[Probabilmente
discuteremo ancora a lungo – uso la formula usata qualche giorno fa
da Ernesto Galli della Loggia – «se
quella che stiamo vivendo è una guerra “di religione”, ovvero
una guerra in cui “c’entra la religione”, ovvero ancora una
guerra in cui una parte “si serve della religione”» (Corriere
della Sera,
30.7.2016). Abbiamo
cominciato a discuterne 15 anni fa, ma finora la discussione non è
servita a molto. È che i concetti di guerra e di religione non sono
così univoci come solitamente si è portati a credere,
se ne dovrebbe discutere solo dopo essersi messi d’accordo
sul significato dato ai termini. Per
quanto riguarda la religione, poi, quando nel
prenderne in considerazione una di cui si sappia poco o niente si usano
categorie ritenute idonee a comprenderne un’altra,
peraltro a torto, perché neanche di quella poi se ne sa molto di
più, la confusione è inevitabile. Per queste ragioni si deve ritenere utile ogni occasione che consenta di spiegarsi a dovere, e la lettera che segue, quella di un lettore che ha ritenuto fosse troppo lunga per postarla a commento di quanto ho scritto su un editoriale di Angelo Panebianco, mi pare la offra a chi, come nel caso del lettore, ritiene che «stiamo vivendo una guerra “di religione”», o che comunque sia «una guerra in cui “c’entra la religione”», e a chi ritiene, come ho più volte scritto su queste pagine, che la religione c’entra, sì, ma solo come sovrastruttura, e che, a darle altro valore, si corre il rischio di gettare benzina sul fuoco.]
Ho
letto l’articolo di Panebianco, e inizialmente ho avuto la sua stessa impressione riguardo quel «salto di qualità». Poi mi sono
detto chissà, magari per Panebianco i terroristi islamici vedono
«gli uomini-simbolo della odiata cristianità occidentale» come il
mostro che, se abbattuto, ti permette di passare il livello o una
testa di cervo da appendere al muro come trofeo (visto anche che
nell’Islam una figura tale, cioè un tramite tra il fedele e dio,
non esiste e quindi trasuda blasfemia) e allora sì: forse «salto di
qualità» assume un certo senso. Ma tutto ciò non ha molta
importanza. Ne ha, invece, capire quale ruolo giochi davvero la
religione in questo scontro. Lei dice che è una sovrastruttura, un
vestito che s’indossa per «chiedere il saldo delle proprie
frustrazioni».
C’è
un libricino di Piovene, «Processo dell’Islam alla civiltà
occidentale», che probabilmente conoscerà. È il reportage di un
convegno tenutosi a Venezia nel ’55, in cui si incontrarono
intellettuali, economisti, scrittori (c’era per esempio Taha
Husein) di entrambe le parti; l’Occidente era rappresentato da soli
italiani; c’erano orientalisti da una parte, occidentalisti
dall’altra. Bene, il convegno durò qualche giorno e per tutto il
tempo gli esponenti orientali sembrarono evitare - agli occhi degli
occidentali - la disputa meramente religiosa (dissero solamente che
il concetto di carità evangelica era affine a quello di fratellanza
espresso dal Corano e che in generale tra le due fedi non vi era
antitesi, semmai continuità) ma chiarirono un punto: «[I musulmani]
scindendo il Cristianesimo dalla civiltà Occidentale, hanno ritenuto
che questa abbia degenerato dai suoi principi...». L’empietà
degli occidentali, per loro, non risiedeva nel Cristianesimo ma
nell’averlo tradito, abbracciando il materialismo a danno della
spiritualità e con esso corrompendo, sfruttandole, le società
islamiche. Alla luce di tale premessa, le loro accuse nei confronti
degli occidentali presero a fondarsi su un unico punto, quello
politico, complice ovviamente la congiuntura storica. In realtà,
però, come Piovene fece notare, nell’Islam l’argomento politico
incapsula strutturalmente quello religioso, poiché non va
dimenticato che il Corano è anche un testo giuridico, un codice, e
se «in Occidente lo Stato presuppone la separazione della religione,
frutto della libera scelta della coscienza individuale, dalla
politica, che riguarda gli interessi collettivi, nell’Islam esso
presuppone la loro assoluta coincidenza». Ora, di tempo ne è
passato dal ’55, siamo d’accordo, ma si fa presto ad arrivare a
noi; le interpretazioni del Corano rimangono quelle: tra i fondamenti
ideologici di Bin Laden prima e Abū Bakr al-Baghdādi oggi vi sono
gli scritti di Sayyd Qutb, il capo dei fratelli musulmani che aiutò
parecchio Nasser a salire alla presidenza nell’Egitto
post-monarchico del fantoccio Re Faruk, per riceverne in cambio
galera e condanna a morte. Fu Qutb - dalla prigionia - a gettare il
seme del fondamentalismo moderno all’interno del cosmo musulmano
sunnita come reazione alla preclusione forzosa dei posti di potere
nei confronti delle figure religiose, massime quelle integraliste.
Oggi, Al Shabaab fa strage di cristiani in Kenya - ferma i pullman
con sventagliate di mitra, divide i fedeli dagli infedeli e uccide
questi ultimi; a Bamako nel 2015, all’hotel Radisson Blue, i
terroristi uccisero coloro che non conoscevano a memoria il Corano,
stessa cosa a Dacca poco fa (qui gli attentatori erano di famiglia
benestante, a evidenziare l’interclassismo della - termine usato
impropriamente - jihad: vi sono «attentatori di estrazione politica,
sociale ed economica completamente diversa. L’unica cosa che li
accomuna è l’ideologia religiosa che sottoscrivono» cit.). «O
davvero vogliamo far finta che a muovere fenomeni di tali dimensioni
possano essere contenziosi tutti teologici?» chiede lei, dottor
Castaldi. Hassan Butt (citato da Giovanni Fontana qui) affermò che
la teologia islamica era il motore della loro violenza. Sappiamo che
molte sure del Corano giustificano l’assassinio in nome di Allah,
anche per questo il califfato inquadra nei suoi eserciti chi quella
violenza la esprime con più efficacia (invasati, assassini,
psicopatici ecc...) e lo manda da noi. O gode della sua iniziativa
privata. Passi che tali fenomeni non siano «mossi da contenziosi
teologici», ma questo, di per sé, esclude la motivazione religiosa
in senso generale? Abū Bakr al-Baghdādī, in fine dei conti, era un
imam prima di Camp Bucca. Ma non voglio andare oltre su questo punto,
mi limito a fare congetture che mi sembrano degne di nota.
Sono
in linea di massima d’accordo con lei quando sostiene che Daesh
sfrutta gli attentati in Europa (in Africa, in America, nel Medio
Oriente) per «farsi forte nella resa dei conti con le opposte
fazioni» sorte dal Maghreb al Pakistan dopo le rivolte del 2010 e
via discorrendo (perché per esempio l’autoproclamato califfo,
subito dopo il ritorno in Iraq dalla prigionia, iniziò
sistematicamente a rompere i coglioni ad al-Mālikī e al suo governo
sciita con una lunga serie di attentati, governo che seppur malvisto
dai sunniti iracheni nessuno aveva ancora preso di mira a quel modo).
Sarà certo superfluo, però è bene ricordare che l’Isis non è
l’unica organizzazione terroristica islamista a fare disastri a
casa nostra, e nemmeno la prima: al-Qaeda stessa lo ha fatto in
maniera più eclatante; più recentemente, la strage di Charlie Hebdo
è anch’essa stata rivendicata da al-Qaeda, così come l’attacco
a un resort in Costa d’Avorio. La lotta per la conquista di
territori d’influenza, per l’accaparramento delle fonti
energetiche, portata avanti nella maniera che conosciamo, non dà a
Daesh - che negli ultimi mesi ha ridotto comunque parecchio il volume
delle aree assoggettate - nessuna sicurezza di poter anche solo
durare più a lungo dei suoi concorrenti: rispetto a questi ultimi si
è attirata più nemici e combatterli richiede continui arrivi di
forze fresche da impegnare; una débâcle nella sua pur imponente
macchina propagandistica potrebbe costarle cara.
Ritorno
infine a Panebianco, precisamente all’ultimo periodo del suo
articolo, dove scrive che «l’attacco di Saint-Etienne-du-Rouvray
dovrebbe» aprire gli occhi alla Chiesa, la quale avrebbe deciso
d’abbandonare l’Europa ormai secolarizzata. Non so se il
giornalista lì dentro ci collochi pure il nostro paese; a me viene
in mente la legge Cirinnà così come da originaria proposta e com’è
poi effettivamente passata, e penso ebbro di letizia: no, non ci ha
ancora abbandonati, Santa Romana Chiesa. Amen.
Marcello
Nardo
* * *
Prima
di venire al sodo, affronto le questioni relative all’articolo
di Panebianco che lei solleva in apertura e in chiusura.
(1) Se c’è articolazione tra attentato e attentato, e se quanto ne caratterizza il tratto funzionale è l’essere «guerra di religione», attaccare una chiesa e uccidere un prete arrivano assai in ritardo: più che un «salto di qualità», rappresenterebbero il tentativo di dare alla «guerra» un movente religioso, ma «a posteriori». Non vi è intenzione di segnare un passaggio di livello della qualità, dunque, ma di qualificare finalmente come religioso un fine che evidentemente tale non è, o che comunque si ritiene non sia stato percepito come religioso. Suppongo sia evidente la contraddizione tra il sostenere che il fine religioso sia in radice al piano strategico degli attacchi e allo stesso tempo considerare l’obiettivo religioso come un innalzamento di livello in una supposta escalation. Non regge neppure all’ipotesi che invece si tratti di uno «scontro di civiltà», che pure è cosa abbastanza diversa da una «guerra di religione», sebbene Panebianco le tratti come interscambiabili: posto, infatti, che agli occhi di un attentatore la colpa dell’occidente da colpire sia quella di aver smarrito le sue radici cristiane – che poi sarebbe la stessa imputazione mossagli da chi si erge in sua difesa – e che dunque il bersaglio che si intende colpire non sia tanto il cristianesimo quanto – qui la cito – «l’empietà degli occidentali, [che] per loro non risiedeva nel cristianesimo, ma nell’averlo tradito, abbracciando il materialismo a danno della spiritualità», che senso ha attaccare una chiesa e uccidere un prete? Se ne ha uno, dov’è il «salto di qualità»? In ogni caso, concordo con lei quando scrive che «tutto ciò non ha molta importanza». Per meglio dire: non ne ha molta in assoluto, perché, contestualmente all’argomentare che «la religione c’entra», un’importanza – anche bella grossa – la assume.
(2) Non sono molto d’accordo con lei neppure relativamente alla considerazione che fa sulla chiusa dell’editoriale di Panebianco, dove scrive che l’attacco di Saint-Etienne-du-Rouvray dovrebbe aprire gli occhi alla Chiesa, che avrebbe deciso d’abbandonare l’Europa ormai secolarizzata. Lei sostiene che, come sarebbe dimostrato dalle modifiche apportate al ddl Cirinnà, la sua capacità di ingerenza e, ancor più, il suo interesse all’ingerenza siano ancora patenti. Nel dettaglio ha ragione, e tuttavia è innegabile che sul piano geopolitico la Chiesa abbia già da tempo messo in atto un riposizionamento tattico che privilegia l’attenzione su Asia, Africa e Sudamerica, a discapito di Europa e Nordamerica, per le quali pure stende piani di rievangelizzazione. Non è un’opzione che nasca dal capriccio, ma da una previdente analisi degli sviluppi demografici del pianeta: quando il fine ultimo è quello di durare, «todo modo es bueno». È che la Chiesa è abituata a guardare lontano.
Venendo al cuore della questione posta dalla sua lettera, devo confessarle che vi trovo un limite insuperabile nel porre l’islam al di sopra delle ragioni storiche che l’hanno prodotto, il che la porta a ritenerlo inemendabile al pari di chi ritiene non debba e non possa emendarsi. Si tratta – mi consenta la franchezza – del non riuscire a rappresentarsi pienamente la religione come sovrastruttura. Per l’islam, come d’altronde per il cristianesimo, elementi che dottrinariamente sono postulati come insuperabili riconoscono nel corso dei secoli rimodulazioni che li alterano profondamente per renderli continuamente funzionali a ciò che il dettato religioso ha pretesa di interpretare. In altri termini, è la plasticità dell’esegesi che assicura la sopravvivenza alla tradizione. In tal senso, la citazione del post di Giovanni Fontana è quanto mai opportuna. Sulla tesi lì esposta ho avuto modo di parlare di persona con l’autore nelle due occasioni in cui abbia avuto modo di incontrarci qui a Napoli, peraltro constatando qualche significativa precisazione, che tuttavia non risolve per intero il punto di conflitto. È che io sono dell’idea che ignorare i sei secoli di differenza che ci sono tra islam e cristianesimo porti inevitabilmente a raffronti asimmetrici e dunque un pochino strabici.
Guardi che non voglio sminuire in alcun modo l’orrore che a ragione può incuterle anche l’islam più «moderato»: è il mio stesso orrore, ma ci metto accanto alcune considerazioni che mi pare a lei sfuggano. Lei dice che «nell’islam l’argomento politico incapsula strutturalmente quello religioso, poiché non va dimenticato che il Corano è anche un testo giuridico, un codice, e [citando il libricino] se “in occidente lo stato presuppone la separazione della religione, frutto della libera scelta della coscienza individuale, dalla politica, che riguarda gli interessi collettivi, nell’islam esso presuppone la loro assoluta coincidenza”». Tutto giusto, ma soltanto a rappresentarsi il «date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio» come un programma coerentemente rispettato lungo tutta la storia del cristianesimo. Non voglio appesantire questa mia con ragguagli storici, che d’altronde potrebbero fraintesi come spocchiosa lezioncina, ma ogni raffronto tra cristianesimo e islam che pretenda di trovare nel primo un’intrinseca potenzialità di riforma che si intenda negare all’islam è inevitabilmente destinato a scontare il prezzo di un pregiudizio ideologico, dal quale non è indenne neppure qualche ateo militante. Quanto più questo pregiudizio sia forte, più saranno fatte salde le sciagurate tesi che vedono nel cristianesimo, seppure in embrione, lo stato di diritto, la democrazia e perfino il liberalismo: tutta roba che è venuta in gestazione contro il cristianesimo, e a cui il cristianesimo è stato costretto a fare buon viso a cattivo gioco. Probabilmente accadrà la stessa cosa anche all’islam, solo che non ci sarà dato modo di vederlo.
Sia chiaro che in questa previsione non vi è alcuna speranza, solo la constatazione che alla lunga l’erba spacca il cemento.
(1) Se c’è articolazione tra attentato e attentato, e se quanto ne caratterizza il tratto funzionale è l’essere «guerra di religione», attaccare una chiesa e uccidere un prete arrivano assai in ritardo: più che un «salto di qualità», rappresenterebbero il tentativo di dare alla «guerra» un movente religioso, ma «a posteriori». Non vi è intenzione di segnare un passaggio di livello della qualità, dunque, ma di qualificare finalmente come religioso un fine che evidentemente tale non è, o che comunque si ritiene non sia stato percepito come religioso. Suppongo sia evidente la contraddizione tra il sostenere che il fine religioso sia in radice al piano strategico degli attacchi e allo stesso tempo considerare l’obiettivo religioso come un innalzamento di livello in una supposta escalation. Non regge neppure all’ipotesi che invece si tratti di uno «scontro di civiltà», che pure è cosa abbastanza diversa da una «guerra di religione», sebbene Panebianco le tratti come interscambiabili: posto, infatti, che agli occhi di un attentatore la colpa dell’occidente da colpire sia quella di aver smarrito le sue radici cristiane – che poi sarebbe la stessa imputazione mossagli da chi si erge in sua difesa – e che dunque il bersaglio che si intende colpire non sia tanto il cristianesimo quanto – qui la cito – «l’empietà degli occidentali, [che] per loro non risiedeva nel cristianesimo, ma nell’averlo tradito, abbracciando il materialismo a danno della spiritualità», che senso ha attaccare una chiesa e uccidere un prete? Se ne ha uno, dov’è il «salto di qualità»? In ogni caso, concordo con lei quando scrive che «tutto ciò non ha molta importanza». Per meglio dire: non ne ha molta in assoluto, perché, contestualmente all’argomentare che «la religione c’entra», un’importanza – anche bella grossa – la assume.
(2) Non sono molto d’accordo con lei neppure relativamente alla considerazione che fa sulla chiusa dell’editoriale di Panebianco, dove scrive che l’attacco di Saint-Etienne-du-Rouvray dovrebbe aprire gli occhi alla Chiesa, che avrebbe deciso d’abbandonare l’Europa ormai secolarizzata. Lei sostiene che, come sarebbe dimostrato dalle modifiche apportate al ddl Cirinnà, la sua capacità di ingerenza e, ancor più, il suo interesse all’ingerenza siano ancora patenti. Nel dettaglio ha ragione, e tuttavia è innegabile che sul piano geopolitico la Chiesa abbia già da tempo messo in atto un riposizionamento tattico che privilegia l’attenzione su Asia, Africa e Sudamerica, a discapito di Europa e Nordamerica, per le quali pure stende piani di rievangelizzazione. Non è un’opzione che nasca dal capriccio, ma da una previdente analisi degli sviluppi demografici del pianeta: quando il fine ultimo è quello di durare, «todo modo es bueno». È che la Chiesa è abituata a guardare lontano.
Venendo al cuore della questione posta dalla sua lettera, devo confessarle che vi trovo un limite insuperabile nel porre l’islam al di sopra delle ragioni storiche che l’hanno prodotto, il che la porta a ritenerlo inemendabile al pari di chi ritiene non debba e non possa emendarsi. Si tratta – mi consenta la franchezza – del non riuscire a rappresentarsi pienamente la religione come sovrastruttura. Per l’islam, come d’altronde per il cristianesimo, elementi che dottrinariamente sono postulati come insuperabili riconoscono nel corso dei secoli rimodulazioni che li alterano profondamente per renderli continuamente funzionali a ciò che il dettato religioso ha pretesa di interpretare. In altri termini, è la plasticità dell’esegesi che assicura la sopravvivenza alla tradizione. In tal senso, la citazione del post di Giovanni Fontana è quanto mai opportuna. Sulla tesi lì esposta ho avuto modo di parlare di persona con l’autore nelle due occasioni in cui abbia avuto modo di incontrarci qui a Napoli, peraltro constatando qualche significativa precisazione, che tuttavia non risolve per intero il punto di conflitto. È che io sono dell’idea che ignorare i sei secoli di differenza che ci sono tra islam e cristianesimo porti inevitabilmente a raffronti asimmetrici e dunque un pochino strabici.
Guardi che non voglio sminuire in alcun modo l’orrore che a ragione può incuterle anche l’islam più «moderato»: è il mio stesso orrore, ma ci metto accanto alcune considerazioni che mi pare a lei sfuggano. Lei dice che «nell’islam l’argomento politico incapsula strutturalmente quello religioso, poiché non va dimenticato che il Corano è anche un testo giuridico, un codice, e [citando il libricino] se “in occidente lo stato presuppone la separazione della religione, frutto della libera scelta della coscienza individuale, dalla politica, che riguarda gli interessi collettivi, nell’islam esso presuppone la loro assoluta coincidenza”». Tutto giusto, ma soltanto a rappresentarsi il «date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio» come un programma coerentemente rispettato lungo tutta la storia del cristianesimo. Non voglio appesantire questa mia con ragguagli storici, che d’altronde potrebbero fraintesi come spocchiosa lezioncina, ma ogni raffronto tra cristianesimo e islam che pretenda di trovare nel primo un’intrinseca potenzialità di riforma che si intenda negare all’islam è inevitabilmente destinato a scontare il prezzo di un pregiudizio ideologico, dal quale non è indenne neppure qualche ateo militante. Quanto più questo pregiudizio sia forte, più saranno fatte salde le sciagurate tesi che vedono nel cristianesimo, seppure in embrione, lo stato di diritto, la democrazia e perfino il liberalismo: tutta roba che è venuta in gestazione contro il cristianesimo, e a cui il cristianesimo è stato costretto a fare buon viso a cattivo gioco. Probabilmente accadrà la stessa cosa anche all’islam, solo che non ci sarà dato modo di vederlo.
Sia chiaro che in questa previsione non vi è alcuna speranza, solo la constatazione che alla lunga l’erba spacca il cemento.