Nell’ultima
o penultima puntata della seconda serie di Gomorra (Sky
Atlantic, 2016) – non ricordo bene – c’è la
scena in cui Malammore, il fedelissimo di don Pietro Savastano, uccide Maria Rita, una ragazzina di undici o dodici anni, figlia di
Ciro Di Marzio: un caso di vendetta trasversale, tanto più bestiale
perché ad esserne fatto oggetto è un minore. Non è solo questo,
tuttavia, a destare il comprensibile raccapriccio nello spettatore: prima di sparare,
quasi per uno straccio di anticipata resipiscenza, Malammore prende
il crocifisso che porta appeso ad una catenina che ha al collo, lo
porta alle labbra e lo bacia. Anche con un certo trasporto, occorre
dire.
È evidente che la religione c’entri
poco o nulla, ma è altrettanto evidente che quel crocifisso è
senza alcun dubbio un simbolo religioso. Come possiamo sciogliere il
paradosso?
Una soluzione potrebbe essere quella di ascrivere il gesto
a tutta quella serie di rituali che in passato precedevano le
operazioni belliche che avessero per fine più o meno dichiarato
quello dello sterminio di infedeli, e che ancora oggi persistono in
forma residuale nella benedizione delle truppe inviate in guerra, in
certi casi perfino delle loro armi, da parte dei cappellani militari,
come a dare una sorta di copertura morale al soldato per ciò che si
appresta a fare. Bene, ma tutto questo ha qualche attinenza con ciò
che è propriamente religione? Tutto sta nel propriamente,
perché ogni religione – insieme – vieta severamente l’omicidio
e poi concede sempre qualche deroga a commetterlo, soprattutto quando
è in gioco la difesa della fede, anche se per alcune religioni la
deroga ormai si è assai ristretta. Si prenda proprio il caso del
crocifisso di Malammore: in passato giustificava ammazzamenti d’ogni
genere, oggi solo la legittima difesa, nella quale rientrano, anche
se sempre meno comodamente, pure la pena di morte e la cosiddetta
«guerra giusta»
(Catechismo della Chiesa
Cattolica, 2263-2267).
Diremmo
che Malammore è tre volte in difetto verso il crocifisso che bacia
prima di far fuori la ragazzina. Innanzitutto, è pesantemente
anacronistico rispetto ai tempi in cui nell’occidente
cristiano bastava baciare un crocifisso per sentirsi a posto con la
coscienza e passare ad ammazzare chiunque stesse sul cazzo a chi
comandava di farlo. Il Pietro che gli ha commissionato
quell’omicidio,
inoltre, non ha proprio niente a che vedere col Pietro che invece
avrebbe avuto piena potestà di commissionarglielo, in passato, semmai insignendolo del titolo di defensor fidei.
Infine, la piccola Maria Rita è soggetto che si presta in modo
assai poco congruo a poter essere considerata nemica della fede,
quand’anche
la scena fosse retrodatata di secoli: non è ebrea, non è eretica,
non è strega.
In definitiva, potremmo dire che il bacio che
Malammore dà al crocifisso, più che muoverci a sgomento, deve interrogarci
sulla funzione che quel gesto ha avuto in passato, e sul come ne sia
arrivato fino a noi del tutto privo, per finire coll’indurci
a una reazione che somiglia molto, per l’automatismo che fa mix di ignoranza e pigrizia mentale, al biasimo di cui facciamo oggetto
chi usi posate e bicchieri tenendo il migliolo sollevato in aria,
retaggio dei tempi in cui a quel dito i nobili portavano un anello,
quello solitamente usato per apporre il proprio sigillo, che a tavola cercavano di evitare si sporcasse di pietanze. Nato come gesto con
una sua precisa funzione, è diventato, prima, ciò che segnalava il
possesso di un titolo nobiliare e, poi, uno stigma da cafone.
Ecco,
dunque, cosa abbiamo visto in quella scena della seconda serie di
Gomorra:
un fossile del cristianesimo che ieri era vivo e pulsante (immaginate
un esercito di crociati sfilare davanti a uno stendardo sul quale è
ricamata una croce da baciare prima di schierarsi in battaglia) e che
oggi emerge dal passato ormai pietrificato, roba che un creazionista può azzardare sia una prova cui Dio ci sottopone per saggiare la nostra cocciutaggine nell’eresia darwinista. Il crocifisso di Malammore – possiamo dire – assume la funzione di un feticcio di cui si sia smarrita la comprensione del perché la sua protezione sia potente.
Questa era la premessa. Si è capito che l’intenzione
era quella di commentare l’editoriale
che Ernesto Galli della Loggia firmava ieri sul Corriere
della Sera per
dare una risposta indiretta a quanti mi hanno accusato di aver omesso
ogni cordoglio per gli imprenditori tessili italiani morti a Dacca
per limitarmi ad insinuare che potessero essere lì a delocalizzare
la produzione per il basso costo della manodopera locale?
No, eh? E vabbè, significava pretender troppo. Passiamo a Ernesto
Galli della Loggia.
«Chissà
se in quella tragica sera di Dacca qualcuno dei nove italiani, mentre
veniva torturato e si preparava ad essere sgozzato per non aver
saputo rispondere a dovere alle domande di catechismo islamico, avrà
pensato che i suoi compatrioti avrebbero preso l’impegno di
vendicarlo. Penso proprio di no, dal momento che quegli italiani
erano certamente esperti del mondo e della vita. Non sta bene covare
sentimenti di vendetta, e tantomeno dirlo: loro sapevano che noi la
pensiamo così, e dunque non potevano certo farsi illusioni».
Se
non fosse che siamo così intensamente cristiani da non riuscire
neppure a concepirla, la vendetta, come avremmo potuto vendicarli,
volendo? A chi farla pagare, visto che gli attentatori hanno seguito
la stessa sorte delle loro vittime? Prendercela con tutti i musulmani
di casa nostra o con i soli musulmani d’origine
bengalese? Dichiarare guerra al Bangladesh? «Quegli italiani erano
certamente esperti del mondo e della vita», non c’è
motivo per dubitarlo, non a caso facevano affari in un paese dove un
salario medio è sui 60-70 euro, a fronte dei 1.600-1.700 che costerebbe in Italia: nulla a che vedere con l’esperienza
che rende impossibile attendersi vendetta, per sensibilità
cristiana, dai propri connazionali, men che meno da quelli licenziati
perché la loro produzione veniva trasferita in Bangladesh. Diciamo
che il mondo e la vita di cui erano certamente esperti li rendeva
scettici sulla possibilità di essere vendicati, ma per tutt’altre
ragioni che la nostra indiscutibile sensibilità cristiana.
«Verso
la memoria di quelle vittime però, dovremmo tutti prendere almeno un
impegno di serietà e di verità. Dunque, parlando di ciò che li ha
condotti alla morte, rinunciare al buonismo di principio, ai giudizi
programmaticamente tranquillizzanti, agli equilibrismi. Che ad
esempio i maggiori quotidiani del loro Paese, quasi per farsi
perdonare l’audacia di aver avanzato in un primo momento il
sospetto che nella macelleria bengalese, vedi mai, la religione
islamica c’entrasse qualcosa, che quei giornali, dicevo,
immediatamente dopo si sarebbero sentiti in dovere, in omaggio a una
presunta obiettività, di pubblicare articoli volti a rigettare il
sospetto di cui sopra giudicandolo calunnioso e frutto di ignoranza,
ebbene che una cosa simile sarebbe accaduta questo forse nessuna di
quelle vittime è arrivata certamente a pensarlo».
Se
guardando la puntata di Gomorra di cui abbiamo parlato nella premessa
hanno rigettato l’idea che quel crocifisso avesse a che fare con la
natura prima e ultima del cristianesimo, può darsi invece che siano
arrivati a pensarlo: perché dare per scontato che gente esperta del
mondo e della vita non sappia che la religione è sovrastruttura che
copre mille schifezze?
«Da
anni infatti terroristi islamici seminano dovunque la morte ma
l’opinione pubblica occidentale si sente puntualmente ripetere che
la loro religione non c’entra nulla. Il più delle volte con
l’argomento (evidentemente reputato in grado di chiudere la bocca a
chiunque) che, a tal punto il terrorismo islamico non c’entrerebbe
nulla con la religione islamica che spesso le sue vittime sono
proprio gli stessi islamici. Come chi dicesse che poiché le guerre
di religione nell’Europa del Cinque-Seicento vedevano dei cristiani
ammazzare altri cristiani, proprio per questo la religione con quella
violenza non avesse nulla a che dividere».
Ma anche
in quel caso, infatti, la religione era sovrastruttura, stupisce che
un professorone del calibro di Ernesto Galli della Loggia possa
pensare che cattolici e protestanti si scannassero perché avevano
una diversa comprensione del concetto di Grazia.
Prendete fiato, qui Ernesto Galli della Loggia scende nella profondità nel messaggio cristiano: se vogliamo seguirlo senza rischiare l’asfissia, occorre adeguata ventilazione. E attenti a quando lo seguirete nel risalire in superficie, sennò vi scappa l’embolo.
«“I
jihadisti — ha scritto Tahar Ben Jelloun, conosciutissimo
teorizzatore dell’Islam tollerante all’interno di un’auspicata
tolleranza universale — prendono a riferimento dei versetti che
erano validi all’epoca della loro rivelazione ma oggi non hanno più
senso”. Già. Ma mi chiedo: e chi è che lo decide quali versetti
del Corano continuano ad “avere senso” e quali invece sono per
così dire passati di moda? Chi? E in ogni caso non vuol forse dire
quanto scrive Ben Jelloun che comunque in quel testo ci sono parole e
precetti che si prestano e magari incitano ad un certo uso della
violenza? Certo, tutti sappiamo che il monoteismo in quanto tale
intrattiene un oscuro rapporto con la violenza. Ma fa qualche
differenza o no — mi chiedo ancora sperando di non incorrere per
questo nell’accusa di islamofobia — fa qualche differenza o no se
nel testo fondativo di un monoteismo i riferimenti alla violenza ci
sono, espliciti e ripetuti, e in un altro invece sono del tutto
assenti? Fa una differenza o no, ad esempio, se i Vangeli non
registrano nella predicazione di Gesù di Nazareth alcuna azione o
proposito violento contro coloro che non credono? Non ha significato
forse proprio questo la possibilità nell’ambito del monoteismo
cristiano di mantenere aperto costantemente uno spazio di
contraddizione, di obiezione nei confronti della violenza pur
commessa in suo nome che altrove invece non ha mai potuto vedere la
luce? Mi pare assai dubbio insomma che tutte le cosiddette religioni
del Libro adorino davvero lo stesso Dio come sostengono gli
instancabili promotori delle tante occasioni di “dialogo
interreligioso” che si organizzano dovunque tranne però, chissà
perché, nei Paesi musulmani. Per la semplice ragione che in realtà
quel Libro è per ognuna di esse un Libro dal contenuto e dal
significato ben diversi».
Quanto
spreco di fiato solo per riaffermare le ragioni del Manuele II
Paleologo citato da Ratzinger a Ratisbona! Nell’islam sarebbe
intrinseca la giustificazione della violenza a fine proselitario che
invece è assente nel cristianesimo, e questo sarebbe provato dalla
presenza nel Corano di versetti che alcuni musulmani (non tutti, dunque) prenderebbero
alla lettera: nulla di simile nei Vangeli, ed ecco, allora, la prova provata che
il cristianesimo è religione di tolleranza e di pace. Vallo a
spiegare a chi l’ha sperimentato sulla propria pelle per oltre un
millennio, dal IV al XVII secolo: digli che è stato battezzato a
forza per una malintesa lettura dei Vangeli, che dove non
prescrivevano la conversione col ferro e col fuoco trovavano esegeti
particolarmente creativi, vedrai che apprezzeranno molto il
distinguo e, grati della libertà che gli concedi, abbandoneranno la fede nella Santissima Trinità per tornare ad adorare Pachakamaq, Wiraqucha e Apocatequil.
Certo che pure ’sti Vangeli... Arriva Cristo e chiede che l’adultera non sia più lapidata, però, tanto per dire, dice che della legge mosaica non è venuto a cambiare neanche uno iota. Poi dice che bisogna amare il proprio nemico, ma dice che chi non è con lui è contro di lui. Che tipo, eh?
Certo che pure ’sti Vangeli... Arriva Cristo e chiede che l’adultera non sia più lapidata, però, tanto per dire, dice che della legge mosaica non è venuto a cambiare neanche uno iota. Poi dice che bisogna amare il proprio nemico, ma dice che chi non è con lui è contro di lui. Che tipo, eh?
«In
realtà è assai difficile pensare che l’Islam non abbia un
problema specifico tutto suo con la violenza. Ne è prova non
piccola, a me pare, come esso continui a praticarla nei suoi riti i
quali sembrano non aver conosciuto in misura decisiva il processo di
trasfigurazione simbolica avutosi in altri monoteismi. Chiunque ad
esempio si è trovato in una località islamica il giorno della Festa
del Sacrificio (che ricorda il sacrificio del primogenito richiesto
da Dio ad Abramo) ha potuto assistere allo spettacolo di ogni
capofamiglia che, armato di coltello, sgozza sulla pubblica via un
agnello procuratosi in precedenza. Certo, la pratica non è più
universale ma è ancora abbastanza diffusa da impedire di credere che
essa non costituisca tutt’oggi un paradigma dal potentissimo
richiamo emotivo per l’insieme dei credenti».
Zotici
intrinsecamente violenti, senza dubbio. Ma ancora niente rispetto a
Malammore.