrinseca la giustificazione della violenza a fine proselitario che invece è assente nel cristianesimo, e questo sarebbe provato dalla presenza nel Corano di versetti che alcuni musulmani (non tutti, dunque) prenderebbero alla lettera: nulla di simile nei Vangeli, ed ecco, allora, la prova provata che il cristianesimo è religione di tolleranza e di pace. Vallo a spiegare a chi l’ha sperimentato sulla propria pelle per oltre un millennio, dal IV al XVII secolo: digli che è stato battezzato a forza per una malintesa lettura dei Vangeli, che dove non prescrivevano la conversione col ferro e col fuoco trovavano esegeti particolarmente creativi, vedrai che apprezzeranno molto il distinguo e, grati della libertà che gli concedi, abbandoneranno la fede nella Santissima Trinità per tornare ad adorare Pachakamaq, Wiraqucha e Apocatequil.
Certo che pure ’sti Vangeli... Arriva Cristo e chiede che l’adultera non sia più lapidata, però, tanto per dire, dice che della legge mosaica non è venuto a cambiare neanche uno iota. Poi dice che bisogna amare il proprio nemico, ma dice che chi non è con lui è contro di lui. Che tipo, eh? 
«In realtà è assai difficile pensare che l’Islam non abbia un problema specifico tutto suo con la violenza. Ne è prova non piccola, a me pare, come esso continui a praticarla nei suoi riti i quali sembrano non aver conosciuto in misura decisiva il processo di trasfigurazione simbolica avutosi in altri monoteismi. Chiunque ad esempio si è trovato in una località islamica il giorno della Festa del Sacrificio (che ricorda il sacrificio del primogenito richiesto da Dio ad Abramo) ha potuto assistere allo spettacolo di ogni capofamiglia che, armato di coltello, sgozza sulla pubblica via un agnello procuratosi in precedenza. Certo, la pratica non è più universale ma è ancora abbastanza diffusa da impedire di credere che essa non costituisca tutt’oggi un paradigma dal potentissimo richiamo emotivo per l’insieme dei credenti».
Zotici intrinsecamente violenti, senza dubbio. Ma ancora niente rispetto a Malammore.

lunedì 11 luglio 2016

Abbozzo di discorso alla gioventù

L’età, col pesante carico d’esperienza che si trascina sul groppone, dovrebbe temperare l’impeto delle passioni, raffrenarle e raffreddarle, con ciò donando ad esse forma acconcia a rappresentarsi non altrimenti che come ampiezza e varietà del sentire, e invece – scusate il francesismo – manco per il cazzo: si prova, talvolta ci si riesce pure, ma in fondo è al più un dissimulare ben riuscito, tanto meglio se inganna innanzitutto chi dissimula: fatevelo dire da uno che è abbastanza vecchio da poterlo constatare di persona, ma non troppo da doverlo tacere come ultimo tributo a saldo dei tanti errori di cui ogni vita è stracolma: non vi aspettate che la foia vada a languire in raffinate meditazioni estetiche, cari giovinotti, non vi aspettate che il furore svapori in soffice ironia: metterete un po’ di pancia e questo, forse, frenerà l’impeto delle avances alle sbarbine, eviterete, forse, qualche rissa perché non avete più niente da perdere (non date retta ai poeti: si è portati a rischiare di più quando si ha tutto da perdere, è che accade perché non lo si sa), ma sarà tutto uguale ad ora, appena un po’ più nitido, o forse no, appena un po’ più opaco, ma forse nemmeno: soprattutto: scordatevi di poter diventare quello che siete, Nietzsche si era già bevuto il cervello quando lo ha detto: non lo diventerete mai: capirete – piano piano, se sarete fortunati, senno di botto, e quasi sempre sarà troppo tardi, se avrete sfiga – che l’opera è destinata a rimanere sempre incompiuta, pure se doveste arrivare a cent’anni e la vita dovesse esservi venuta a noia o a schifo: siete già quello che siete, e non sarete mai quello che dovreste, non potreste neppure se si trattasse di diventare altro: non fatevi prendere dal panico, ma non cercate di mantenere la calma: soprattutto: non tentatela neppure, l’atarassia, Schopenhauer cominciò a consigliarla solo dopo che una certa Irmgard dalle lunghe trecce gliel’aveva negata: non gliel’avesse negata, sarebbe stato Schelling: insomma: non date retta a chi dice, citando Croce, che l’unico compito dei giovani è quello di diventare adulti: è compito impossibile: si passa dalla gioventù alla vecchiaia senza transizione, per dover constatare che è tutto esattamente eguale (fatta eccezione per la potenza del cazzotto, dell’eiezione spermatica e altri dettagli tutto sommato altrettanto irrilevanti): soprattutto: per constatare che il passare del tempo è – appunto – un passatempo: basta non sprecarci troppo tempo, sennò non ne rimane per prepararsi a...

A cosa serva, l’esperienza, non sarà mai troppo chiaro. Renzi si dice disponibile a rivedere l’Italicum, che fino a prima delle Amministrative era la legge elettorale più bella della galassia, e toccarla sarebbe stato sacrilegio: grida di giubilo dallo sgabuzzino in cui la minoranza interna stava in castigo. Anche il referendum di ottobre non è più l’Armageddon che prometteva d’essere: opportunisti per tara genetica, i radicali si sono inventati lo spacchettamento, e Renzi già fa un pensierino a spacchettare il suo tutto per tutto (torna a casa se ne perde tre su cinque, due su quattro o sarà rivoluzione copernicana anche la sola abolizione del Cnel?). Be’, che c’è da stupirsi? Incazzarsi, poi, a che pro? Niente, dietro quel sorriso che sembra il più bel sigillo possibile da apporre sul trattato di pace permanente col mondo, c’è il sordido augurio che a tutti – a Renzi, a Cuperlo, agli inconsolabili orfani e alle inconsolabili vedove di Torre Argentina – possa venire un cancro in culo. Non letale, piccolino, ma dolorosissimo.

sabato 9 luglio 2016

Afa permettendo



Da Studi sul mutamento sociale di Amitai Etzioni (Etas Kompass, 1968) ho riportato uno stralcio dellIntroduzione alla Parte seconda (Strategie del mutamento), dove si prende a esempio quello che fu l’embrione della Ue – la Cee – per comparare l’efficacia delle modalità di «riforma» e di «rivoluzione» comunemente adottate per realizzare un mutamento sociale, risolvendosi col dare una risposta positiva alla domanda: «può un mutamento sociale che è largo come campo d’azione e rapido come ritmo essere compiuto senza una forte violenza?». Questo post si limita a porre solo i termini di una questione che, tempo permettendo, mi ripropongo di affrontare a margine – solo a margine – del dibattito sul destino della Ue, che con la Brexit è diventato un po più isterico di quanto già non fosse. È peraltro evidente che già dal modo da me scelto per porre i termini della questione (mostrare le promesse tradite dalla fede in un approccio gradualista) la mia riflessione non mancherà di sollevare obiezioni che in gran parte ho già presenti, e che comunque non mi scoraggiano. Dovessi rinunciare a metter mano alla cosa, si sappia: è stata colpa dellafa.

Un cazzone come non se n’è mai visti di eguali


Non ho dato molta attenzione al processo in cui alla sbarra erano, fra gli altri, Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi. La ragione sta nel fatto che mi è parso avesse il sapore di una farsa, come daltronde mi pare confermato dal modo in cui si è chiuso, e infatti lunico commento che ho dedicato alla vicenda si è risolto in due tweet di rampogna ai due imputati, colpevoli a mio modesto avviso di essersi prestati per sciocca vanità professionale al ruolo che il Vaticano aveva affibbiato loro in quella che peraltro aveva tutti i tratti di unoscena parodia («Nuzzi e Fittipaldi – scrivevo il 24 novembre dello scorso anno – non dovevano presentarsi in Vaticano, per la semplice ragione che non erano tenuti a farlo. La vanità è stata più forte»; e poco dopo: «La tragedia di Giordano Bruno trascinato in ceppi dinanzi allInquisizione torna come farsa con Nuzzi che va a farsi processare in Vaticano»).
Oggi che il Vaticano manda prosciolti i due per «difetto di giurisdizione», dichiarandosi in sostanza non legittimato a processarli, eviterei a maggior ragione di tornare sulla faccenda, se non fosse per il contenuto dell’intervista che Gianluigi Nuzzi ha concesso a Luca Telese per Libero di venerdì 8 luglio (pag. 3), e che nel titolo e nel sommario, qui sopra riprodotti, mi fa pentire di quei tweet, dei quali qui chiedo pubblicamente scusa: a spingere Gianluigi Nuzzi a farsi processare da chi non ne aveva alcuna legittimità – per averne la contezza bastava uninfarinatura non dico di Diritto, ma di cultura generale – non era la voglia di mettersi in posa da eretico o da martire della libertà di stampa per lucrarci sopra, ma il mero non capire un cazzo di quello che in realtà era il vero scopo di un processo istruito a quel modo.
Dico questo, perché a me, a naso, Gianluigi Nuzzi è sempre parso un buon cazzone, capace sì di farsi usare – non importa quanto coscientemente – da questa o quella fazione interna alla Curia pur di poter rivendicare il sacrosanto diritto di fare informazione, ma non al punto da farlo sentendosi davvero a rischio di essere bruciato vivo a Campo de Fiori. Per quello che oggi gli esce di bocca non ci sono che due alternative: o Gianluigi Nuzzi non è affatto un buon cazzone, e in finale di farsa continua a scroccare emozione attardandosi a tenere addosso i panni delleretico, ora graziato da Papa Clemente Ennesimo; o è molto più che un buon cazzone, è un cazzone come non se nè mai visti di eguali. E tra le due alternative, per non far torto al naso, mi impongo di prendere per buona la seconda. 

venerdì 8 luglio 2016

Omicidio preterintenzionale con finalità razzista

Molte volte abbiamo visto frustrata in sede di giudizio la domanda di giustizia che legittimamente si levava dall’opinione pubblica in occasione di vicende segnate da reati particolarmente odiosi, non di rado arrivando ad essere assai meno legittimamente attesa di vendetta, e questo è quasi sempre accaduto per un difetto dellimpianto accusatorio che recepiva quellistanza senza essere capace di circostanziare correttamente la fattispecie penale in oggetto: in sostanza, la delusione tradiva quasi sempre unaspettativa mal riposta e un uso maldestro dello strumento dell’accusa.
Questo mi pare il rischio posto nella formulazione dell’imputazione mossa ad Amedeo Mancini, perché non c’è dubbio che una finalità razzista fosse più che esplicita nell’insulto che egli ha rivolto alla signora Chinyery Emmanuel, ma dimostrare che questa finalità fosse attiva pure nell’aggressione ai danni del marito potrebbe non essere così semplice come oggi sembra: una cosa, infatti, è poter esser certi che l’autore dell’aggressione sia un razzista, come in questo caso è fuor di dubbio sia, un’altra che nell’aggressione vi fosse il fine razzista.
Non mi si fraintenda, per piacere: non sto indossando i panni dell’avvocato difensore, ma solo sollevando una perplessità riguardo all’aggravante di finalità razzista ipotizzata in quello che l’accusa sostiene essere stato un omicidio preterintenzionale. Per come sono stati riportati dagli organi di informazione, i fatti mi lasciano supporre che l’accanimento speso sulla vittima consentisse di formulare perfino l’accusa di omicidio volontario. Non escludo, dunque, la finalità omicida nell’aggressione: mi limito a considerare che possa essere maggiore la difficoltà di dimostrare quella razzista.
Posto, infatti, che l’aggressione sia stata messa in essere come risposta alle legittime proteste di chi aveva visto la propria moglie essere fatta oggetto di una pesante ingiuria, c’è da domandarsi se l’ipotesi dell’aggravante della finalità razzista potesse essere formulata anche nel caso in cui il marito non fosse stato nigeriano, come sua moglie, ma italiano: ucciso, in questo caso, per aver preso le difese della moglie o per odio razziale?
Anche qui vi prego di non fraintendermi: il rischio che intravvedo è che, se cade l’aggravante della finalità razzista, Amedeo Mancini possa cavarsela con una pena assai più lieve di quella che l’indignazione pubblica oggi si attende, e con un danno enorme per la giustizia, che onestamente mi pare assai peggio. 

giovedì 7 luglio 2016

[...]

Se non si fa proprio latto di fede che nella Chiesa afferma essere permanente lazione dello Spirito Santo, si pone il problema di come la sua istituzione abbia potuto sfidare i secoli superando crisi spesso drammatiche. Senza sottovalutare affatto la straordinaria serie di fattori che nel tardoantico le hanno consentito di germinare, radicarsi e crescere, cè da chiedersi come abbia potuto resistere allusura che intanto andava dissolvendo tutto ciò che le era dintorno, per giunta riuscendo sempre a parare i colpi micidiali che intanto le venivano inferti da potenti antagonisti esterni e interni, rinnovandosi costantemente, pur riaffermando di essere sempre uguale a se stessa, per trovare modo di perpetuarsi in un continuo adattamento al secolo. È questione sulla quale gli storici sono concordi: la Chiesa ha avuto il merito di saper costantemente sfruttare al meglio, facendole proprie, le eccellenze che da subito ha coltivato nei campi del sapere, prima in concorrenza e poi in regime di monopolio. Con l’oculata scelta di farsi detentrice unica del lavoro intellettuale in tutti i campi della conoscenza umana, ha presto acquisito strumenti insuperabili per selezionare le migliori intelligenze che fiorivano nel vasto impero che le era assoggettato, indirizzandole al servizio cui sarebbero state destinate fin dai primi segni che esse davano di sé, per edificare il prototipo di quell’intellettuale collettivo, strutturalmente e funzionalmente organico, magistralmente descritto da Antonio Gramsci nel Quaderno XII. Perché questo fosse possibile era necessario che fosse possibile la promozione sociale dei più dotati, e che questa promozione fosse scrupolosamente programmata, attentamente curata lungo tutto il suo gradiente, per assicurare un continuo apporto di energie fresche. È così che si spiega la costruzione di una élite in continuo adeguamento ai tempi e, allo stesso tempo, in grado di condizionarli. In tal senso, il celibato del chierico acquisiva un significato ulteriore rispetto allesigenza primaria di non disperdere il patrimonio della Chiesa: impediva la costituzione di linee ereditarie nella detenzione di cariche, rimettendo al merito la loro attribuzione. In sostanza, lélite ecclesiastica si dava regole che la rendevano strettamente funzionale al più generale interesse di unistituzione che fin dallautocomprensione e dallautorappresentazione di corpo mistico del Cristo vivente non poteva darsi altra struttura che di tipo organicistico. Regole ben diverse da quelle dellélite che si strutturano in caste impermeabili allapporto di meriti esterni a quella che si dà forma in cerchia che tutela un interesse di classe, e che tende a trasmettere alla progenie, col patrimonio materiale, anche quello della conoscenza. Siamo dinanzi al problema che affligge in radice il liberismo per la facoltà concessa allindividuo di poter trasmettere la proprietà privata ai propri eredi, di fatto abolendo la condizione di parità in partenza che in teoria dovrebbe coniugare al meglio libertà e uguaglianza: problema sostanzialmente irrisolvibile, data la natura del contratto umano che lega padri e figli. Il pericolo più grosso corso dalla Chiesa nel corso della sua storia fu quello che col nepotismo rese liberamente trasferibile la carica ecclesiastica lungo lasse ereditario naturale, negazione in principio di quello della dinastia apostolica. Così per lélite che blocca lascensore sociale: per quanto possa essere feroce la difesa delle proprie prerogative e dei propri privilegi, il sistema col quale nega laccesso a chi ne ha merito è il dispositivo a tempo che ne causa lautodistruzione. 

mercoledì 6 luglio 2016

Gentile Matteo Renzi


Gentile Matteo Renzi,
nel caso in qualche modo Le arrivasse questa mia che metto in bottiglia e getto nel gran mare della rete – mi auguro voglia apprezzare, come sforzo empatico, ladeguarmi alla Sua estetica da liceale – sappia che qui Le parlo deponendo ogni disprezzo per la Sua persona, cosa che fino a ieri ritenevo impossibile, ma che invece oggi, almeno per il breve spazio che prenderanno queste righe, credo di riuscire a fare.
È che nella mostruosa costruzione dellimpostura da Lei incarnata mi è parso di scorgere una tenue incrinatura nel punto in cui, nel corso della relazione da Lei tenuta alla Direzione del Pd di ieri, ha fatto cenno alla vergogna che Suo figlio Le ha detto proverebbe nel caso in cui Lei si recasse ad assistere una partita di calcio da lui giocata. Sono certo che uno come Lei non abbia alcuna difficoltà nel fingersi commosso, né credo si farebbe scrupolo nellusare un figlio per estorcere due grammi di simpatia, e tuttavia ieri mi è parso sincero: mi è parso sinceramente addolorato nel fatto che Suo figlio non voglia che Lei vada a guardarlo quando gioca, ed è quel dolore di padre che oggi mi consente di rivolgermi a Lei dimenticando per un istante il resto. Non escludo, sia chiaro, che ieri Lei possa aver messo a frutto gli studi di Ekman, Cialdini, Mehrabian, e sappia spezzar la voce ad arte, deglutire come si deve, insomma, non escludo che ieri Lei mi abbia fottuto, ma fa niente, voglio dare per scontato che Lei fosse davvero addolorato.
Bene, mi consenta di correggere lerronea impressione che Le ha dato il dolore: il ragazzo non si vergogna che il su babbo abbia la scorta, e nemmeno che labbia a dispetto di quanto Lei ebbe a dire in giorno in cui si insediò a Palazzo Chigi («A me la scorta non mi garba, non la voglio, grazie. La mia scorta è la gente» - Corriere della Sera, 18.2.2014), prima di una lunga serie di parole non mantenute: il ragazzo teme di doversi vergognare degli epiteti che il pubblico presente non mancherebbe di rivolgerLe.
Sia orgoglioso di Suo figlio: ha miglior polso del Paese di quanto ne abbia Lei. E poi ha una virtù che Le manca, e che dunque deve aver preso senza dubbio dalla mamma: è capace di vergognarsi. Lei non può capire, ma – si fidi – è promessa che, a dispetto di quello che è suo padre, possa pure diventare un galantuomo. Quella, sì, che almeno a casa Sua sarebbe una riforma di rilievo.
Saluti,

martedì 5 luglio 2016

[…]

Su segnalazione di diciottobrumaio ho acquistato e letto uno dei più bei libri che mi siano capitati per le mani in questi ultimi anni, la Storia della guerra civile americana di Raimondo Luraghi (Rizzoli, 1985), e davvero non posso trattenermi dal consigliarvelo. Non fatevi spaventare dal numero delle pagine, scorre che è una meraviglia.  

domenica 3 luglio 2016

Italiani nel mondo


«17.3.2014 - Le telecamere di Presadiretta hanno girato un reportage sconvolgente in Bangladesh, il paese dove i grandi marchi di tutto il mondo vanno a produrre i loro capi sfruttando il bassissimo costo della mano d’opera. Il paese dove un anno fa è crollata la fabbrica di Rana Plaza, già dichiarata inagibile, lasciando sotto le macerie più di mille lavoratori. Un paese dove gli operai che lavorano per l’Occidente guadagnano poche decine di dollari al mese, non hanno diritto di chiedere aumenti né di manifestare. Presadiretta è andata nel centro e nel nord Italia per raccontare la crisi del tessile, il secondo comparto industriale italiano per numero di lavoratori, che in questi ultimi anni di crisi ha perso più di 85mila posti di lavoro. E soprattutto, per capire le ragioni della crisi di questo settore. Non solo la concorrenza dei laboratori cinesi e la delocalizzazione nei paesi dove il costo della forza lavoro è sempre più basso, ma anche la pratica di esternalizzare porzioni della produzione all’estero, per poi assemblare in Italia e applicare l’etichetta “Made in Italy”» (*).

Sul «taglia e cuci capzioso delle citazioni»


Quello riprodotto qui sopra è un brano tratto da Benedetto XVI – Il pontificato interrotto di Aldo Maria Valli (Mondadori, 2013). Al mio lettore chiedo di porre attenzione alla dichiarazione di padre Federico Lombardi riportata in coda, richiamando alla memoria il contesto. Siamo alla fine di novembre del 2006 e il papa arriva in Turchia. Nel mondo musulmano sembrano essersi un po sopiti gli animi che hanno dato vita a durissime proteste per ciò che Benedetto XVI ha detto a Ratisbona, non più di un mese e mezzo prima. Sarà che sè cagato addosso per il bordello che ha scatenato facendo sue le critiche che Manuele II Paleologo muoveva allislam sei secoli prima e ora vuole fare il carino, sarà che da papa ora è anche capo di stato e deve fare i conti con la ragion di stato, sta di fatto che della fiera contrarietà allingresso della Turchia nella Ue, espressa in più occasioni da cardinale, ora pare non esserci più traccia. Certo, Erdogan è un figlio di puttana e senza dubbio forza il senso di ciò che Ratzinger gli avrà realmente detto in privato. Si spiega, dunque, la necessità di precisare, ed eccoci alla dichiarazione di padre Lombardi.
Aldo Maria Valli gli fa dire: «Anche se incoraggiamo il cammino di avvicinamento sulla base di princîpi comuni, la Santa Sede non ha né il potere né il compito politico specifico di intervenire sul punto preciso dellingresso della Turchia nell’Unione europea». In via preliminare, è da segnalare che, «sul punto preciso dellingresso della Turchia nell’Unione europea», pare fosse legittimo intervenire da Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ma non lo sia più da Sommo Pontefice: alla logica umana potrà sembrare un paradosso, ma non dobbiamo commettere l’errore di giudicare le cose clericali in base a quella, sennò facciamo violenza allo Spirito Santo.
Lasciamo perdere, torniamo alla dichiarazione che Valli mette in bocca a padre Lombardi. Bene: diciamo che non è affatto fedele. Se ci abbeveriamo alla fonte originaria, constatiamo che la dichiarazione è unaltra: «La Santa Sede non ha né il potere né il compito politico specifico di intervenire sul punto preciso dellingresso della Turchia nell’Unione europea. Tuttavia vede positivamente e incoraggia il cammino di dialogo, di avvicinamento e di inserimento della Turchia in Europa, sulla base di valori e princîpi comuni».
Cosa è cambiato dalla versione originale a quella di Valli? Innanzitutto, è sparita lespressione «inserimento della Turchia in Europa», che ovviamente ha un peso enorme, perché palesa la vistosa contraddizione tra le posizioni del cardinale e quelle del papa: pur concedendo che questo «inserimento della Turchia in Europa» non sia sovrapponibile ad una «entrata della Turchia nella Ue», siamo ben distanti da quel che Ratzinger ha detto appena due anni prima («Storicamente e culturalmente la Turchia ha poco da spartire con l’Europa: perciò sarebbe un errore grande inglobarla nell’Unione Europea» - 18.9.2004).
Poi, si è invertito lordine delle proposizioni separate da unavversativa come «tuttavia», con ciò capovolgendo lordine di priorità fra le due. Padre Lombardi, infatti, premette che la Santa Sede ha un potere dazione limitato, per poi esprimere, a fronte di ciò, un parere favorevole («vede positivamente») a qualcosa che non è solo un «dialogo» tra Turchia ed Europa, ma un «avvicinamento» tra le due, per di più finalizzato ad un «inserimento» delluna nellaltra, per il quale formula un auspicio che non è di maniera («incoraggia»).
Valli, invece, premette lauspicio, che con lomissione dell«inserimento della Turchia in Europa» diventa una vuota formula di circostanza, che perde ulteriormente peso per la concessiva che la introduce («anche se»), sicché la dichiarazione di non avere «né il potere né il compito politico specifico di intervenire» da premessa diventa conclusione: da limite che non impedisce di spendersi per quel che si augura, diventa insuperabile condizione ostativa. In sostanza, è invertito il valore relativo che una proposizione ha rispetto allaltra, come avverrebbe col trasformare «Valli è uno stronzo, ma dà impressione di meritare attenzione» in «anche se dà impressione di meritare attenzione, Valli è uno stronzo».
Riprendendo la formula usata qualche giorno fa da Gad Lerner in polemica con Giulio Meotti, siamo dinanzi a un caso di «taglia e cuci capzioso delle citazioni», espediente retorico che qui fa ricorso allargumentum ad auctoritatem, previo il forzoso reclutamento dell’auctoritas ai propri fini, e che in altre occasioni fa ricorso allargumentum ad hominem, dopo aver messo in bocca allhomo quello che in realtà non ha detto. In entrambi i casi, la questione di merito resta inevasa, pretendendo sia risolta nelladesione allopinione dell’auctoritas o nel respingere quella squalificata con lattribuirla a un homo sottoposto a una reductio (ad absurdum, ad hitlerum, ecc.). Così, nel caso dellentrata della Turchia nella Ue, si dovrebbe essere persuasi ad esserne contrari perché pure il cardinale Ratzinger lo era, e qui largumentum ad auctoritatem non ha bisogno di alterare lopinione dell’auctoritas, limitandosi ad omettere che quella di Benedetto XVI fosse diversa (cosa che Meotti fa in un articolo apparso ieri su Il Foglio), sennò sostenendo che fosse la stessa (come fa Valli nel suo libro), ma dovendo ricorrere «taglia e cuci capzioso delle citazioni», e nel caso in questione facendo peggio di Erdogan.

venerdì 1 luglio 2016

Rap

«... trovo molto interessante
la mia parte intollerante
che mi rende rivoltante
tutta questa bella gente»

Adesso, per chi ne magnificava le virtù, lItalicum non va più bene. Per chi si dichiarava indisponibile a rimetterci mano, almeno qualche ritocchino, adesso, lo merita, non fossaltro per tentare un altro Nazareno. Né manca, sul fronte opposto, chi riteneva fosse la madre di tutte le possibili criptodittature, e adesso dice che ridiscuterne non è un problema prioritario, limportante è altro, chessò, strappare a Paolo Mieli la sorpresa che nella cozza del M5S cè quella perla di un Luigi Di Maio, oggi simpatico come lo era Daniele Capezzone fino a dieci anni fa.
Viene la voglia di un Dio spietato che li incenerisca tutti, boss e luogotenenti, gregari e leccaculo di complemento, ma, si sa, voglie del genere segnalano un malessere esistenziale di grado severo, quello del moralismo. Abbia il buon gusto, chi ne soffre, di non esibirlo, perché è vero che, come la psoriasi, non attacca, ma in società crea il panico del contagio più della rogna. Poi, diciamocela tutta, pretendere che il prossimo nostro abbia sempre un argomento decente per dimostrarci che non è luomo di merda che palesemente sembra – sensu stricto – è violenza.
Dissimulare, dissimulare, coprire la chiazza cutanea con la cipria di una soffice ironia, dire che sono tutti eguali, e chi lo sembra meno, gratta gratta, è peggio, ma senza mostrare acredine, sfoggiando il sorriso consigliato a pag. 23 del Vademecum del perfetto uomo di mondo, quello di chi ha visto tutto, e non si scandalizza più di niente, anzi trova tutto molto divertente. 



Appendice

«Ogni partito è favorevole a quella tecnica elettorale che gli fa più comodo, e cerca di far passare quella legge elettorale che meglio canonizzi quella tecnica.
Questo è vero. Ma non è tutta la verità. In un paese che non riduca le elezioni a truffe perpetrate dai più imbroglioni a spese dei più minchioni, la legge elettorale non può solamente e brutalmente prescrivere quella tecnica di votazione che fa comodo a chi fa la legge. In un paese di gente onesta, e non di falsari, la legge elettorale deve prescrivere non solo una tecnica, ma anche una regola di gioco, la quale giustifichi quella tecnica: regola di gioco, da cui tutti si sentano legati perché garentisce i diritti di tutti: cioè il diritto di formare il governo in chi ottiene il consenso della maggioranza, e il diritto della minoranza di essere rispettata nelle proprie libertà.
Quando la tecnica della votazionecessa di essere regola di gioco riconosciuta legittima da tutti, e pretende produrre sempre, ad ogni costo, una maggioranza governativa, non è più una regola di gioco, ma un imbroglio totalitario.
[…]
A questo punto i lettori del “Mondo” mi lascino riconoscere, prima che me lo dica altri, che ho finora fatto un discorso da “moralista”, e non da “realista”. E il moralista, come tutti sanno, è un “astrattista”, un “antistorico”, un cretino famoso, che non dovrebbe occuparsi mai di materie politiche.
Sia. Ma sta il fatto che il mondo trabocca di cretini famosi. E, in regime di suffragio universale, costoro rappresentano un peso, del quale debbono tener conto i sapientoni fabbricanti di tecniche elettorali, perché sono precisamente quei moralisti astrattisti ed antistorici che decidono le elezioni, spostandosi di qua o di là, squadre volanti; disgraziati, che cambiano bottega non appena si avvedono che il macellaio ruba sul peso, e non amano fare amicizia con un mercante di cavalli, perché sanno che vende onzini vecchi come puledri giovani. Pregiudizi. Ma esistono; e chi li trascura, si trova male. Motivo percui i fabbricanti di nuove tecniche elettorali debbono persuadere proprio noi che essi non intendono truffare nessuno, ma ci invitano ad assumere impegni, ai quali abbiamo lobbligo di consentire a ragion veduta.
[…]
È inutile che storciate il muso allorché qualcuno vi ricorda questo guaio. Guaio o non guaio, questa, oggi come oggi, è la realtà; e se ve ne infischiate, essa si rivolterà contro di voi».
Gaetano Salvemini
(Il Mondo, 20 settembre 1952)

giovedì 30 giugno 2016

Documentarsi

Le cinque stelle che compaiono nel simbolo del M5S avevano un loro ben preciso significato già molto tempo prima che al Teatro Smeraldo di Milano, il 4 ottobre 2009, si desse battesimo al movimento politico con la presentazione ufficiale del programma e – appunto – del simbolo. Quasi un anno e mezzo prima, infatti, il 25 gennaio 2007, dando il via alla formazione di liste civiche cui Beppe Grillo assicurava il suo sostegno a condizione che i candidati si impegnassero al rispetto dei punti programmatici che poi saranno della Carta di Firenze (8 marzo 2009), veniva data spiegazione di cosa simboleggiassero quelle cinque stelle: «Una per l’energia, una per la connettività, una per l’acqua, una per la raccolta rifiuti, una per i servizi sociali». Bastava sottoscrivere limpegno su quei cinque punti per potersi fregiare del pentastellato bollino di garanzia, un po come, da banana, basta rispettare un certo standard per meritare quello blu della Chiquita.
Errato, dunque, quanto era scritto, ieri, a pag. 2 de Il Foglio: «Le cinque stelle sono quelle degli alberghi, anzi dello stile di vita. “Potremmo avere una vita a cinque stelle”, urlava nei comizi fondativi il capo comico e da lì nacque il simbolo». E a seguire: «Negli alberghi a 5 stelle non ci sono solo ospiti ma anche camerieri, facchini, sguatteri e lavandaie, e che qualcuno che lo faccia bisognerà pur trovarlo». Sembrava manifesta in Massimo Bordin, che firmava il pezzo, la certezza di aver trovato in radice la mala pianta del velleitarismo grillino, per mostrarne subito tutta la fragilità allazione diserbante del pensare a quanto inganno possa essere contenuto nella promessa di assicurare a tutti «le lenzuola di lino e la colazione in camera».
Sta di fatto che Beppe Grillo non ha mai materialmente collegato l’immagine delle cinque stelle agli hotel di lusso: con «vita a cinque stelle» ha inteso solo definire lo standard di vita di cui tutti avrebbero potuto godere con lattuazione del programma relativo ai cinque punti cui si faceva cenno prima. Più che legittimo contestare nel merito uno, due o tutti e cinque i punti, altrettanto legittimo mettere in discussione il metodo col quale il M5S si prefigge di attuarli, ma caricaturizzare la posizione di chi pure ci stia potentemente sul cazzo è cosa intellettualmente disonesta, e come tale va segnalata.
Come accade che si possa cedere a questa tentazione? Mi pare che unottima risposta a tale domanda sia data da Gad Lerner nella replica a un velenoso attacco che ieri, sempre dalle pagine de Il Foglio, gli era mosso da Giulio Meotti, accusato – giustamente, ci pare di poter dire, avendogli più volte sollevato da queste pagine la stessa imputazione – di «costrui[re] le sue argomentazioni col taglia e cuci capzioso delle citazioni»: «La denigrazione dell’avversario, quando si è dominati dal pregiudizio ideologico, sollecita forzature che spesso conducono all’esito penoso di prendere fischi per fiaschi». Che questo capiti a Meotti, passi, ma che possa capitare pure a Bordin, ferisce.

Coda Un giorno chiesero ad Arrigo Cajumi quali fossero le qualità necessarie per arrivare ad essere un polemista della sua levatura. Non si schermì con la falsa modestia dei simpatici ad ogni costo, ma senza esitare un attimo rispose: «Sono tre: documentarsi, documentarsi e documentarsi».

martedì 28 giugno 2016

[...]

Pare che per la Brexit sia stato determinante il voto del cosiddetto «paese profondo», quello delle aree più interne, comunque più lontane dal flusso delle relazioni e degli scambi col mondo esterno. Nella visione organicistica di una nazione è quello che solitamente è detto «ventre del paese», con ciò assegnandogli quei tratti che danno impronta viscerale alla sua dimensione esistenziale. Questa, comè per gli organi governati dal sistema nervoso enterico, è caratterizzata, sul piano sensoriale, da uno spettro percettivo dalle rappresentazioni grossolane, per lo più immediate, ma spesso poco nitide, che tuttavia non mancano per questo di potenza, anche notevole, talvolta perfino spropositata rispetto agli stimoli che le hanno determinate, perché si tratta di immagini che in gran parte attingono a una sfera del simbolico che è primordiale, per nulla sorvegliata dai processi di ideazione che sono propri delle percezioni sensoriali di tipo superiore. Sul piano funzionale, invece, siamo nel regno del vegetativo, dellautomatismo, degli archi riflessi corti e ultracorti, col prevalere di quegli elementi pulsionali e reattivi che sono comuni ad ogni specie animale, anche a quelle che hanno un sistema nervoso centrale assai meno complesso di quello umano.
Ce ne sarebbe abbastanza, in definitiva, per liquidare ogni sentire del «paese profondo» come sordo, opaco, intrattabile, e ogni suo agire come cogente, istintivo, irrazionale, se non fosse che la visione organicistica di una nazione è da sempre uno strumento di semplificazione che risponde a una logica di parte, giacché Menenio Agrippa era un patrizio. Del suo apologo resta in piedi la retorica delle classi che «quasi unum corpus discordia pereunt et concordia valent», ma cè da segnalare un’interessante inversione di segno: lì il ventre era lélite economica, politica e culturale della Roma del V secolo a.C., che la plebe accusava di essere «otiosa», muovendosi perciò alla prima e rudimentale forma di sciopero della storia; oggi, invece, almeno nel caso del Regno Unito, il ventre è quanto resta di un proletariato quasi del tutto ripiegato sulla sua miseria e di una borghesia che la crisi economica ha impoverito ed emarginato in aree suburbane perché lasciasse il centro delle grandi città ai nuovi ricchi. Il «ventre del paese» è quello delle masse alle quali è stato tolto tutto, lasciando ad esse solo la nostalgia per un Regno Unito che non cè più e lillusione di poterlo ricreare uscendo dalla Ue. Liquidare questa scelta come irrazionale è legittimo, ma è di parte, giacché non cè nulla che oggettivamente mostri un utile nell’accettare, da esclusi, la logica di un’inclusione che sottrae potere e diritti.
Questa Europa è nata male ed è cresciuta peggio. Soprattutto, non ha mai dato segno di voler cambiare rotta. Ultimamente, poi, è sembrata addirittura nell’impossibilità di farlo, ammesso e non concesso che potesse essere nelle intenzioni di chi ne regge il timone. Comè naturale, ora, si calcolano i danni che dalla Brexit verranno alla Ue e al Regno Unito, ma anche qui la logica di chi fa i conti è di parte. Non voler capire questo, e continuare parlare di ciò che il Regno Unito avrà da scontare con la Brexit, rimanda alla visione organicistica di una nazione: preoccuparsi che dal tavolo non cadano più le briciole per i poveracci perché ai commensali sono state ridotte le portate. Non diversamente da quando si pretenderebbe che un crollo in borsa debba affliggere anche chi non vi avesse investito neppure un soldo: le regole del gioco vogliono che anche lui abbia a subirne un danno, ma questo non mette in discussione le regole del gioco, solo la sua eventuale indifferenza all’ennesimo venerdì nero. Menenio Agrippa ci mostra l’angoscia del broker londinese invitandoci a farla nostra, del tutto ignaro che intanto si ingrossa il numero di chi non ha quasi più nulla da perdere.

venerdì 24 giugno 2016

giovedì 23 giugno 2016

[...]


Stasera l’Italia ha giocato con l’Irlanda, dico bene? Non si trattava mica dellaltra Irlanda, quella del Nord, che insieme a Germania, Polonia e Ucraina era nel girone C, dico bene? Ed è corretto chiamare «britannici» gli irlandesi che non sono dellIrlanda del Nord? Ultima domanda: come si dice in gaelico «titolista di ansa.it, britannica sarà tua sorella»?

mercoledì 22 giugno 2016

Disclaimer

Non ho mai votato il M5S e molto probabilmente non lo voterò mai. Due, i motivi. Il primo è dordine generale: almeno da due anni sono giunto alla decisione di astenermi da ogni competizione elettorale retta da regole che costringano a votare il menopeggio contro il peggio, comè stato col Porcellum, come sarebbe con lItalicum, come sarebbe con qualsiasi altra legge elettorale che avesse come fine ultimo, mediato o immediato, la reductio a un bipolarismo che oggi non è più nei fatti, e che forse non lo è mai stato neanche in passato, se non come aspirazione di quanti hanno coltivato a tal punto il mito della governabilità da arrivare a perdere di vista il principio della rappresentatività. Il secondo motivo è prettamente specifico, ma conseguente al primo: il M5S è il menopeggio oggi presente nel quadro politico italiano, ma non mi piace affatto. Non mi piace la sua anima, populista e settaria. Non mi piace il suo programma, demagogico e velleitario. Non mi piace il suo profilo culturale, che porta leclettismo allo sproposito dellaccozzaglia, non già inseguendo il millantato affrancamento dalle tradizioni ideologiche del secolo passato, ma pigliando un po da ciascuna, e neanche il meglio. Non mi piace, soprattutto, la sua struttura, formalmente assemblearistica e sostanzialmente verticistica, dove a sollevare il problema non è neppure la contraddizione in termini tra dichiararsi movimento, addirittura comunità, ed essere di fatto un partito a conduzione padronale, ma il fatto che assemblearismo e verticismo sono degenerazioni della democrazia.
Paradossale che, trovandogli così gravi difetti, io ritenga che il M5S sia lo stesso il menopeggio? Se guardo al Pd di Renzi e al centrodestra di Berlusconi, Salvini e Meloni, non direi proprio. Senza alcuna intenzione di attenuare il giudizio appena espresso, direi al contrario che ultimamente il dato sia sempre più evidente, da un lato, per unulteriore involuzione del Pd e del centrodestra e, dallaltro, per unaccorta serie di ritocchi che, dopo la scomparsa di Casaleggio e il «passo a lato» di Grillo, hanno dato al M5S un volto meno impresentabile. Insomma, se ancora fossi affetto dalla perniciosa malattia che in mancanza di unofferta politica decente spinge a votare il menopeggio, e che nel 1994 mi spinse a votare Berlusconi contro Occhetto e nel 2013 Bersani contro Berlusconi, oggi voterei il M5S contro tutto il resto. Ringrazio il cielo per essere riuscito a liberarmene, perché sono sicuro che anche in questo caso sarei destinato a pentirmene. Più o meno amaramente, va’ a saperlo.
Con questo post mi auguro di aver dato risposta esauriente a quanti da qualche tempo mi accusano di essere diventato grillino, talvolta preoccupati, talvolta delusi, sempre amareggiati: non lo sono diventato, per quel che sono non potrei neanche volendo, e poi quel che sono basta e avanza per impedirmi anche il volerlo. Non sono grillino, non ho mai votato il M5S e non ho alcuna intenzione di votarlo. Ripeto: sono guarito. Non venitemi, però, a dire che meglio di un Di Maio o di un Di Battista ci sono un Renzi o un Salvini, che meglio di una Raggi o di una Appendino ci sono un Giachetti o un Fassino, che meglio di una Taverna c’è una Ravetto o una Picierno, sennò rischio una ricaduta. Prima, in ogni caso, vi mando a fare in culo.